lunedì 13 aprile 2020

In die Paschae. Un inno di Sant'Ambrogio per il tempo pasquale


Come ricordò Benedetto XVI durante l’udienza generale del 24 ottobre 2007 dedicata a Sant’Ambrogio di Milano (vedi qui il testo completo; oppure in BENEDETTO XVI, I padri della Chiesa. Da Clemente Romano a Sant’Agostino, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 141-146):
Il santo Vescovo Ambrogio morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne Triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. “Noi vedevamo muoversi le sue labbra”, attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, “ma non udivamo la sua voce”. A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: “Alzati, presto! Ambrogio sta per morire...”. Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – “e porse al Santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli” (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita. 
Sant’Ambrogio, cui la terra lombarda deve ancor oggi la propria vita ed esistenza, entrava così, con “le braccia aperte in forma di croce” e con l’anima unita a Cristo, crocefisso, morto e risorto, nella Pasqua e nella gloria del Signore. Anni prima aveva scritto un inno In die Paschae le cui parole, in una visione congetturale, potrebbero essere state proprio quelle mormorate dal Vescovo morente e non udite dal diacono Paolino:

Hic est dies verus Dei,
sancto serenus lumine,
quo diluit sanguis sacer
probrosa mundi crimina.

Fidem refundens perditis
caecosque visu illuminans.
quem non gravi solvit metu
latronis absolutio?

Qui praemium mutans cruce
Iesum brevi quaesit fide,
iustusque praevio gradu
pervénit in regnum Dei.

Opus stupent et angeli,
poenam videntes corporis
Christoque adhaerentem reum
vitam beatam carpere.

Mysterium mirabile!
ut abluat mundi luem,
peccáta tollat omnium
carnis vitia mundans caro!

Quid hoc potest sublimius,
ut culpa quaerat gratiam?
Metumque solvat caritas,
reddatque mors vitam nova?

Hamum sibi mors devote,
suisque se nodis licet:
moriatur vita omnium,
resurgat vita omnium.

Cum mors per omnes transeat,
omnes resurgant mortui:
consumpta mors ictu suo
perísse se solam gemat.

E nella versione italiana:

È questo il vero giorno di Dio,
radioso di santa luce,
che vede un sangue sacro detergere
i vergognosi delitti del mondo

Agli smarriti ridonò la fede;
ridiede luce, con la vista ai ciechi.
Chi sarà ancora oppresso da timore
dopo il perdono del ladro?

Questi mutò la sua croce in un premio,
Gesù acquistando con rapida fede;
così, giustificato,
arrivò primo nel regno dei cieli.

Persino gli angeli ne stupiscono
contemplando lo strazio delle membra
e, tutto stringendosi a Cristo, il reo carpire la vita beata,

O mistero mirabile! Una carne
purifica i vizi della carne.
deterge il contatto del mondo
e toglie i peccati di tutti!

Che c'è di più sublime?
Cerca la grazia la colpa,
è dall'amore vinta la paura
la morte ci ridona a vita nuova.

Si divori la morte il proprio amo,
nei suoi lacci si impigli:
muoia la morte di tutti,
di tutti la vita risorga.

Poi che tutti la morte avrà falciato,
tutti i morti risorgano;
e, da se stessa annientata, la morte
d'esser perita lei solo si dolga.

Così la morte cristiana, della quale la morte di Cristo è tipo ed esempio perfetto, la morte del ladrone per primo e la morte di Sant’Ambrogio, dopo già molti martiri e santi, entra in un movimento salvifico che giunge fino alla fine dei tempi, come spiega efficacemente Monsignor Inos Biffi in un’annotazione all’inno (vedi Opera omnia di Sant’Ambrogio. Inni, iscrizioni, frammenti, vol. 22, Città Nuova, Roma 1994, pp. 54-55):
Questo inno, come dice il titolo, è stato composto per il giorno di Pasqua. Con alcune avvertenze, però: che il “giorno di Pasqua” è lo spazio di tempo in cui si è operata la salvezza del mondo, e perciò include dentro di sé, oltre che il giorno della resurrezione, anche quello della passione e della morte del Signore; che il “giorno di Pasqua” dura liturgicamente cinquanta giorni e trova il suo compimento nella Pentecoste; che il “giorno di Pasqua” è l’intera storia della Chiesa in quanto essa continua a rigenerare gli uomini alla vita della grazia e a destinarli al cielo.
Alla luce serena della risurrezione, la contemplazione del poeta rivive con gioia tranquilla gli “avvenimenti pasquali” nella loro cosmica complessità: le apparizioni del risorto che ridanno ai discepoli accecati lo sguardo penetrante della fede; la conversione del ladro crocifisso, che arriva alla vita beata; lo stupore degli angeli per tanta effusione di misericordia; la rinascita dell’umanità che, mediante il battesimo, è sciolta dall’angoscia del peccato e della vecchiezza; il nostro destino di risurrezione; la fine del dominio della morte. È ammirevole la capacità di cogliere l’intera ricchezza della redenzione di Cristo, in una sintesi eloquente e senza forzature, che vede collocato al centro il condannato a morte arrivato per primo a varcare la soglia del Paradiso, quasi a raffigurazione emblematica dell’umanità destinataria dell’incredibile pietà divina.
L’inno può essere ascoltato qui nella sua versione cantata gregoriana.

sabato 4 aprile 2020

Dalla dittatura sanitaria al Leviatano della salute. Osservazioni su uno sviluppo in atto

Nel contesto della conferenza stampa di presentazione dell’ultimo DPCM (del primo aprile) il Presidente del Consiglio Conte ha ribadito un’idea che ritorna insistentemente nelle sue dichiarazioni almeno dall’inizio del 2020:
Noi politici ci avvaliamo delle raccomandazioni del comitato scientifico, perché la politica non è abilitata ad affrontare un nemico sconosciuto. Ma la politica deve mettere insieme diversi interessi partendo da quelli costituzionalmente sanciti, e il primo diritto garantito dalla Costituzione è quello alla salute (vedi qui)
Una simile affermazione non soltanto attesta una resa caotica della prudenza politica di fronte ai dettami degli esperti scientifici in un momento in cui sono evidentemente divisi nei giudizi e incapaci di dare una risposta alla crisi sanitaria nell’ambito loro proprio, ma anche la cosciente sovversione del sistema costituzionale nel suo patrimonio storico-giuridico. Storico in quanto ricettacolo di una storia giuridica e concettuale che trascende gli stessi sviluppi dello Stato costituzionale moderno (nella cui essenza è, in realtà, già riposto il pericolo) e in quanto tale patrimonio costituisce, proprio nella sua storicità, un limite insistente alle pretese di una legislazione meccanizzata (soprattutto per decreti) capace di distruggere, secondo la profezia, ormai lontana, del giurista tedesco Julius Hermann von Kirchmann, l’intera tradizione giuridica e sociale di un popolo.

I giuristi scriveva Kirchmann nel 1848 “sono diventati, tramite la legge positiva, come vermi che vivono soltanto di legno marcio”, mentre “tre parole del legislatore” bastano a “trasformare intere biblioteche in carta da macero” (J. H. von Kirchmann, Die Wertlosigkeit der Jurisprudenz als Wissenschaft, Muntius Verlag, Heidelberg 1988, pp. 28-29). Sembra l’attualità, ma con una differenza: che qui, al posto del “lento” e riflessivo (nel bene e nel male) legislatore ottocentesco, abbiamo un governo dalle scarse competenze umane e spirituali al servizio della rivoluzione tecnica mondiale. E, proprio per questo, c’è qui, come in ogni banalità, una smisurata volontà di potenza.

È proprio l’affermazione del Presidente del Consiglio italiano – “il primo diritto garantito dalla Costituzione è quello alla salute” – a rendere “legno marcio” la Costituzione italiana, con buona pace di transeunti elogiatori, che ora tacciono, e di fin troppo generosi complimenti (“la costituzione più bella del mondo”!) profusi su un testo in gran parte ideologico e giuridicamente debole. In realtà l’Art. 32 della Costituzione (ognuno lo può leggere) non è più che una “garanzia istituzionale” di una pretesa diffusa (ossia creata dal costituente, secondo un’insuperata distinzione di Carl Schmitt nell’ambito della Costituzione di Weimar) che non può essere fatta prevalere, né sul piano logico né su quello sistematico, sui “diritti di libertà” del Primo titolo della Costituzione, a partire dall’Art. 13 Cost. Questo articolo è infatti come una costituzione nella costituzione, il bastione della tradizione giuridica occidentale, dall’Habeas corpus in poi, nella palude incerta e pericolosa dello Stato sociale (in cui ben si inquadra l’Art. 32):
La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
C’è nell’inviolabilità l’idea di una radice prestatale e precostituzionale della libertà di ogni uomo, fondata nel diritto naturale, che non deve essere necessariamente letto nella sua comprensione moderna. Di qui la conclusione che tale libertà può essere limitata soltanto in base al diritto, allo ius (“nei casi previsti dalla legge” è già una corruzione liberale e positivista, ma ancora lontanissima dall’arbitrio della decretazione cui assistiamo) e a un atto del giudice (“autorità”) che lo applica. Se si volesse trovare nel quadro costituzionale il fondamento negato (dalla famigerata l. 194) della tutela della vita e della “vita non nata”, bisognerebbe cercarlo nell’Art. 13 e non nell’Art. 32 Cost.

L’elevazione della salute a “primo diritto garantito dalla Costituzione” non instaura quindi soltanto una dittatura sanitaria, in cui una pretesa sociale è fatta prevalere, insieme al suo apparato esecutivo, amministrativo e tecnico-scientifico, sulla libertà di ogni individuo, ma, più in profondità, un sistema politico in cui la salute è gerarchicamente posta al di sopra della sua “sostanza” ontologica che è la vita. E lo Stato decretante, in quanto elargitore tecnico e autoposto di salute (e comunque non di salvezza), al di sopra di tutto.

A dimostrare che non si tratta di conclusioni affrettate o di mere insinuazioni è la recente intervista rilasciata dal noto costituzionalista Gaetano Azzariti al Fatto Quotidiano (vedi qui), attualmente il più filogovernativo dei giornali. Il professor Azzariti non si attarda nel “legno marcio” della Costituzione o nella “carta da macero” del diritto, ma insegue le norme della turbo-decretazione del Presidente del Consiglio per equipaggiarle di una dottrina fondante che, cosa curiosa per un lettore marxista della Costituzione, gli è suggerita dal vecchio Thomas Hobbes, teorico del Leviatano. Nella risposta che dà senso compiuto a tutta l’intervista afferma infatti Azzariti:
Un punto deve essere chiaro. È vero che ci cono interessi in gioco che hanno rilievo costituzionale però, e penso a Thomas Hobbes, su tutto prevale il diritto alla vita, nella forma essenziale del diritto alla salute. Di fronte a questo tutti gli altri diritti devono essere limitati. È il primo compito dello Stato quello di tutelare la vita e la salute.
Qui la salute diventa la “forma essenziale”, l’essenza stessa, della vita e del diritto a essa. Come si vede, ci sono ragioni sufficienti per preoccuparsi.

A.S.

giovedì 2 aprile 2020

Stella celi extirpavit. La tradizione medioevale di un inno mariano per il tempo della pestilenza

Dal 2007 una giovane studiosa inglese cura il blog A Clerk of Oxford (qui) nel quale si parla, con straordinaria perizia filologica e storica, di “letteratura e di storia medioevale inglese come anche di santi, chiese, folklore, vichinghi, poesia e di ogni altra cosa che mi interessa”, il tutto non senza una soffusa ironia che rende la lettura assai piacevole oltre che sempre interessante e istruttiva. Nel presente tempo di pestilenza, che ammorba anche la terra d’Inghilterra, il sito ha proposto una preziosa esposizione sull’inno mariano Stella Celi Extirpavit (attestato in Inghilterra a partire dal XV secolo) e sulla tradizione poetica, religiosa e musicale sviluppatasi intorno a esso. In particolare sono riportati e commentati la traduzione in inglese dell’inno attribuita a James Ryman (vissuto alla fine del XV sec.) e un componimento poetico di John Lydgate (1370-1450). Quest’ultimo fu monaco nel monastero benedettino di Bury St Edmunds, seguace di Chaucer, del cui figlio fu amico, e autore prolifico di prose e di versi (Mario Praz nella sua Storia della letteratura inglese, Sansoni, Firenze 1979, p. 42, lo definisce “il più voluminoso poeta inglese che nella prima metà del Quattrocento occupò una posizione predominante”, e cita un suo verso in cui “è riflesso l’umore del secolo”: “Chekemate to beawtye, seyth rymplyd age”: Scaccomatto alla bellezza, disse la grinzata vecchiaia. Come non pensare a L’autunno del Medioevo di Johan Huizinga?). Ryman fu invece frate nella Casa dei Francescani di Canterbury e autore di canzoni e inni religiosi, di una carola di Natale, di poesie in onore di San Francesco (definito “witty and wise”) e di dialoghi tra Cristo e sua Madre. In lui sembra essere ancora viva la tradizione mariana del francescanesimo inglese a partire da Guglielmo di Ware e dal beato Duns Scoto. Prima di leggere il testo di A Clerk of Oxford, di cui riportiamo qui di seguito la prima parte nella nostra emendabile traduzione, si raccomanda l’ascolto dell’inno Stella Celi Extirpavit nella meravigliosa resa gregoriana (qui). Alla tradizione musicale è dedicata la seconda parte dell'articolo che può essere consultata nel testo originale (qui).

Di ritorno in Avvento, rivisitai le poesie del frate del XV secolo James Ryman per scrivere un post sulla carola d’Avvento O Orient Light (qui). Lessi una serie di poesie di Ryman che non avevo mai visto prima, e registrai quelle che mi interessavano con un occhio ai blogpost futuri. Una mi sembrò insolita e ne presi nota, anche se ero abbastanza sicura che non avrei mai trovato un'occasione adatta per pubblicarla in questo blog. Ma era tempo d'Avvento, ed eccoci qui in Quaresima, la Quaresima più lunga della nostra vita. E questa è una preghiera per un tempo di peste.

The heavenly star so bright and clear, 
That fed the Lord of indulgence, 
Hath put away both far and near 
Of ghostly death the pestilenze, 
That our parent wrought by offence: 
[May] she cease the stars' war and wrath, 
That dimmeth us by sharp stroke of death. 

O spouse of Christ, mother of grace, 
O benign queen of heaven bliss, 
Cause us in bliss to have a place, 
Whereof the joy shall never miss, 
Where next unto God thy throne is, 
And for our sin and our misdeed 
Let not Satan ay us possess.

[La stella celeste così luminosa e chiara,
Che alimentò il Signore della grazia
Eliminò in prossimità e in lontananza
La pestilenza della morte spirituale
Che il nostro antenato ottenne col peccato:
Possa por fine alla guerra e all’ira delle stelle
Che ci offusca con l’acuminato colpo della morte.

O sposa di Cristo, madre di grazia,
O benigna regina della beatitudine celeste
Facci aver un posto nella beatitudine
Dove la gioia non deve mai mancare,
Dove il tuo trono è vicino a Dio.
E per il nostro peccato e i nostri misfatti
Non lasciare che Satana ci possegga.] 

È questa la traduzione di Ryman di Stella Celi Extirpavit, un inno attestato per la prima volta in alcuni manoscritti inglesi del XV secolo, nei decenni successivi alla Morte Nera. L’articolo di Christopher Macklin su Plague, Performance and the Elusive History of the Stella Celi Extirpavit (vedi qui) fornisce la storia dell'inno e, insieme alla traduzione, il seguente testo della versione latina più comune di Stella Celi (quella di Ryman è un po’ diversa):

Stella celi extirpavit 
que lactavit Dominum 
mortis pestem, quam plantavit 
primus parens hominem. 
Ipsa stella nunc dignetur 
sydera compescere; 
quorum bella plebem cedunt 
dire mortis ulcere. 
O gloriosa stella maris, 
a peste succurre nobis. 
Audi nos: nam Filius tuus 
nihil negans te honorat 
Salva nos, Jesu, pro quibus 
virgo mater te orat.

[Stella del cielo
che diede latte al Signore,
estirpò la peste della morte
che piantò il primo genitore degli uomini.
Quella stessa Stella or si degni
a trattenere gli astri
le cui guerre distruggono
il popolo con la crudele ulcera della morte.
O gloriosa Stella del mare,
soccorrici dalla peste.
Ascoltaci: infatti il tuo Figlio,
che ti onora, nulla ti nega.
Gesù salva noi, per i quali
la Vergine Madre ti prega.]

L’inno si rivolge a Maria e implora che, poiché suo Figlio eliminò la piaga del peccato che assalì l'anima, le sue preghiere possano aiutare a porre fine alla piaga che attacca il corpo. Il contesto storico specifico è chiaro: l'allusione alle “crudeli ulcere della morte” è un riferimento diretto ai gonfiori che erano uno dei sintomi della Morte Nera.

In linea con il pensiero scientifico del tempo, l'inno vede la malattia come originata dall'allineamento delle stelle, e così chiede l'aiuto di Maria come “stella del cielo”: la Vergine è immaginata come una buona stella della pace e della vita che può frenare la stelle maligne di guerra e morte. La lingua dell’inno attinge in parte anche alle immagini tradizionali di Maria come guaritrice e nutrice, concentrandosi ad esempio sull'alimentazione del suo Figlio (Lactavit Dominum). Nell'immagine di colei che “sradica” la pianta della morte, c'è forse anche un’allusione alla consolidata associazione medievale di Maria alle piante vivificanti, che la dipinge come un albero che porta il frutto della vita (vedi qui) o come un dottore che porta erbe curative (vedi qui). Nel complesso, Maria è presentata come tutto ciò che è salutare e nutriente, un potente interceditrice e portatrice di salute e speranza.

Questo testo è ampiamente registrato in fonti tardo medioevali, anche accompagnato dalla musica. Oltre alla versione di Ryman, scritta a Canterbury alla fine del XV secolo, ci sono altre due poesie inglesi basate sull'inno, attribuite al poeta John Lydgate di Bury St Edmunds. Eccone una (nell'ortografia moderna; qui in inglese medio):

Thou heavenly queen, of grace our lodestar, 
With thy chaste milk plenteous of plesaunce 
Gave Jesu suck, puttest away the war 
Of pestilence, to appease our grievance, 
Our well of mercy, our joy, our sufficence, 
Flower of virgins, mother of most price, 
Racedist up all surfetis of mischiante, 
That our forefather planted in Paradise. 

Thou same star, of stars none so bright, 
Celestial star of beauty most sovereign, 
To thee we pray, on us cast down thy sight, 
Only of mercy that thou not disdain, 
Of infected air the mists to restrain, 
That by thy gracious most wholesome influence 
We have no cause on hasty death to pleyne, 
Which slayeth the people by sword of pestilence. 

Our trust is fully, and our confidence, 
Undespaired in our opinion, 
Against all weathers of corrupt pestilence, 
By thy request and mediation, 
And by thy Son's glorious Passion, 
And remembrance of thy joys all, 
Against froward airs causing infection, 
Defend us, Lady, when we to thee call. 

For as Phoebus chaseth mists black, 
Toward midmorrow with his beams clear, 
And Lucifer biddith sluggy folk awake, 
In the orient first, when he doth appear, 
Right so mayest thou in thy celestial sphere, 
O star of stars, star of most excellence, 
Maid and mother, by means of thy prayer, 
Save all thy servants from stroke of pestilenze.


[Tu Regina celeste, nostra stella polare di grazia,
Che con il tuo casto latte pieno di grazia
Allattasti Gesù, allontana la guerra
Della pestilenza, per placare le nostre doglianze,
Nostra fonte di misericordia, nostra gioia, nostra pienezza,
Fiore delle vergini, madre di grandissimo pregio,
Tu che sradicasti ogni eccesso di sventura
Che i nostri padri piantarono in Paradiso.

Tu che sei stella, tra le stelle nessuna così luminosa,
Stella celestiale di sovrana bellezza,
A te rivolgiamo preghiere, rivolgi a noi di lassù il tuo sguardo,
Ch’è solo di misericordia, non disdegnar
Di trattener le nebbie di aria infetta,
Affinché, per la tua graziosa e salutare influenza,
Non dobbiamo piangere per l’affrettata morte,
Che uccide il popolo con la spada della pestilenza.

Piena è la nostra fiducia, e pieno il nostro affidarci a te,
Non c’è disperazione nella nostra fede,
Contro tutte le intemperie della corrotta pestilenza,
Per le tue istanze e per la tua mediazione
E per la passione del tuo glorioso Figlio,
E per il ricordo di tutte le tue gioie,
Contro le arie ostinate che causano l’infezione,
Difendici, o Signora, quando ti invochiamo.

Perché come Febo insegue le nere nebbie,
Verso mezzogiorno, con i suoi raggi splendenti,
E Lucifero [il sole] risveglia gli uomini dal sonno,
Quand’egli appare a Oriente,
Così tu, nella tua sfera celeste, possa,
O stella delle stelle, eccellentissima stella,
Vergine e madre, per mezzo delle tue preghiere,
Salvare tutti i tuoi servi dai colpi della pestilenza.]

A differenza dell’inno latino, questo componimento poetico e quello di Ryman non fanno riferimento alle ulcere; qui le descrizioni della malattia e della sua causa sono (forse deliberatamente) più generali, più applicabili a qualsiasi focolaio di malattia. Lydgate parla delle “arie ostinate che causano l’infezione” e delle “nebbie” malsane che egli chiede a Maria di spazzare via come il sole al mattino. La versione di Ryman è meno scientifica e chiede invece la liberazione dalla forza che “ci offusca con l’acuminato colpo della morte”. Il pensiero che le epidemie ci “oscurano” (vedi qui) ossia che gettano un’ombra scura sulle nostre vite, è particolarmente toccante. Tutte le versioni di questo inno, con le loro concezioni astrologiche e mediche, provengono da un mondo medievale molto estraneo a noi che, per una volta, appare molto vicino.