Molto si potrebbe dire dell’intervista (che riportiamo qui sotto) al professor Massimo Borghesi, ordinario di filosofia morale a Perugia, pubblicata da Tracce, la rivista internazionale di Comunione e Liberazione, il 21 ottobre.
Il contenuto delle affermazioni del Professore meriterebbe di essere seriamente discusso, e probabilmente anche contestato, sul piano storico, politologico e teologico.
Tuttavia,
Vigiliae Alexandrinae non è una rivista scientifica ma un luogo di riflessione nell’attuale momento di crisi della Chiesa.
Quale riflessione dunque sulla scelta della rivista ciellina di proporre una simile intervista ai suoi lettori?
Proviamo ad immaginare quale sia il messaggio immediato che giunge al lettore senza cultura specialistica e ancor meno senza cultura specialistica critica.
Eccolo. La laicità sarebbe principio politico tipicamente cristiano, avvalorato niente di meno che dallo stesso pensiero dei Padri della Chiesa, in particolare di sant’Agostino. Assisteremmo poi al tradimento di questo principio con l’inizio dell’era cosiddetta costantiniana. Tale tradimento cesserebbe, e giustizia sarebbe resa al “vero” cristianesimo, con il Concilio Vaticano II.
Sembra un tesi neo-marcionita.
Invero il diritto pubblico della Chiesa ha sempre riconosciuto tanto la tolleranza religiosa quanto la libertà religiosa come due possibili opzioni pratiche in circostanze date (quelle di una società non cristiana o non del tutto cristiana). Non tuttavia come l’
optimum, che non può che essere rappresentato da una vera
societas christiana, in cui ogni
auctoritas - familiare, civile e religiosa - è alleata per la conservazione dell’unico ordine naturale e soprannaturale di Dio e per il fine supremo della
salus animarum.
Tale idea è espressamente formulata proprio da sant’Agostino proprio nel
De civitate Dei (XIX, 21): “Perciò è ora l’occasione di esporre, con la brevità e chiarezza che potrò, la tesi che ho promesso di dimostrare nel secondo libro di questa opera, sulla base delle definizioni che in Cicerone usa Scipione, nei libri su Lo Stato, e cioè che non è mai esistito uno Stato romano. Definisce in sintesi che lo Stato (res publica) è la cosa del popolo. Se la definizione è vera, non è mai esistito lo Stato romano, perché mai fu cosa del popolo, ed egli ha dimostrato che questa è la definizione dello Stato. Ha infatti definito il popolo come l’unione di un certo numero d’individui, messa in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipazione degli interessi. Nel dibattito spiega che cosa intende per conformità del diritto, poiché dimostra che senza la giustizia non si può amministrare lo Stato; è impossibile dunque che si abbia il diritto in uno Stato in cui non si ha vera giustizia. L’atto che si compie secondo diritto si compie certamente secondo giustizia ed è impossibile che si compia secondo il diritto l’atto che si compie contro la giustizia. Infatti non si devono definire e considerare diritto le illegali istituzioni di certi individui, poiché anch’essi considerano diritto la norma che promana dalla sorgente della giustizia. È falso inoltre ciò che per sistema si afferma da alcuni, i quali sostengono l’erronea opinione che è diritto quel che promuove l’interesse del più forte. Pertanto nello Stato, in cui non si ha la vera giustizia, non vi può essere l’unione d’individui messa in atto dall’uniformità del diritto e quindi neanche il popolo secondo la definizione di Scipione e Cicerone; e se non v’è il popolo, non v’è neanche la cosa del popolo, ma di una massa d’individui che non merita il nome di popolo.
Quindi se lo Stato è cosa del popolo, ma non si ha un popolo perché non è associato nella conformità del diritto, inoltre non si ha il diritto perché non v’è la giustizia, si conclude senza alcun dubbio che lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non è uno Stato. La giustizia infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo. Dunque non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo stesso al Dio vero e lo rende sottomesso ai demoni infedeli. Questo non è distribuire a ciascuno il suo. Chi estorce il campo di colui dal quale è stato acquisito e lo cede a chi non ha alcun diritto su di esso è ingiusto, a più forte ragione non è giusto chi sottrae se stesso al Dio Signore, da cui è stato creato, e si rende schiavo degli spiriti malvagi”.
Non solo. Sant’Agostino, proprio invocando l’intervento dell’Imperium nel 404 - 405 in occasione della crisi donatista, mostra anche all’atto pratico di non confondere, come si fa oggi, la
libertas Ecclesiae con la libertà religiosa.
La separazione (non la semplice distinzione) di ordine naturale e ordine soprannaturale, figlia del naturalismo teologico, ci consegna invece una teologia-politica in cui quest’alleanza tra il gladio e l’altare è spezzata. Trionfa così un’idea immanente dei diritti umani (il diritto sussisterebbe nell’uomo in sé e non già nell’uomo in quanto creatura voluta e amata da Dio) e si negano i diritti di Dio sulla società, quasi che quest’ultima non fosse a sua volta una Sua creatura.
Tutto ciò è stato chiaramente disapprovato da Pio XI nella lettera enciclica Quas Primas.
Curioso, davvero curioso che la creatura pensi di potere stabilire condizioni e limiti dei diritti del Creatore.
L’era costantiniana è davvero finita. Dove un tempo trionfava
Deo Optimo Maximo, ora trionfa la
Libertas Optima Maxima.
Davvero CL vuole giungere a tanto? Davvero vuole confondere la
libertas Ecclesiae con la libertà religiosa? Davvero, dopo le coraggiose battaglie (in materia di famiglia e bioetica) condotte negli anni Settanta e quelle che ancora conduce, vuole rinunciare all’unico vero motivo che le rende meritorie agli occhi di Dio (testimoniare la Sua Verità e la Sua Giustizia) e che forse attirerà le Sue benedizioni per condurle fino alla vittoria?
da TRACCE, 21.10.2013:
CRISTIANI E POLITICA
Un filo rosso tra Ratzinger e Bergoglio
di Luca Fiore
21/10/2013 - Laicità, presenza, valori non negoziabili. I due pontefici viaggiano sullo stesso binario. Quello di sant'Agostino. Per il filosofo Massimo Borghesi il modello di entrambi «non è quello medievale, ma quello delle comunità dei primi secoli»
Francesco e Benedetto sono diversi, a tratti molto diversi. Ce ne siamo accorti quasi subito, sentendo parlare il nuovo Papa dalla loggia centrale di San Pietro appena dopo l’elezione. Solo una questione di stile? O c’è di più? Il dibattito è rovente. Alcuni dicono: no, tra loro c’è una sostanziale continuità. Eppure quando si inizia a considerare come i due pontefici intendono il rapporto tra Chiesa e potere politico, o il ruolo dei cristiani in politica, gli animi si scaldano e i conti sembrano non tornare. Ma è davvero così? Per Massimo Borghesi, ordinario di Filosofia morale a Perugia, anche su questo punto i due viaggiano sullo stesso binario. Che è il binario di sant’Agostino. Borghesi ha pubblicato di recente Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana (Marietti, 2013) dove per “teologia politica” il filosofo intende quella concezione per cui il “teologico” si attua attraverso il “politico”. A questa impostazione viene contrapposta quella della “teologia della politica”, nella quale il rapporto tra le due sfere non è meccanico, ma mediato dalla morale, dal diritto, dal contesto in cui si agisce. È il messaggio del De civitate Dei di Agostino, il quale, dice Borghesi, è il faro sia del Papa emerito che del Pontefice venuto quasi dalla fine del mondo.
Alcune affermazioni di papa Francesco sul rapporto tra Chiesa e sfera pubblica sono state accolte da molti come novità rispetto alle posizione dei suoi predecessori. Siamo di fronte davvero a una rottura con il passato recente?
Il dibattito si sta configurando nella solita alternativa, quella che divide tradizionalisti e modernisti. Dove i primi cercano di tirare dalla propria parte Benedetto XVI e i secondi papa Francesco. Al di là della evidente differenza tra lo stile dei due, io vedo un filo rosso che unisce i due pontificati.
Quale?
Sia Benedetto che Francesco criticano la mondanizzazione della Chiesa. Ratzinger alla vigilia del suo pontificato aveva parlato della «sporcizia» dentro la Chiesa, invocando trasparenza per gli scandali di pedofilia, e ha sempre cercato di riproporre una Chiesa evangelica. Tutto questo si ritrova, esaltato anche nelle forme esteriori, nel pontificato di Bergoglio. Ciò che li accumuna è lo sguardo verso la Chiesa dei primi secoli. Non è un caso che tanto Benedetto quanto Francesco abbiano in sant’Agostino un punto di riferimento essenziale.
Che cosa vuol dire?
Dire Agostino significa parlare di una Chiesa che affonda le sue radici nell’era patristica, non ancora dominata dall’idea del Sacrum Imperium. Ratzinger l’ha scritto più volte indicando come modello per la Chiesa di oggi, non quello medievale ma quello delle prime comunità cristiane che vivono in un contesto pagano. È una Chiesa rispettosa della laicità dello Stato e dei suoi ordinamenti. Agostino, per Ratzinger, significa la chiara distinzione tra le due “città”, tra grazia e natura, tra escatologia e storia. Significa la critica della teologia politica. Com’egli scrive: «Il cristianesimo, in contrasto con le sue deformazioni, non ha fissato il messianismo nel politico. Si è sempre invece impegnato, fin dall’inizio, a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell’etica. Ha insegnato l’accettazione dell’imperfetto e l’ha resa possibile. In altri termini, il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica». È una posizione simile che rende possibile la chiara distinzione dei Regni, la differenza tra Stato e Chiesa, la critica all’integrismo e il riconoscimento (moderno) della sfera della laicità fondamentale per la vita dello Stato democratico.
Eppure neanche Agostino, come spiega nel suo libro, fu sempre chiaro sulla distinzione tra i compiti dello Stato e della Chiesa. È una difficoltà che la Chiesa si è portata dietro a lungo. Perché?
È il grande dramma che attraversa l’opera di Agostino. Vista la grande influenza che ebbe durante il Medioevo, c’è un fattore che comporterà gravi conseguenze. Sto parlando della svolta che il Vescovo di Ippona opera a partire dal 404-405. Fino a quel momento era per l’assoluta libertà di religione e lo Stato non doveva interferire su questa questione. Agostino, in sostanza, si era attenuto all’Editto di Costantino del 313, che assicurava libertà religiosa a tutti, pagani e cristiani. Poi accade che l’imperatore Onorio, dopo l’uccisione di un vescovo africano a opera di bande criminali che appoggiano i donatisti, applica verso questi eretici le stesse leggi che valevano contro i manichei: confisca dei beni e pene molto pesanti. Su sollecitazione degli altri vescovi africani, Agostino recede dalla sua prima idea e si convince che l’intervento dello Stato è opportuno anche nel perseguitare gli eretici.
Perché è così importante questo episodio?
Perché lo Stato diventa a tutti gli effetti uno Stato confessionale che ammette la sola religione cattolica, come voleva Teodosio. Lo Stato non può più accettare la posizione degli eretici i quali, indipendentemente dagli atti che compiono, vengono giudicati e condannati. In termini moderni: non hanno gli stessi diritti civili dei credenti “ortodossi”. Questa svolta agostiniana influenzerà pesantemente il periodo successivo, servirà da legittimazione nella persecuzione degli eretici.
Se è così, perché si ritorna ad Agostino?
Perché la questione agostiniana non si esaurisce in questo, rilevante, cambiamento del suo pensiero. La Città di Dio, scritta dopo il sacco di Roma di Alarico, nel 410, è un’opera che si colloca a pieno titolo nel quadro della libertà religiosa e della distinzione tra Chiesa e Stato precedente all’Editto di Tessalonica con cui Teodosio, nel 380, promulgava il cattolicesimo come unica religione dell’impero. Nella sua opera Agostino, replicando ai pagani che collegavano la disgrazia della città eterna con l’abbandono degli antichi dèi, separava le due città, Città di Dio e Città del mondo. Lo Stato è una realtà secolare, non politico-religiosa, e il Dio cristiano non è il Dio degli eserciti che assicura gloria e potenza. In tal modo l’imperatore può anche essere cristiano, ma non può esserlo l’impero. Compito dello Stato non è edificare la religione, ma conservare la pace, un valore che sta a cuore a tutti, cristiani e pagani. Si apre, in questo modo, la possibilità di intendere una sfera “laica”, l’ambito del temporale distinto da quello teologico-spirituale. Una novità assoluta derivata dalla distinzione dei Regni operata da Cristo.
Un altro punto di eterno dibattito è il rapporto tra la Chiesa e la modernità. Spesso se ne parla come di un insanabile conflitto.
Qui si pone un problema che è anche di ordine culturale. Nel senso che davvero talvolta si ha l’impressione che il Concilio Vaticano II non sia stato acquisito dalla coscienza cattolica comune. Il Concilio rappresenta una svolta nel rapporto tra Chiesa e modernità. Questa è la sua importanza, nel senso che chiude un capitolo, quello dello scontro frontale tra Chiesa e modernità, come si è avuto per tutto l’Ottocento e in parte il Novecento. Quella che si è aperta allora è una stagione all’insegna di un rapporto critico ma anche positivo.
In che termini si poneva questo scontro?
Nell’Ottocento la Chiesa aveva di fronte a sé uno Stato liberale decisamente ostile. Non parliamo poi dei totalitarismi del Novecento. Entrambi, lo Stato laico dell’Ottocento e quello totalitario del Novecento, si sono posti verso la Chiesa in termini fortemente aggressivi, anticlericali e persecutori. La Chiesa, per reazione, si è chiusa in se stessa vagheggiando i tempi del Sacrum Imperium medievale. Si guardava al passato come a un tempo mitico e ideale e lo si contrapponeva all’intera modernità vista come il tempo della caduta e della perversione.
Che cosa ha prodotto la svolta?
Alla fine della Seconda guerra mondiale, la stessa modernità è diventata, in parte, autocritica rispetto a se stessa. Il totalitarismo ha interrogato la modernità e in parallelo anche la Chiesa ha imparato ad avere un rapporto diverso con la democrazia moderna. Questo non solo alla luce dell’esperienza americana, ma anche di quella delle democrazie cristiane europee. C’è stato un processo di avvicinamento da entrambe le parti che ha portato al risultato del Vaticano II, con la Gaudium et spes e soprattutto con la Dignitatis humanae, il documento sulla libertà religiosa.
La svolta è stata interpretata da alcuni come rottura con il passato.
Sì, i tradizionalisti l’hanno condannata come tradimento della tradizione. I modernisti l’hanno celebrata come vittoria e rottura radicale con la Chiesa “costantiniana”. Quel che entrambe le parti non hanno visto è che la Chiesa, in realtà, distinguendo tra principi ed applicazioni (contingenti), ha abbandonato il modello teologico-politico impostosi dopo Teodosio ed ha recuperato la tradizione dei primi quattro secoli. È la Chiesa dei padri: Tertulliano, Lattanzio, Ilario, Atanasio. Quella che aveva trovato nell’Editto di Costantino la sua formula ideale. I Padri avevano affermato la libertà di religione come un diritto naturale, proprio di tutti gli uomini, perché il culto della divinità non poteva essere imposto. Quindi il Concilio ha riscoperto la tradizione più originale della Chiesa. Ciò che è interessante è rilevare come l’incontro con il moderno avvenga proprio a partire dal recupero della tradizione patristica.
Qual è questo aspetto?
È proprio il tema della libertà di religione. L’idea di Stato confessionale, l’idea del Sacrum Imperium, è quella che fa scoppiare le guerre di religione. L’Europa moderna nasce nel momento in cui la religione diventa, da fattore unitivo, motivo di scontro. È qui che sorge lo statalismo moderno, perché se le confessioni religiose dividono, ecco che lo Stato si afferma come il fattore, l’unico, di unità. Da qui sorge anche il razionalismo moderno. E ciò a partire dalla stessa dinamica: la fede divide, solo la ragione può unire. Nasce così l’illuminismo. La sfera moderna della “laicità” si afferma, in tal modo, contro la religione.
Nel dibattito attuale, da una parte si chiede che la Chiesa non interferisca con le vicende politiche, dall’altra, in alcuni casi, lo Stato fa delle leggi contrarie a ciò che sta a cuore alla Chiesa...
Innanzitutto, la Chiesa ha il diritto di esprimersi a livello pubblico nella più assoluta libertà. Detto ciò, mi pare che nella prospettiva dell’attuale Papa, il compito essenziale della Chiesa è comunicare Cristo al mondo. Prima di tutto viene la comunicazione del contenuto di fede e della sua testimonianza carica di misericordia. Questo non significa che la Chiesa non ritenga rilevante la difesa dei valori naturali, basilari nello svolgimento della società e delle istituzioni. La loro tutela va però rimessa, in primis, ai cattolici laici i quali debbono farsi carico nelle sedi opportune. Papa Francesco ha un senso profondo dell’autonomia e della responsabilità del laicato cristiano impegnato nel temporale. È la ripresa della distinzione, richiesta dal Concilio, per cui «è di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in comunione con i loro pastori» (Gaudium et spes, 76).
Quando papa Francesco ha detto: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi», non intendeva quindi uno stop ai cattolici in politica su questi temi...
Al Papa interessa innanzitutto la situazione della Chiesa nel suo rapporto con la vita della gente. Da una parte c’è la percezione che il contenuto elementare del cristianesimo non sia conosciuto. Dall’altra si ha il dramma della vita di persone abbandonate a se stesse e senza conforto. Per questo dice: la Chiesa è un ospedale da campo e deve essere fonte di misericordia. Altra cosa è il dovere che incombe ai singoli e ai gruppi di cristiani che hanno una responsabilità pubblica, i quali evidentemente hanno il compito di difendere quei principi naturali che stanno alla base dell’umana convivenza. Non sono solamente valori “cristiani” anche se il cristianesimo, storicamente, ne ha chiarito il significato. Occorre rilevare, tuttavia, come questa difesa dei valori fondamentali, continuamente messi in discussione dal processo di secolarizzazione, si è spesso concentrata su un piccolo gruppo di valori, certamente rilevanti, tralasciando quelli di carattere più sociale, come il tema della povertà, della tutela dei più deboli, ecc. che, nell’economia complessiva del bene comune, non possono essere dimenticati. Ciò consente di ampliare lo spettro d’azione politica dei laici cristiani e di sottrarla alla logica degli schieramenti.
Eppure oggi appare assai difficile difendere “valori non negoziabili”. È una partita persa?
Nella sfera pubblica le motivazioni che nascono dall’esperienza di fede e di umanità proprie di un ambiente cristiano, devono essere tradotte in un ambito laico e quindi devono essere motivate nella loro valenza pubblica con argomentazioni ed esempi che devono essere convincenti. Lì si innesta un dibattito culturale e politico che si deve dimostrare all’altezza della sfida, capace di valorizzare, nell’ambito della società civile, quell’insieme di esperienze, di solidarietà, di pratiche alternative, che possono fungere da paradigmi per il bene comune. I “valori non negoziabili” devono trovare “punti d’incarnazione” che la politica e la cultura devono riconoscere nel loro valore normativo e a cui dar rilevanza pubblica.