Nel secondo anniversario della morte di Mario Palmaro pubblichiamo un saggio di Andrea Sandri sul filosofo del diritto.
“Filosofo del Diritto”
Quando
il 10 marzo dell’anno passato mi recai a visitare le spoglie mortali dell’amico
Mario Palmaro e, dopo avere percorso parte di via Santa Maddalena che, attraversando
verticalmente la Monza antica, conduce al fiume Lambro, mi trovai di fronte al
portone del cortile dove si affaccia nel silenzio la sua casa, su quello stesso
portone lessi l’annuncio funebre che mi parve tanto ovvio quanto rivelatore: “Mario Palmaro. Filosofo del Diritto”.
Sapevo
che, di fronte all’ineluttabilità dell’esito prossimo dei suoi giorni terreni,
Mario aveva predisposto personalmente il proprio funerale. In un’epoca in cui
tutto è affidato alla convenzionalità
e all’arbitrio non confidò negli uomini di Chiesa che progettano riti come
insensate figure, e volle che il breve tempo cerimoniale in cui il suo corpo
sarebbe stato consegnato alla terra non venisse sottratto al tempo certo e
immutabile della sacra liturgia. Nonostante attriti e opposizioni, il giorno
dopo il funerale fu celebrato da don Marino Neri nel Duomo di Monza secondo le
forme antiche e apostoliche della Chiesa.
Queste
esigue osservazioni anticipano già molto di quel che si dovrà qui dire. Al
breve tempo cerimoniale del suo congedo Mario si consegnò con il proprio status, quasi con le proprie insegne
come soleva l’antica aristocrazia, con quello che fu ed è, un filosofo del diritto. E con quelle
vesti, che trascendono ogni transitoria qualificazione accademica e indicano la
sostanza di una vocazione ben corrisposta, ci ha dato l’ultimo saluto.
Non
è dunque cosa vana, per ricordarlo, indugiare su ciò che Mario Palmaro disse di
sé sul limitare della propria esistenza terrena.
Il
“filosofo del diritto” è una figura oggi tanto attuale quanto problematica
proprio dal momento in cui la “filosofia” e il “diritto” si incontrano in uno
spazio in cui è stato da tempo negato ogni fondamento.
Il
diritto, dopo la definitiva crisi della scienza
giuridica di cui ormai si celebra un
più che centennale anniversario, ha cessato di essere una grammatica concettuale capace di frenare persino la violenza del
potere costituente, ed è divenuto il risultato di quella stessa posizione
normativa. La perfidia con cui Rudolf von Jhering alla fine del secolo XIX
annunciava, irridendo alla grandezza di Savigny e Puchta, un’epoca in cui il
bel organismo è perduto e al suo posto noi abbiamo azoto, ossigeno etc.”[1],
risuona e si perpetua in ogni atto legislativo che dissolve il “bel organismo”
della famiglia e dell’ordine delle cose per restituire improbabili molecole
sociali. D’altro canto la filosofia - invece di rilevare e respingere gli
errori di una volontà legislativa, che, abbandonata e tradita la propria
grammatica concettuale, si arma ad affrontare un ben più severo guardiano – ora
si attesta alla descrizione di un fluire di fatti e di sensazioni che si
lasciano guidare dalle norme poste,
ora eleva a valori alcune tendenze
generali della legislazione, ora, invece, esercita una mera critica logico-formale della posizione delle
norme.
Il
filosofo del diritto, come anche il giurista che in un sistema dell’immanenza
potrà facilmente confondersi con il primo, può adeguarsi a questi sviluppi
limitandosi a descrivere i nuovi
coacervi normativi (le molecole jheringiane appena accennate), giudicarli
secondo i valori, allineandosi per lo più al grande valutatore costituente, e determinarne la vigenza secondo i criteri
della logica formale (limitarsi a dire
se, in base ai processi di produzione delle norme, la norma che approva la
creazione di un mostro sociale sia vigente) – può naturalmente fare prevalere
uno di questi punti di vista inquadrandosi comunque in una delle scuole accette
al “pensiero dominante”.
A
ben vedere mero fatto, valore e norma sono gli elementi di una giurisprudenza senza realtà e senza
fondamento: il mero fatto acquista significato attraverso la norma e
l’ordinamento delle norme si stabilizza apparentemente
alludendo a una funzionalità alla tutela del valore. Se si considera però la
natura del valore come posizione della volontà costituente si comprende come il
valore non sia altro che l’estremo luogotenente della realtà e dei suoi ordini,
e, in fondo, l’oblio della stessa
realtà o la sua più radicale falsificazione – quasi una caverna platonica della
giurisprudenza nella quale si producono intere progenie di falsificazioni[2].
Emancipare il pensiero giuridico dalla tirannia del “valore costituzionale”
significa sempre restaurare la vigenza della verità, la conoscenza della natura
delle cose e la scienza giuridica,
e tale è l’autentica alternativa che si offre alla filosofia del diritto e alla
giurisprudenza.
I
lettori di Mario Palmaro conoscono per lo più il critico profondo e
intelligente delle falsificazioni della legislazione. Negli articoli risalenti
alla collaborazione a Il Cittadino e,
più tardi, nei saggi apologetici scritti per Il Timone e altre riviste, come anche in alcuni importanti volumi monografici[3],
Palmaro indaga e letteralmente smonta (sospetto con grande invidia e disappunto
dei suoi contraddittori) gli argomenti e l’ideologia degli “istituti” moderni
dell’aborto, dell’infanticidio, dell’eutanasia, dell’inseminazione artificiale,
delle unioni civili e del “matrimonio” omosessuale. Ma è in tre articoli
inseriti nel volume sul Relativismo
giuridico, scritto con Luca Galantini e pubblicato nel 2011[4], che Mario Palmaro risale allo sfondo e
alle cause prime delle falsificazioni altrove puntualmente denunciate, allo
spazio in cui il “filosofo del diritto” può decidere se essere se stesso o
abdicare al proprio status. Mario non
abdicò.
La precarietà del valore
Negli
scritti appena menzionati il “valore” non è certamente considerato il
fondamento oggettivo dell’ordinamento giuridico. Esso è piuttosto l’instabile
cristallizzazione di una affermazione assoluta della libertà dell’uomo intesa
come “sorgente autonoma di valori umani” cui fa da controcanto la “sfiducia
nella possibilità stessa di cogliere razionalmente in modo oggettivo la
categoria valori”[5].
Il valore è pensato dal moderno pensiero giuridico come un limite immanente di
un’unica volontà-libertà che è egualmente imputata all’unico individuo, si
tratti del singolo oppure dello Stato sovrano; ed è perciò prodotto di
un’auto-posizione ossia di un’auto-limitazione il cui segno è ben coglibile
nelle costituzioni moderne. I testi costituzionali, scrive Palmaro, sono “in
fondo il luogo ‘di confine’ fra diritto positivo e legge non scritta, luogo nel quale gli Stati secolarizzati
hanno tentato di formalizzare un nucleo
di valori, un nocciolo duro di principi di rango appunto costituzionale,
nel tentativo di sottrarre alla dialettica delle maggioranze mutevoli almeno
alcune ‘verità’ inerenti la vita in comune degli uomini”[6].
Queste
considerazioni sul “valore” tengono Mario Palmaro lontano non soltanto dalla
tradizione dell’idealismo, estetico e politico, kantiano ed hegeliano (dalla
pur interessante interpretazione hegeliana di Kant[7])
che, dopo avere dichiarato l’impossibilità per l’intelletto di conoscere gli
scopi nella natura e nelle realtà politiche umane, afferma la costitutività
della ragione rispetto ai fini e dei fini rispetto agli organismi concreti finalmente ricompresi come razionali, vernünftig[8]
(gli stessi contro i quali si avventò nichilisticamente l’Interessenjurisprudenz di Jhering), ma anche dalle letture della
realtà costituzionale basate sui parametri diltheyani delle “scienze dello
spirito” secondo le quali le “collettività sono soltanto la configurazione
unitaria delle esperienze vissute di
senso degli individui”[9].
Nella
netta distinzione tra “libertà presupposta”, come “potere del singolo di
scegliere tra bene e male”, e la “libertà ideale”, come scelta del “bene”[10],
si afferma l’impossibilità che la libertà, quale “qualità ontologica dell’uomo”,
sia in sé “una qualità morale” e quindi che possa realizzarsi autonomamente
come “libertà ideale” dandosi il contenuto della propria determinazione e
trascendendo se stessa. Al contrario simile passaggio verso la “libertà ideale”
può accadere autenticamente e in maniera stabile soltanto se la “libertà
presupposto” sceglie il “bene” e la “verità” come realtà esterna, data, conoscibile, non posta dalla propria
volizione.
Una
comunità umana che si integra attraverso i “fini” posti dal soggetto e
attraverso le “esperienze vissute di senso degli individui” è destinata a
cadere nell’occasionalismo della
decisione e della volizione secondo cui la “scelta è già etica” purché “sia
compiuta dal soggetto in assenza di qualunque vincolo e obbligo”[11]
e proprio per questo, senza che si possa ricavare alcuna contraddizione
rispetto a un decisionismo privo di contenuto reale, nel dominio dell’ironia e
della possibilità in cui vide la malattia del suo e del nostro tempo Søren
Kierkegaard[12].
La
modernità, che recide il rapporto tra la “libertà presupposto” e il fondamento
reale della sua determinazione riservando a quest’ultimo l’oblio, rivela in
fondo l’irrazionalità del valore, il
suo “nulla”, che è il vero presupposto della pura positività delle
norme[13].
Infatti proprio il bene e la verità costituiscono ordinamenti morali e
giuridici metapositivi, la grammatica che giudica ogni legislazione
conferendole essere o non essere giuridico. In questo senso osserva
significativamente Palmaro, registrando gli sviluppi moderni, che “gli Stati hanno dovuto riempire quel vuoto angosciante con nuovi valori e nuovi contenuti che hanno
orientato i sistemi giuridici nella direzione opposta a[gli] antichi principi” della morale classica e del diritto naturale[14].
La convenzionalità
Mario
Palmaro denuncia il nichilismo della moderna “giurisprudenza” e non crede che
una pennellata di benniano “smalto sul nulla”[15]
possa frenare l’abisso, i suoi mostri
e le sue falsificazioni. Rivelata la natura apocrifa dei “nuovi valori”, il
“filosofo del diritto” indaga i processi giuridici con i quali si cerca di
ammantare il vuoto.
Lo
svuotamento delle basi dell’ordinamento giuridico, che coincide siffattamente
con la sua assoluta positività, segue ben precise scansioni storiche[16]
che conducono, di neutralizzazione in neutralizzazione, fino alla “dottrina
pura del diritto” di Hans Kelsen[17].
La Grundnorm (norma fondamentale) kelseniana,
in quanto norma “non posta” bensì “presupposta” proprio perché fondante un
ordinamento meramente positivo, è stata fatta oggetto di molteplici
interpretazioni, tra queste il tentativo notevole di Alfred von Verdross di leggervi,
nonostante tutto, un rinvio all’ordinamento internazionale compreso come
vigenza del diritto naturale secondo la tradizione iniziata da Francisco de
Vitoria e ripresa da molti autori nel secondo dopoguerra.
In
realtà l’affermazione della Grundnorm è
un’esigenza intrinseca al positivismo giuridico che si fa tanto più evidente e
potente quanto più la volizione si separa
dalla cosa voluta, dal suo contenuto reale o anche solo ipotetico. Ciò che
i giuristi ottocenteschi, come Georg Jellinek e Raymond Carré de Malberg,
chiamano “fatto fondativo” o “della nazione” per rescindere l’ordinamento delle
norme da ogni possibile deduzione da un diritto naturale, è ulteriormente
rimosso da Kelsen come unrein, impuro. La rimozione delle etiche
nazionali, che ancora si celavano nei “fatti fondativi” e colmavano di
“contenuto di senso” codici e costituzioni dando vita ad altrettanti “sistemi
chiusi” sotto la volta rovinata degli antichi universalismi, è descritta da
Mario Palmaro, quasi in un divergente accordo con le previsioni kelseniane
della realizzazione di una “civitas maxima”[18]:
“La sovranità nazionale coincideva con un’autonomia giuridica, solo in parte
resa meno rigida dal diritto internazionale e da eventuali trattati stipulati
con altre nazioni. Nel giro di pochi anni questo modello si è sgretolato sotto
i nostri occhi: le nuove tecnologie e le migliori vie di comunicazione e di
trasporto hanno accorciato o addirittura annullato le distanze geografiche,
agevolando la nascita di un nuovo modello economico che è stato definito, com’è
noto, globalizzazione”[19].
Questo movimento, invece di adeguare il diritto all’umanità (era già stata
l’illusione di de Vitoria e di Suarez a ridosso della Riforma e della scoperta
del Nuovo Mondo), allarga quasi all’infinito la competenza della volontà;
sicché la Grundnorm appare vieppiù
come la metafora della definitiva e universale sostituzione
dell’“uomo-che-conosce la realtà”, e “ne è costitutivamente vincolato”, con
l’“uomo-che-vuole” il quale “è invece svincolato dalla realtà … ed esprime una
potenza che è insieme azione e guida del suo agire”[20].
L’“uomo-che-vuole” è, e non è, ciascuno, è insieme e indifferentemente il
“pacifista” che pone la Grundnorm nell’ordinamento
complessivo dell’umanità e il “nazionalista” che la colloca ancora
nell’ordinamento statale, è principalmente l’“osservatore”, perché se fosse
esclusivamente l’uno o l’altro uomo, l’ordine delle delle norme perderebbe la
propria purezza[21]. L’“uomo-che-vuole” è per il positivismo
giuridico e, da ultimo, per Kelsen lo stesso io dell’idealismo privato di ogni razionalità.
Come
è stato osservato per la “dottrina pura del diritto”, ma ciò vale per il
positivismo giuridico in genere, la volontà “lega fattispecie e conseguenza
arbitrariamente”[22],
ed è proprio a partire da questo irrazionalismo del fondamento che si
comprende la genesi necessariamente convenzionale
del diritto su cui si sofferma Mario Palmaro: al di sotto della volontà come unico fondamento ogni
regola non può che essere convenzionale ossia estranea a ogni condizionamento
reale, fisico o metafisico.
La
volontà – l’“uomo-che-vuole” – per positivizzarsi deve trovare e porre una prima regola e un procedimento
per volere successivamente.
L’“uomo-che-vuole”
potrebbe indifferentemente autorizzare
un unico individuo a volere, sicché le sue successive volizioni sarebbero convenzionalmente vincolanti per un
gruppo sociale o per l’intera umanità; tuttavia l’irrazionalità del fondamento
trova una più consona espressione, quasi il proprio “diritto naturale”, nella
“democrazia procedimentale” nella quale, per definizione, “non esiste alcun
nesso logico tra la volontà della maggioranza e la ragionevolezza di una certa
scelta giuridico-politica”[23].
Anche se non è esclusa una democrazia che riconosce nella verità il proprio
limite e fondamento (tali furono le democrazie antiche e la stessa democrazia
americana nel momento della sua fondazione[24]),
per l’irrazionalismo del fondamento e per la convenzionalità della prima autorizzazione la democrazia
diventa occasione di propagarsi ad ogni livello dell’ordinamento rendendo
relativa e provvisoria ogni scelta in quanto volizione della maggioranza:
relativizzando ogni rapporto e separandolo dalla propria natura reale e
costante. Si realizza qui
progressivamente e in maniera sempre più palese quella separazione tra forma giuridica e natura delle cose che Palmaro ravvisa attraverso il notevole
parallelismo tra la “rivoluzione dell’arte moderna”, descritta dallo storico
dell’arte Hans Sedlmayr, e la “rivoluzione del diritto moderno”. Ciò che si
dice dell’architettura moderna, che “l’edificio non è più sottoposto alle leggi
inviolabili e immutabili della fisica, ma se ne distacca … introducendo l’idea
che siano stabilite di volta in volta dall’architetto”, può affermarsi anche
del diritto; l’“uomo sceglie, in entrambi i casi, di recidere le proprie
radici”[25].
A
livello legislativo e sub-legislativo la volontà separata dalla natura inizia a
operare more geometrico tracciando
figure strane ed estranee non solo alla tradizione giuridica ma allo stesso ordine
naturale. Anche a questo punto arte e diritto procedono secondo vite parallele.
Come “l’architettura si avvicina alla purezza assoluta almeno laddove lo scopo
non è preso sul serio, e diviene ‘un pretesto per realizzare idee puramente
architettoniche’”, così “è la norma positiva a definire il senso e la
portata dei fenomeni, senza in ciò
essere vincolata a un criterio oggettivo di verità”[26].
Sulla
linea di questo orizzonte, in cui emergono le nuove figure, il “filosofo del diritto” individua e critica nei
suoi scritti, con una sensibilità necessariamente teratologica, le
falsificazioni e i mostri che oggi affollano la vita attiva di ognuno.
Il fondamento reale
Come
si è visto, Mario Palmaro non indugia in una critica immanente al positivismo
giuridico la quale si serve di “valori”, “contenuti di senso” e “oggettivazioni
dello spirito”, bensì si colloca – seguendo anche alcune riflessioni di Josph
Ratzinger[27]
- sul terreno sicuro del realismo giuridico risalente ad Aristotile, a
Cicerone, ai grandi giuristi romani e medioevali e naturalmente a San Tommaso
d’Aquino.
A
differenza della giurisprudenza moderna, che prende avvio dall’“uomo-che-vuole”,
la giurisprudenza classica - e con classica
si intende certamente: perenne - è
rappresentata dall’antitetico “uomo-che-conosce” per il quale, proprio perché
“conoscere la verità è possibile, e quindi necessario”, la “natura” non ha
cessato di essere “un mirabile territorio di ricerca che rimanda al suo
Artefice”[28].
Nel
mondo artificiale e auto-posto dell’“uomo-che-vuole” tutto è atto della volontà
e tutto è perciò serrato nell’immanenza e nella sua immancabile e disperata
ironia. A questo mondo, in cui trascendenza, posizione degli scopi e conoscenza
sono, sicut umbrae, finzioni della
volontà, si oppone il mondo reale che ha in Dio un autore esterno, trascendente, razionale e libero, e che, proprio perché creato secondo un
principio razionale (San Tommaso direbbe: conformemente alla lex aeterna) e quindi liberamente,
obbedisce a un fine: qui “ogni cosa
ha un significato e una perfezione da realizzare”[29].
L’uomo,
che è creatura e partecipa dell’ordine del creato, è razionale e ordinato a un
fine; conosce il proprio fine come
riflesso, nel proprio intelletto, della legge in base alla quale fu creato ed è
governato l’intero creato; e può raggiungere questo fine osservandolo, al
principio, in quanto legge naturale o morale. La realtà del mondo creato, il
fine del mondo e il fine dell’uomo, la realtà stessa del Creatore stanno di fronte
all’uomo e lo trascendono, sicché esclusivamente in rapporto a queste
realtà l’uomo è in tutto l’“uomo-che-conosce”, l’uomo la cui volontà può
determinarsi realmente rispetto al bene
e al vero, alla verità (rispetto alla quale il valore
è soltanto un idolo), e così divenire “volontà ideale”[30].
In
questo sistema ogni atto di legislazione avviene nell’ambito della previa
determinazione della conoscenza e della volontà rispetto al bene e alla verità in modo tale da contribuire a fondare, a ogni livello
sociale, un ordinamento politico e giuridico giusto e stabile perché
fondato sulla (conoscenza della) realtà e sui suoi ordini.
Il fabbro e il nocchiero
Come
è noto, conformemente alla metafora del De
regimine principum di San Tommaso d’Aquino[31],
la previa determinazione della conoscenza e della volontà rispetto al bene e alla verità naturale corrisponde all’arte del carpentiere che costruisce la nave e la governa, mentre la nave per
raggiungere il proprio porto ha bisogno del nocchiero.
All’interno di questa stessa metafora il carpentiere rappresenta la potestà del principe che deve fondare,
dare ordine e guidare lo Stato al bene naturale; il nocchiero l’autorità del
Pontefice che indica all’intera società statale, al di là del conseguimento del
bene naturale, la via per la contemplazione dell’ulteriore e ultimo bene sovrannaturale,
della Verità di Dio.
Soprattutto
ai suoi primordi la modernità giuridica ha spesso recepito la metafora di San
Tommaso, amputandola tuttavia della parte sul nocchiero. Con tale operazione si è ora voluto neutralizzare il
conflitto religioso ora cercare eguali diritti umani (così de Vitoria e Suarez)
nella comune umanità.
Ne
sono tuttavia scaturite due principali conseguenze. Da una parte, anche se non
si è necessariamente dovuto subito proclamare l’etsi Deus non daretur, l’eliminazione del nocchiero dal sistema ha
favorito l’inizio del processo di secolarizzazione compiutosi con la reine Rechtslehre; dall’altra assieme al
Pontefice è scomparsa dal sistema un’auctoritas
capace di pronunciare universalmente il contenuto del diritto con
l’ulteriore conseguenza dell’evoluzione delle comunità politiche verso la sovranità – anch’essa, insieme alla secolarizzazione dei principi giuridici,
fondamentale momento genetico del positivismo giuridico. Si vuol insomma dire
che le comunità politiche, che, per definizione, sono potestates (e non auctoritates),
si trovarono nella condizione di pronunciare originariamente il contenuto del
diritto non con un atto di autorità, ma di voluntas,
dando di fatto inizio alla legislazione
moderna.
Mario
Palmaro dimostra chiaramente di non trascurare alcuno di questi due processi e
considera entrambi problematici o meglio falsi
sviluppi cui porre rimedio.
Per
il “filosofo del diritto” è evidente che, se privato dell’indicazione di Dio, il sistema dell’“uomo-che-conosce” è destinato
alla corruzione e al ribaltamento nella sua antitesi dell’“uomo-che-vuole”.
Infatti “l’uomo senza Dio si costruisce degli idoli, nessuno dei quali è in
grado di soddisfare l’esigenza che l’uomo ha del vero Assoluto. Il sistema
normativo perde la sua forza, perché separato irrimediabilmente dalla sua
radice metafisica. Perciò un idolo abbatte l’altro, un codice di norme decreta
il fallimento del codice precedente”. E ancora con maggior evidenza si osserva
che se “l’ipotesi di Dio non è razionalmente contemplabile né egli è
conoscibile dalla ragione umana, allora tutto il sistema normativo ricade sotto
il ‘volontarismo’ arbitrario dell’uomo”[32].
Quanto
al secondo processo - che si estende al primo se si ritiene che l’indicazione di Dio, al di là dalla conoscenza naturale della sua esistenza
disponibile a ogni uomo, è nella competenza del Pontefice -, esso non emerge
direttamente nelle pagine che sono state qui esaminate. Tuttavia è cosa del
tutto palese che Mario Palmaro considerava l’autorità della Chiesa e del Papa
come momenti necessari di chiusura e di perfezione di un ordinamento giuridico
e politico reale – perché appunto il
Papa indica Dio e i suoi misteri a tutte le genti e pronuncia universalmente lo
jus e la regola morale come nessuno
Stato può fare; alla stessa stregua in cui vedeva nella profonda crisi attuale
della Chiesa un preoccupante fattore di distruzione (anticristica) del mondo
degli uomini e dei suoi ordinamenti.
Ciò
è ben testimoniato da molti testi scritti in collaborazione con Alessandro
Gnocchi, soprattutto l’intervista al superiore della Fraternità Sacerdotale San
Pio X Monsignor Bernard Fellay[33], La
bella addormentata[34]
e gli articoli pubblicati ne il Foglio a partire dall’ottobre del
2014[35].
Ma è forse nella lettera scritta al direttore della Nuova Bussola Quotidiana Riccardo Cascioli che Mario Palmaro, a
pochi mesi dalla sua morte, colse in tutta la sua immediatezza il nesso tra la
crisi della Chiesa e la tragica dissoluzione degli ordinamenti civili: “Il mio problema è la Chiesa cattolica.
Il problema è che in questa vicenda, in questo scatenamento planetario della
lobby gay, la Chiesa tace. Tace dal Papa fino all’ultimo cappellano di
periferia. E se parla, il giorno dopo Padre Lombardi deve rettificare,
precisare, chiarire, distinguere. … Il problema è nostra Madre la Chiesa, che
ha deciso di mollarci nella giungla del Vietnam: gli elicotteri sono ripartiti
e noi siamo rimasti giù, a farci infilzare uno dopo l’altro dai vietcong
relativisti”[36].
Jus Mos Fas
Il
9 marzo 2014 il “filosofo del diritto” Mario Palmaro se ne andò da questo mondo
ben consapevole di avere indossato degnamente fino all’ultimo le insegne del
proprio status, perché seppe, come quasi
nessun giurista sa più fare, coniugare nella sua opera e nella sua vita i
pilastri che ressero il più grande degli imperi, l’impero per il quale
pregarono i martiri e che fu infine cristiano – jus, mos e fas.
[3]
Si veda soprattutto, M. Palmaro, Aborto e 194. Fenomenologia di una legge
ingiusta, Milano 2008, Sugarco; e Idem,
Eutanasia: diritto o delitto? Il conflitto tra i principi di autonomia e di
indisponibilità della vita, Torino 2012, Giappichelli.
[4]
L. Galantini - M. Palmaro,
Relativismo giuridico. La crisi
del diritto positivo nello Stato moderno, Milano 2011, Vita & Pensiero. Si tratta dei
seguenti testi: Il relativismo come fondamento della democrazia? Joseph
Ratzinger e il problema della fondazione dei diritti umani (pp. 35-46), Hans
Kelsen e le radici convenzionali delle democrazie procedurali (pp. 47-61) e
Il diritto in crisi. Hans Sedlmayr, la rivoluzione dell’arte moderna e la
rivoluzione del diritto moderno (pp. 63-76).
[7]
Esemplarmente già G. W. F. Hegel, Zum Mechanismus, Chemismus, Organismus
und Erkennen, in Idem, Wissenschaft der Logik, Bd.II, GW., vol. 12, 1981, pp. 259-298;
it.: Idem, Sul meccanismo, il
chimismo, l’organismo e il conoscere,
Trento 1996, Verifiche.
[8]
Fondamentale la svolta in I. Kant, Critica del giudizio, Bari 2005, Laterza, pp. 179-180: “Se è dato
invece soltanto il particolare e il giudizio deve trovare l’universale, esso è
semplicemente riflettente. … Il giudizio riflettente, che è obbligato a
risalire dal particolare della natura all’universale, ha dunque bisogno di un
principio, che esso non può ricavare dall’esperienza perché è un principio … Questo principio trascendentale il Giudizio
riflettente può dunque darselo esso stesso come legge, non derivarlo da altro”
(c.m.). A ben vedere in quest’ultima proposizione è contenuta in nuce tutta la problematica della
moderna giurisprudenza.
[9]
Vedi R.
Smend, Costituzione e diritto
costituzionale, Milano 1988, Giuffré, pp. 62-66. Corsivo mio.
[11]
Ibidem, p. 40. Sul
concetto di occasionalismo vedi le
puntuali osservazioni di K. Löwith,
Storia e fede, Bari 2000, Laterza, p. 97.
[12]
M. Palmaro, Il diritto in crisi. Hans Sedlmayr, la rivoluzione
dell’arte moderna e la rivoluzione del diritto moderno, cit., p. 71.
[13]
Così M. Haase, Grundnorm Gemeinwille Geist, Tübingen
2004, Mohr Siebeck, p. 59. Si veda in prospettiva E. Kaufmann, Critica
della filosofia neokantiana del diritto, Napoli 1992, ESI, passim,
che ravvisa nel normativismo kelseniano il risultato della rimozione della
metafisica dal sistema di Kant.
[15]
Così G.
Benn, Gesammelte Werke,
Bd. III, Stuttgart 1996, definiva poeticamente il rapporto tra
il “nulla” e il suo rivestimento estetico: “Das ist der Mensch von heute,
/ das Innere ein Vakuum,
/ die
Kontinuität der Persönlichkeit
/ wird gewahrt von den Anzügen,
/ die bei gutem
Stoff zehn Jahre halten – Questo è l’uomo d’oggi, / il vuoto all’interno / la
continuità della personalità / è garantita dai vestiti / che, se di buona
stoffa, durano dieci anni”.
[16]
Così lo stesso M.
Palmaro, Hans Kelsen e le radici convenzionali delle democrazie procedurali, cit., pp. 59-61. In particolare sul finire
di questo scritto individua una ben precisa linea di pensiero: Marsilio da
Padova (1275-1343) che introduce la genesi convenzionale dello
Stato; Niccolò Machiavelli (1469-1527) che coniuga, secondo occasione e
convenienza, convenzionalità e geometria del potere; Jean Bodin (1530-1596)
che introduce il concetto di sovranità senza tuttavia negare Dio come limite
del potere; Ugo Grozio (1573-1646) che fonda convenzionalmente la
sovranità etsi Deus non daretur; Galileo (1564-1642) e Cartesio
(1596-1650) che teorizzano e introducono il pensiero geometrico; Thomas
Hobbes (1588-1679) che “dà piena attuazione politica agli sviluppi del
pensiero moderno” fondando convenzionalmente la sovranità e attribuendo un
potere geometrico al principe; Hans Kelsen (1881-1973) che “realizza la
congiunzione fra le geometrie legali e il modello democratico moderno”.
[17]
Così lo stesso M.
Palmaro, Hans Kelsen e le radici convenzionali delle democrazie procedurali, cit., pp. 59-61.
[18]
H. Kelsen, Il problema
della sovranità, Milano 1989, Giuffré, pp. 461-469.; Idem, Teoria generale del diritto e dello Stato, Vicenza, 1963, Comunità,
pp. 391-392, 394. La tesi del monismo della “civitas maxima” (anche nella
biasimata forma del solipsismo statale) sostenuto da Kelsen si invera, oltre
che nella negazione dell’autonomia dei corpi politici intermedi e della
proprietà individuale nello Stato, nel toglimento del pluralismo
degli Stati sovrani e dunque in una perfetta sincronia del genere umano.
[24]
Ibidem, p. 58: “I fondatori di quel nuovo Stato non avrebbero potuto
scrivere alcuna Dichiarazione d’indipendenza, se non avessero affermato anche
una ‘verità sull’uomo’. Una verità non arbitraria, ma riconosciuta grazie
all’esistenza della legge naturale”.
[27]
Soprattutto J.
Ratzinger, L’elogio della
coscienza. La verità interroga il cuore, Siena 2009, Cantagalli, p. 50.
[33]
A. Gnocchi - M. Palmaro, Tradizione. Il
vero volto. Chi sono e che cosa pensano gli eredi di Lefebvre. Intervista a
Monsignor Bernard Fellay, Milano 2009, Sugarco.
[34]
A. Gnocchi - M. Palmaro, La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II
la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Firenze 2011, Vallecchi
[35]
Poi raccolti con un’introduzione di Giuliano
Ferrara in A. Gnocchi - M. Palmaro, Questo
Papa piace troppo, Casale
Monferrato 2014, Piemme.
[36]
L’intero testo può essere consultato in http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-fumo-di-satana-nella-chiesa-8142.htm.
Fonte: A. Gnocchi (cut.), Mario Palmaro. Il buon seme fiorirà, Fede & Cultura, Verona 2015.
Fonte: A. Gnocchi (cut.), Mario Palmaro. Il buon seme fiorirà, Fede & Cultura, Verona 2015.