mercoledì 26 febbraio 2020

Dei frutti salutari del digiuno spirituale. Un testo di Joseph Ratzinger per chi oggi non può ricevere la comunione

Paradossalmente gli effetti che oggi i comunicati dei Vescovi - in ottemperanza agli atti normativi delle autorità civili per limitare la diffusione del coronavirus - producono sui fedeli non sono molto differenti, anche se diversi nello scopo, da quelli delle scomuniche ecclesiastiche che in passato colpivano città, signorie o regni: la privazione della celebrazione della Messa e dell'accesso alla comunione sacramentale. Sulla indecenza di non far celebrar messa in tempo di epidemia abbiamo già riportato alcune opportune osservazioni di Fabio Adernò (vedi qui). Sulla inclinazione, vagamente erastiana, dell'episcopato a un discutibile ossequio al legislatore statale che sacrifica la visione sovrannaturale della Chiesa bisognerà dire. D'altro canto, tuttavia, la condizione dei fedeli privati dell'eucaristia e forse anche del Sacrificio della Messa nelle loro parrocchie (non è improbabile che in molte chiese non sia celebrato neppure "a porte chiuse") può essere occasione per sperimentare una "fame" che avvicina all'amore di Dio e fa "capire di nuovo i doni del Signore". Di ciò parla Joseph Ratzinger alla fine del saggio "Communio. Eucaristia, comunità e missione" in J. Ratzinger, La Comunione nella Chiesa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pp. 85-90 (Il problema degli scomunicati), in una prospettiva teologica e storica. Qui di seguito il testo.

Che cosa dobbiamo però dire, se le cose stanno così, dei molti scomunicati che credono nel Signore ed in lui sperano, e desiderano il dono del suo corpo, ma non possono ricevere il sacramento? Io penso alle forme del tutto diverse di esclusione dalla comunione sacramentale. Da una parte vi è anzitutto l’impossibilità materiale di ricevere il sacramento in periodi di persecuzione o a causa della mancanza di sacerdoti. Dall’altra parte ci sono esclusioni giuridicamente fondate dalla comunione, come nel caso dei divorziati risposati. In un certo senso, qui viene toccato anche il problema ecumenico, la mancanza di comunione tra i cristiani separati. Naturalmente è impossibile chiarire questioni tanto diverse e tanto ampie nell’ambito del nostro tema. Tralasciarle del tutto, tuttavia, sarebbe una mancanza d’onestà. Benché una risposta sia qui impossibile, almeno vorrei tentare un breve richiamo ad un importante punto di vista. Nel suo libro L’Église est une communion, Hamer mostra che la teologia medievale, la quale, a sua volta, non poteva certo trascurare il problema degli scomunicati, s’è confrontata con esso in un modo molto accurato. Per i pensatori medioevali non era più possibile — come lo era nell’epoca patristica — identificare semplicemente l’appartenenza alla comunione visibile della Chiesa col rapporto con il Signore. Graziano aveva ancora scritto: cari, un cristiano che è escluso dalla comunione dai sacerdoti, è consegnato al diavolo. Perché? Poiché fuori della Chiesa vi è il diavolo, come all’interno della Chiesa Cristo. Rispetto a ciò, i teologi del XIII secolo si trovavano davanti al compito, da una parte, di mantenere il collegamento indispensabile tra interno ed esterno, tra segno e realtà, tra corpo e spirito, ma, ad un tempo, dovevano anche tener conto della diversità di entrambi. Così, ad esempio, troviamo in Guglielmo di Auvergne la distinzione in base alla quale comunione esterna e comunione interna sono in relazione l’una con l’altra come segno e realtà. Egli spiega allora che mai la Chiesa vorrebbe privare qualcuno della comunione interna. Quando essa usa la spada della scomunica, accade, secondo lui, solo ed unicamente per salvare con questa medicina la comunione spirituale. A questo aggiunge un pensiero altrettanto consolante e stimolante. A lui sarebbe noto — così dice — che per non pochi il peso dell’esclusione dalla comunione è tanto difficile da portare quanto il martirio. Ma talvolta uno da scomunicato procede nella pazienza e nell’umiltà più che nella situazione di partecipazione esterna alla comunione. Bonaventura ha approfondito ulteriormente questa concezione. Contro il diritto di esclusione della Chiesa egli si imbattè in un’obiezione assolutamente moderna, che così diceva: scomunicare è separare dalla comunione. La comunione cristiana, però, per natura è costituita dall’amore, anzi è comunione d’amore. Nessuno ha il diritto di escludere qualsivoglia persona dall’amore, dunque non esiste il diritto di scomunicare qualcuno (cfr. Hamer). A questa obiezione Bonaventura risponde con la distinzione di tre livelli di comunione; in questo modo egli può tener fermi la disciplina ecclesiastica ed il diritto ecclesiastico, e ad un tempo da teologo dire in piena responsabilità: «Io concludo che nessuno né può né deve essere escluso dalla comunione d’amore, sino a quando vive sulla terra. La scomunica non è esclusione da questa comunione». 

Da tali riflessioni, che oggi dovrebbero essere di nuovo accolte ed approfondite, non si può evidentemente concludere che sia superflua o meno importante la concreta, sacramentale appartenenza alla comunità fondata nella comunione. Lo «scomunicato» viene sostenuto dall’amore del corpo vivente di Cristo, dalle sofferenze dei santi che si uniscono alla sua sofferenza così come alla sua fame spirituale, poiché ambedue sono circondati dalle sofferenze, dalla fame, dalla sete di Gesù Cristo, che sopporta e sostiene noi tutti. D’altra parte la sofferenza dell’escluso, il suo tendere alla comunione — (sacramentale e di coloro che sono parte vivente di Cristo)— rappresenta il legame che lo tiene unito all’amore salvifico di Cristo. In entrambe le prospettive, dunque, si impongono e sono irrinunciabili il sacramento e la comunità che, da lui edificata e visibile, è fondata nella comunione. Anche qui ha luogo, dunque, il «salvataggio dell’amore» che è l’ultima mira della croce di Cristo, del sacramento, della Chiesa. Diviene allora comprensibile come, nella sofferenza per la lontananza, nel dolore pieno di desiderio e nell’amore che nella sofferenza cresce, l’impossibilità della comunione sacramentale possa condurre paradossalmente al progresso spirituale. La ribellione invece — come afferma Guglielmo d’Auvergne — necessariamente dissolve il fine positivo, costruttivo della scomunica. La ribellione non salva, ma distrugge l’amore.

In questo contesto mi si impone una riflessione che ha un più forte carattere di pastorale generale. Quando Agostino sentì avvicinarsi la morte, «scomunicò» se stesso, prese su di sé la penitenza della Chiesa. Nei suoi ultimi giorni si pose in solidarietà con i pubblici peccatori che cercano perdono e grazia mediante la sofferenza per la rinuncia alla comunione . Egli volle incontrare il suo Signore nell’umiltà di chi ha fame e sete di giustizia, di Lui, il giusto e il misericordioso. Sullo sfondo delle sue prediche e dei suoi scritti che descrivono grandiosamente il mistero della Chiesa come comunione con il corpo di Cristo e come corpo di Cristo a partire dall’eucarestia, questo gesto ha in sé qualcosa di commovente. Esso mi rende tanto più pensoso quanto più spesso vi rifletto. Noi, oggi, non riceviamo spesso con eccessiva facilità il santissimo sacramento? Talvolta questo digiuno spirituale non sarebbe utile o addirittura necessario al fine di approfondire e rinnovare il nostro rapporto col corpo di Cristo? 

In questa direzione la Chiesa antica conosceva una pratica di grande capacità espressiva: già a partire dall’epoca apostolica il digiuno eucaristico del venerdì santo era frutto della spiritualità comunionale della Chiesa. Proprio la rinuncia alla comunione in uno dei giorni più santi dell’anno liturgico, trascorso senza messa e senza comunione ai fedeli, era un modo particolarmente profondo di partecipare alla passione del Signore: il lutto della sposa alla quale è tolto lo sposo (cfr. Mc. 2, 20). Io penso che anche oggi un tale digiuno eucaristico, nel caso fosse determinato da riflessione e sofferenza, avrebbe un notevole significato in determinate occasioni, da ponderare con cura, come nei giorni di penitenza (perché non, ad esempio, di nuovo il venerdì santo?) o in modo del tutto particolare durante le grandi messe pubbliche in cui addirittura il numero dei partecipanti spesso non rende più possibile una dignitosa distribuzione del sacramento. In tal caso la rinuncia potrebbe veramente esprimere maggiore riverenza ed amore al sacramento di una partecipazione materiale che si trova ad essere in contraddizione con la grandezza dell’evento. Un tale digiuno — che naturalmente non può essere arbitrario, ma deve ordinarsi all’orientamento della Chiesa — potrebbe favorire un approfondimento del rapporto personale col Signore nel sacramento; potrebbe essere anche un atto di solidarietà con tutti coloro che hanno desiderio del sacramento, ma non lo possono ricevere. Mi sembra che il problema dei divorziati risposati, ma anche quello della intercomunione (ad esempio nei matrimoni misti) risulterebbe molto meno gravoso se tale volontario digiuno spirituale riconoscesse ed esprimesse visibilmente che noi tutti dipendiamo da quel «salvataggio dell’amore» che il Signore ha compiuto nell’estrema solitudine della croce. Naturalmente, con questo non vorrei proporre un ritorno ad una specie di giansenismo: il digiuno presuppone una condizione normale del mangiare tanto nella vita spirituale come in quella biologica. Ma talvolta abbiamo bisogno d’una medicina contro la caduta nella semplice abitudine e nella sua assenza di spiritualità. Talvolta abbiamo bisogno della fame — fisicamente e spiritualmente — per capire di nuovo i doni del Signore e per comprendere la sofferenza dei nostri fratelli che hanno fame. La fame tanto spirituale come fisica può essere uno strumento dell’amore.

domenica 23 febbraio 2020

L’indecenza di non far celebrare la Messa in tempo di epidemia. Un commento di Fabio Adernò

San Carlo Borromeo comunica gli appestati. Scuola emiliana, sec. XVIII
"Concedi a noi, o Signore, te ne preghiamo, l'effetto della divota supplica, e divenuto a noi propizio, allontana la peste e la carestia: affinché i cuori dei mortali conoscano che tali flagelli scoppiano per il tuo sdegno, mentre cessano per la tua misericordia", così il Messale ambrosiano fa pregare il Sacerdote sull'Altare nella Messa per il tempo di carestia e di penitenza (Orazione sopra il popolo). E, mentre dilaga l'infezione del corona virus, si rimane stupiti nel constatare la distanza di questa perenne intenzione della Chiesa dai comunicati che sono stati affissi sui portali delle chiese dell'Arcidiocesi di Milano in asettica ottemperanza a un'ordinanza della Regione Lombardia (non diversamente ciò sta accadendo in molte altre Diocesi del Nord d'Italia dopo la pubblicazione del Decreto del Governo sulla stessa materia), quasi che l'ordinamento e la vita soprannaturale della Chiesa siano senz'altro a disposizione dell'ordinamento positivo pubblico: "Avviso importante. La Parrocchia ... in ragione dell'ordinanza emanata dal Presidente della Regione Lombardia sospende tutte le celebrazioni liturgiche (Sante Messe) fino a data da definirsi". Se si considera, inoltre, la improbabilità della celebrazione della Messa senza la presenza di fedeli nel contesto teologico della riforma liturgica, si deve concludere che il numero delle Messe celebrate nelle Diocesi interessate sarà molto esiguo, se non quasi annientato.
Sull'indecenza di questa situazione pubblichiamo qui di seguito per il vantaggio di ogni cattolico le preziose osservazioni di Fabio Adernò, Avvocato rotale e Dottore in Diritto canonico presso l'Università Pontificia della Santa Croce a Roma.

Molte Diocesi del Nord si stanno affrettando a sospendere le celebrazioni, applicando evidentemente in modo supino il decreto legge varato ieri notte, quasi che le Messe fossero partite di calcio o manifestazioni sociali.

Tale decisione è un’offesa al Creatore, perché lo Si priva del culto dovuto e soprattutto è una manifestazione di mancanza di senso di trascendenza e di fiducia nell’opera salvifica della Provvidenza e dell’azione di Dio nella storia dell’Uomo.

Applicare criteri preventivi e cautelari è sacrosanto per tutelare il bene della vita, e vanno evitate le imprudenze e le superficialità, ma d’altra parte non ha alcun senso non fare celebrare la Santa Messa, che è Sacrificio anche espiatorio offerto per la remissione dei peccati, il ristabilimento dell’amicizia con Dio, ma anche per invocare la concessione di grazie come la corporale guarigione o debellare malattie e pestilenze.

Sospendere le celebrazioni delle Messe vuol dire abbandonarsi inermi alla desolazione, all’immanenza, vuol dire privare le anime del giusto conforto, del soprannaturale sostegno .... quando invece i frutti spirituali di quel Sacrificio gioverebbero senz’altro allo spirito.

D’altra parte, amaramente si constata come sia sempre più lontano dall’attuale modernistica visione “ecclesiale” concepire di celebrare la Messa e non distribuire la Santa Comunione... diversamente invece da come insegna la storia della Chiesa, da sempre saggia nel favorire la moltiplicazione delle celebrazioni anche in contemporanea, e prudente nel consigliare di evitare la distribuzione laddove le condizioni fossero sconvenienti per i più vari motivi.

Una tale visione nega la trascendenza di quel Sacrificio sublime, e lo riduce ad “azione” umana che “vale solo” se “partecipato”. Ma questa non è la Messa secondo la dottrina Cattolica.
E la Messa non vale in proporzione al numero di comunioni che si fanno; la Messa ha un valore inestimabile e produce effetti infinitamente più grandi di tutte le nostre miserie.

Si celebrino, dunque, Messe su Messe, senza distribuzione.

I fedeli facciano comunioni spirituali e offrano al Signore questa rinuncia.

E Iddio abbia misericordia di noi.

domenica 16 febbraio 2020

Punti fermi sul Magistero. Un attualissimo saggio di don Angelo Citati

In un'epoca di estrema confusione sugli atti magisteriali della Chiesa, sul loro contenuto e sulla loro vincolatività per i fedeli cattolici, ha del tutto senso riproporre un articolo di don Angelo Citati comparso il 25 dicembre 2017 nella pagina italiana del sito ufficiale della Fraternità Sacerdotale San Pio X (oggi rimane  soltanto il testo francese nella pagina belga (quiperché l'originale è stato stranamente espunto dalla pagina italiana)
Il testo ha oggi il merito non trascurabile di essere un vademecum tanto per evitare la Scilla dell'impostazione "neotradizionalista" che espone, tra gli altri, l'argomento di un obex dottrinale che impedirebbe ogni tipo di magistero valido e di sviluppo dogmatico autentico a ridosso del Concilio Vaticano II, quanto la Cariddi progressista di un "assolutismo magisteriale" che recupera il vecchio parametro ultramontanista (vedi già qui le nostre considerazioni su una posizione non estranea, per genesi storica, ai settori "conservatori" del Cattolicesimo). Evidentemente le due impostazioni criticate si legano in un comune errore sotterraneo, ed è proprio la  ripresa della continuità evolutiva ed omogenea del magistero nella Tradizione, anche dopo il Concilio Vaticano II, ciò che ci conserva nella Verità apostolica della Chiesa e ci mette al riparo da "neochiese" e da "neotradizionalismi", dalla loro dialettica coappartenza collocata in un altrove rispetto al semper eadem del Credo cattolico.



«Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,22) 

Sta facendo molto discutere di sé la recente inserzione negli Acta Apostolicæ Sedis della risposta di papa Francesco ai Vescovi della regione di Buenos Aires nella quale il Pontefice ha lodato l’interpretazione che i Prelati argentini hanno dato dell’esortazione postsinodale Amoris lætitia, secondo la quale detto documento avallerebbe in modo definitivo ed inequivoco la possibilità di amministrare il sacramento dell’Eucaristia ai divorziati risposati civilmente. 

La lettera del Pontefice è stata rubricata addirittura sotto la voce «Magistero autentico». E questo ha portato non pochi cattolici a porsi la domanda: ma è sufficiente appuntare in calce ad un testo, a prescindere dal suo contenuto, la qualifica di «Magistero» perché esso lo sia realmente e si imponga così quale norma prossima della fede alla coscienza del credente? 

Data l’attualità del tema, non sarà senza interesse ribadire qualche punto fermo a cui è bene attenersi nella presente crisi nella Chiesa, che è in primo luogo una crisi dell’autorità magistrale.

1. Una vetta e due estremi

Per illustrare il fatto che la verità si trova sempre tra due estremi – non però nel senso volgarmente inteso di via mediana tra due posizioni opposte – padre Réginald Garrigou-Lagrange, una delle figure di maggior rilievo del neotomismo del Novecento, ricorre ad un’immagine di estrema efficacia, quella della vetta di un monte che si erge tra gli errori: «La verità», dice il teologo domenicano, «si eleva come eccelsa vetta in mezzo a questi due estremi, che rappresentano le deviazioni contrarie dell’errore»[1]. 

L’immagine di Garrigou trova applicazione anche nel nostro caso. Il problema del Magistero, infatti, può essere risolto ricorrendo a due posizioni estreme opposte, ma che, come vedremo, come tutte le tesi che pendono troppo da un lato, finiscono per avere diversi punti di contatto. 

2. L’estrema destra: il «magisterovacantismo» 

Il titolo farà certamente sorridere il lettore. In effetti, forse questo era l’unico -ismo che ancora mancava tra i tanti che costellano la galassia tradizionalista nell’epoca postconciliare (sono stati coniati il sedevacantismo, il sedeprivazionismo, l’anticonciliarismo, e senz’altro molti altri che sfuggono a chi, come chi scrive, di norma preferisce attenersi semplicemente ad uno solo: il sano realismo della philosophia perennis). Eppure descrive un’attitudine che non è affatto assente, è anzi alquanto diffusa, in questi ambienti. Si tratta dell’idea secondo cui dopo il Concilio Vaticano II il Magistero avrebbe semplicemente cessato di esistere. Tout court

Questa tesi assume sfumature diverse in base alla posizione ecclesiale di chi la afferma (per gli uni è una logica conseguenza del fatto che a partire dal Concilio la Sede Apostolica sarebbe vacante; per altri deriverebbe dall’assenza dell’intenzione di insegnare magisterialmente da parte dei Pontefici a partire da Paolo VI), ma in ogni caso si scontra tanto con il sensus Ecclesiæ quanto, più semplicemente, con il senso della realtà. 

Si scontra con il senso ecclesiale perché, se il Magistero è, come insegna Pio XII, la norma prossima della fede[2], ne scaturisce che la Chiesa, come non potrebbe reggersi per un tempo troppo prolungato (come i sessant’anni che ci separano dall’ultimo Concilio) senza un Papa regnante, così non potrebbe reggersi neppure senza il Magistero (esercitato in actu). Quindi affermare che da oltre cinquant’anni il Magistero non esiste più (se non allo stato di pura potenza) apre le porte alle stesse conseguenze a cui conduce il sedevacantismo, cioè a mettere in discussione la promessa di Gesù Cristo alla sua Chiesa: «Le porte degli inferi non preverranno contro di essa» (Mt 16,18). 

Si scontra però anche col semplice senso della realtà, con il sano realismo, in quanto non siamo noi a poter determinare a priori, sulla base di una tesi preconfezionata, qual è l’autorità di un testo promulgato dal Papa, ma è il Papa stesso che manifesta la sua intenzione (la sua mens, secondo il termine consacrato). Ora, è certamente innegabile che la concezione del Magistero ha subìto un cambiamento profondo nel corso degli ultimi decenni (si pensi, quali segni esterni di tale cambiamento, anche solo al fatto che il numero dei pronunciamenti magisteriali è cresciuto enormemente, mentre ne diminuiva proporzionalmente la solennità, e che sempre più organi si sono aggiunti a quelli tradizionali, come Commissioni pontificie o teologiche, la cui precisa autorità non è sempre del tutto chiara). Gli argomenti in favore di questa tesi non sono, dunque, del tutto sprovvisti di fondamento[3]. Tuttavia, il loro limite consiste nel tentativo di dimostrare che tale nuova concezione interessi tutti gli atti del Magistero postconciliare senza eccezione, là dove i fatti sembrano mostrare piuttosto il contrario: e cioè che anche in un contesto così confuso non mancano pronunciamenti ufficiali il cui contenuto, tono e finalità manifestano con chiarezza che il Papa intende realmente fare uso della sua autorità magisteriale, nel modo e nel senso tradizionale del termine[4].

Citiamo qualche esempio. Il Concilio Vaticano II «insegna […] che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine» (Lumen gentium, 22). Tale insegnamento rispondeva, d’altronde, ai vota di una larga maggioranza dei Padri conciliari (tra i quali mons. Lefebvre)[5]. Certamente non è una definizione di fede, ma sarebbe contro ogni buon senso affermare che in questo punto preciso il Concilio non abbia impegnato la sua autorità di Magistero autentico (ai teologi resta poi da discutere l’esatta nota teologica del pronunciamento: quella di doctrina catholica sembrerebbe comunque, a prima vista, la più appropriata[6]). 

Un altro esempio piuttosto palese è, per restare negli anni del Concilio, la solenne proclamazione, da parte di Paolo VI, di Maria «Madre della Chiesa», atto al quale «non mancava niente […] perché sia veramente ispirato dallo Spirito Santo […], avvenimento straordinario […], [di cui] non si parlerà mai abbastanza, perché nella storia della Chiesa, il Concilio Vaticano II resterà innanzitutto quello che ha proclamato Maria “Madre della Chiesa”. […] Nessuna delle verità affermate nel Concilio avrà, di fatto, la stessa importanza di questa»[7] (Mons. Lefebvre); o anche (pochi anni dopo) il «Credo del Popolo di Dio» dello stesso Pontefice, «un atto che, dal punto di vista dogmatico, è più importante di tutto il Concilio […]. Questo Credo, che è stato redatto per affermare la fede di Pietro, e da parte del successore di Pietro, è stato rivestito di una solennità assolutamente straordinaria, perché il Papa ha manifestato la sua intenzione di farlo come successore di Pietro […], come Vicario di Cristo. […] Di conseguenza, ha compiuto un atto che impegna la fede della Chiesa. Così abbiamo la consolazione e la fiducia di sentire che lo Spirito Santo non abbandona la sua Chiesa»[8] (Mons. Lefebvre). 

In tempi più recenti, si possono citare come esempi il documento (Ordinatio sacerdotalis) in cui Giovanni Paolo II ha riaffermato, con termini di una solennità che ha eguali solo nei Pontefici preconciliari[9], l’impossibilità di conferire il sacramento dell’ordine alle donne, e i passaggi dell’enciclica Evangelium vitæ in cui ribadisce la condanna dell’aborto (diversamente dagli argomenti filosofici addotti nello stesso testo a sostegno di tale condanna, che non si presentano necessariamente rivestiti della stessa autorità). 

Il cattolico che riconosce veramente (cioè con tutte le conseguenze che ciò comporta) che il Papa è tale e la Sede non è vacante, come potrebbe negare il carattere magisteriale di simili pronunciamenti[10]? Neppure il fatto che gli stessi documenti, in altri punti, presentino dottrine diverse da quelle del Magistero precedente può costituire un’obiezione al loro valore magisteriale, perché «esiste un Magistero ordinario pastorale che può contenere errori o esprimere semplicemente opinioni»[11] (Mons. Lefebvre). 

3. L’estrema sinistra: l’«assolutismo magistrale» 

All’estremo opposto dell’eccesso testé descritto si situa una concezione quasi totalitaria e assolutista del Magistero, in base alla quale basterebbe il fatto che sia l’autorità legittima a pubblicare un documento perché tale pronunciamento sia magisteriale e, in quanto tale, si imponga alla coscienza del cattolico come indiscutibile. In questo modo si pretende di sciogliere il dubbio del cattolico perplesso di fronte ad insegnamenti nuovi che contraddicono quelli del Magistero precedente. Ed è così che, in questa logica, si finisce per affermare che se il Papa scrive una lettera in cui afferma che è giusto dire che con Amoris lætitia è ormai lecito dare la comunione ai divorziati risposati, nonostante i suoi predecessori ci avessero esplicitamente assicurato il contrario, basta rubricare questo come «Magistero» negli Atti della Santa Sede perché ne assuma anche l’autorità. O ancora si pretende che un Concilio, che i Pontefici stessi, che lo hanno convocato e portato a termine, hanno dichiarato non contenere nuove definizioni di fede, ma documenti da valutare ciascuno in modo differente secondo i diversi gradi di autorità del Magistero[12], debba essere accettato in blocco e condiviso in ogni punto per poter essere cattolici. 

A questo secondo approccio si può controbattere rammentando due princìpi di fondamentale importanza. 

Il primo è che un insegnamento magisteriale, per essere tale, dev’essere insegnato con reale autorità (e non esprimere semplicemente le opinioni personali di chi la detiene), quell’autorità che distingueva Gesù Cristo e sulla quale il popolo fedele non si ingannava: «Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità, non come gli scribi» (Mc 1,22). È questa l’autorità che Gesù ha trasmesso ai suoi apostoli e ai loro successori, in particolare al successore di Pietro. Quando il legittimo detentore dell’autorità esprime delle semplici opinioni personali (anche se lo fa in contesti che di norma, tradizionalmente, dovrebbero servire piuttosto a trasmettere un insegnamento), queste non possono assumere autorità magisteriale per il solo fatto che poi, in seconda battuta, si cerca di imporle e di presentarle come obbligatorie[13]. L’autorità magisteriale non va quindi confusa con l’autoritarismo coercitivo degli scribi e dei farisei (di ieri e di oggi) col quale si pretende, approfittando della funzione che si ricopre, che i fedeli aderiscano ad una dottrina qualsiasi. A chi detiene il potere magisteriale non basta dunque richiedere, pretendere, obbligare ad aderire ad una certa dottrina per promulgare un atto di Magistero. Non basta scrivere su un testo: «Magistero autentico». Bisogna insegnare con autorità, in nome e con l’autorità di Gesù Cristo, mostrando come questo insegnamento sia radicato nella Tradizione della Chiesa e in continuità con gli insegnamenti precedenti del Magistero[14]. 

Il secondo principio è che alle tre istanze epistemologiche di cui il cattolico dispone per conoscere le verità della propria fede e orientare così la propria coscienza (la norma remota: Tradizione e Scrittura, e la norma prossima: il Magistero della Chiesa) non bisogna dimenticare di aggiungere una quarta: la sua ragione. Non la dea Ragione dei razionalisti, ma la ragione umana: uno strumento di conoscenza e di valutazione dei dati conosciuti che il credente sa di dovere al Creatore e che, appunto perché voluto da Dio, non solo non è contraddetto o annullato, ma è anzi presupposto dalle norme – prossima e remote – regolatrici della coscienza. Quando, cioè, al cattolico si richiede di aderire a ciò che gli è proposto dal Magistero (e, tramite esso, a ciò che è contenuto nella Scrittura e nella Tradizione) non gli è chiesto affatto di abdicare all’uso della propria ragione e alle leggi che la governano. La prima delle quali è il principio di non contraddizione: «È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo»[15]. 

Ne consegue che se al credente viene proposto di credere, sia pure (in teoria) in nome dell’autorità magisteriale, una proposizione che è in contraddizione logica con una proposizione già insegnata dal Magistero (per esempio se gli si richiede di credere che è lecito ricevere la comunione pur vivendo more uxorio con una persona con la quale non si è sposati sacramentalmente), il cattolico non solo non è tenuto ad aderire a tale proposizione, ma anzi, nella misura in cui conosce e constata la contraddizione, è tenuto in coscienza a rifiutarla, qualunque sia l’autorità che gliela propone: che si tratti del suo parroco, del suo Vescovo, del Papa, finanche «noi stessi, oppure un angelo dal cielo», dice san Paolo[16]. E in questo non incorre in alcun errore contro la dottrina cattolica (come avviene normalmente quando ci si oppone al Magistero autentico), in quanto, appunto per via di tale contraddizione, simili proposizioni non possono godere, in senso stretto, del carattere vincolante connesso all’autorità magisteriale (sebbene si iscrivano nel contesto dell’esercizio di tale autorità da parte del suo legittimo detentore), in quanto il Magistero, che le ha già condannate, non si può contraddire. 

Se poi si pretende che il singolo credente non è radicalmente in grado (a titolo appunto della sua appartenenza alla Ecclesia discens) di valutare l’esistenza o meno di una contraddizione di questo genere tra gli atti propostigli dall’alto, e che in ogni caso deve fare volontaristicamente affidamento sul detentore dell’autorità magisteriale quando questi gli dice che la contraddizione non c’è, questo non equivale a dire, in definitiva, che aderire al Magistero della Chiesa, credere, essere cattolici significa smettere di usare la ragione, cioè proprio ciò di cui accusano la Chiesa i razionalisti da oltre due secoli?[17] 

E non sarebbe, questo, un paradosso da parte di chi ha cercato, per propria ammissione, appunto di riconciliare la Chiesa – impresa peraltro chimerica – con i princìpi della rivoluzione del 1789? Sarebbe, sì, davvero un paradosso per chi d’altronde ha stigmatizzato – e qui invece con ragione – che «la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino» (Papa Francesco, Enciclica Lumen fidei, n. 3). 

Si noti, infine, un altro aspetto paradossale: non sono mancati casi in cui le stesse persone sono passate da uno di questi due estremi all’altro, dall’affermazione che nulla di ciò che è stato fatto dal Concilio in poi abbia carattere di Magistero a quella che tutto, dalla prima all’ultima riga, dev’essere accettato, sotto pena di non essere veri cattolici. Questo perché forse questi due estremi, come accennavamo all’inizio, hanno in comune molto più di quanto non sembri a prima vista. Hanno in comune, soprattutto, il difetto di non voler vedere sfumature nella realtà e di leggere la realtà esclusivamente alla luce dei princìpi che si trovano nei (lodevolissimi per l’epoca, ma sotto questo profilo ormai in parte inattuali) vecchi manuali preconciliari di ecclesiologia[18]. Essere realisti (nel senso filosofico del termine) significa anche ammettere che forse la realtà (come sembrano confermare gli ultimi sessant’anni di storia) è più complicata dei manuali[19]. 

4. Risposta ad un’obiezione: un «tradi-protestantesimo»? 

A questo punto si potrebbe sollevare un’obiezione: affermare che un cristiano può rifiutare di aderire ad atti che l’autorità legittima gli propone, non corrisponde, in definitiva, alla posizione dei protestanti? I «cattolici tradizionalisti» (come ormai li chiama la vulgata comune) non mettono così la propria coscienza al di sopra del Magistero della Chiesa, proprio come fanno i protestanti, anche se per trarne conclusioni del tutto opposte? Non agiscono forse come tutti i gruppi ereticali che hanno sempre preteso che il Magistero della Chiesa stesse tradendo le fonti della Rivelazione, come ad esempio i veterocattolici, i quali sostenevano che l’infallibilità del Papa insegnata dal Concilio Vaticano I contraddicesse la dottrina dei Padri della Chiesa? 

Come ogni obiezione, anche questa non è del tutto priva di un appiglio. E, probabilmente, l’eccessiva disinvoltura e il tono polemico od offensivo con cui a volte, negli ambienti tradizionalisti, ci si mette a fare freddamente lo spoglio dei testi del Magistero conciliare e postconciliare ha potuto contribuire a dare quest’impressione. Ma, se si prescinde da questi eccessi (che riguardano comunque più il modo che la sostanza), l’obiezione si rivela infondata. 

Il principio su cui si basa l’opposizione protestante all’autorità magisteriale, infatti, è un criterio positivo di opposizione: il protestante ritiene che ciascun fedele abbia, dietro ispirazione dello Spirito Santo, l’autorità di determinare come vada interpretata la Scrittura. Lo stesso si può dire di gruppi eterodossi come i veterocattolici, che avanzano la medesima pretesa in riferimento però alla Tradizione (di cui i Padri della Chiesa sono parte). Come si vede, in entrambi i casi il criterio consiste nel considerare la propria ragione norma prossima per l’interpretazione e l’applicazione della norma remota (Scrittura e Tradizione) della fede. 

Il rifiuto di proposizioni che contraddicono il Magistero quale lo abbiamo esposto fin qui, invece, si fonda su un criterio puramente negativo: non pretende cioè di sostituire la ragione del credente al Magistero come norma prossima della fede, così che sia essa a determinare cosa fa parte e cosa no del depositum fidei (come vogliono i protestanti), ma si limita, appunto perché aderisce a tutte le proposizioni che la norma prossima della fede ha stabilito farne parte, a rifiutare quelle che le contraddicono (chiunque sia a proporle). Il protestante, insomma, pretende di dire all’autorità cosa fa parte della Rivelazione; invece il cattolico («tradizionalista», se si vuole, ma intesa nel senso giusto l’espressione non è che un pleonasmo) si limita a ricordarle che ciò che essa stessa ha insegnato farne parte non può ad un tratto venirne escluso o, all’opposto, ciò che essa stessa ha dichiarato incompatibile col deposito della fede non può improvvisamente entrare a farne parte. 

Non è dunque chi opera questa critica che agisce da protestante, ma sarebbe piuttosto chi negasse questa possibilità di critica a fare del detentore dell’autorità magisteriale una sorta di nuovo messia, che avrebbe così l’autorità di cambiare anche ciò che era stato dato in precedenza come legge inderogabile. Compito del Magistero, invece, è quello di trasmettere, sviluppare, spiegare, approfondire (sono le famose chiavi del regno dei cieli): non di inventare cose nuove. L’unico che ha potuto dire con autorità (divina): «Vi è stato detto, ma in verità io vi dico…» è Gesù Cristo. Una volta chiusa la Rivelazione con la morte dell’ultimo apostolo[20], a nessuno – nemmeno al suo Vicario – ha dato il potere di fare lo stesso. 

5. Sulla vetta del monte: tre punti fermi 

In conclusione, quindi, e senza pretendere minimamente di risolvere un problema così complesso, ma al solo scopo di disporre di qualche linea-guida per non naufragare nel mare aperto dell’attuale crisi, qualunque sia il nostro ruolo (fedeli laici, chierici, teologi), nell’abbordare il problema dell’autorità del Magistero possiamo attenerci a questi tre punti fermi[21], che ci possono aiutare ad elevarci sulla vetta della verità cattolica al di sopra dei due estremi opposti: 

• anche durante e dopo il Concilio Vaticano II il vero Magistero non ha smesso di esistere e di essere realmente esercitato e, nei casi in cui ciò si verifica, gli si deve vera obbedienza, secondo i diversi gradi di assenso al Magistero richiesti dalla Chiesa;
• nei punti (peraltro di per sé non molto numerosi[22]) in cui si può constatare che testi del Magistero recente contengono proposizioni che appaiono in chiara contraddizione con proposizioni già insegnate dal Magistero precedente, e in quelli che ne costituiscono un’emanazione o una conseguenza diretta, ci si può invece attenere senza remore agl’insegnamenti del Magistero precedente, perché quelli che lo contraddicono non possono avere carattere vincolante; 
• in tutti gli altri punti, dove cioè da una parte non appare con chiarezza se l’autorità sta esercitando il potere magisteriale tradizionale, ma dall’altra non si può neppure dimostrare nessuna contraddizione esplicita col Magistero precedente, tali passaggi, con la debita prudenza e da parte di chi ne ha la competenza, vanno interpretati alla luce della Tradizione. 

 Ma a tutto questo va aggiunto ancora un importante corollario: e cioè che per non screditare da noi stessi le nostre posizioni, dobbiamo evitare ogni inutile polemica, insulto o mancanza di rispetto nei confronti dell’autorità, concentrando le forze sulla solidità e la scientificità dei nostri argomenti. Una critica teologica condotta in questo modo potrà essere solo un servizio per la Chiesa. E in tal modo, il problema dell’autorità magisteriale nell’età contemporanea resta un cantiere aperto al quale chiunque non manchi di sensus Ecclesiæ e di sano realismo può collaborare, senza dimenticare però che ogni nostro contributo (e questo articolo per primo) dovrebbe concludersi e intendersi sempre salvo meliori iudicio Ecclesiæ

 NOTE 

[1] R. GARRIGOU-LAGRANGE O.P., Le tre età della vita interiore, Edizioni Vivere In, Roma 1984, vol. II, p. 17. Il fatto che, nel caso specifico, Garrigou applichi questo principio soprattutto alla vita spirituale non significa, d’altronde, che esso sia valido solo in materia di spiritualità. Non va dimenticato, infatti, che la teologia è una scientia una: la sua divisione in diverse branche (dogmatica, morale, spiritualità, ecc.) operata nel corso dei secoli si fonda su ragioni fondamentalmente pratiche e didattiche (cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ, Ia, q. I, a. 3). 

[2] Cfr. PIO XII, Enciclica Humani generis del 12 agosto 1950: «Benché questo sacro Magistero debba essere per qualsiasi teologo, in materia di fede e di costumi, la norma prossima e universale di verità (in quanto ad esso Cristo Signore ha affidato il deposito della fede – cioè la Sacra Scrittura e la Tradizione divina – per essere custodito, difeso ed interpretato), tuttavia viene alle volte ignorato, come se non esistesse il dovere che hanno i fedeli di rifuggire pure da quegli errori che in maggiore o minore misura s’avvicinano all’eresia». I teologi ne traggono generalmente la conclusione che la Sacra Scrittura e la Tradizione costituiscono invece la «norma remota» della fede, alla quale dunque l’intelligenza del fedele non può attingere direttamente per trarne conclusioni sulle verità di fede, ma sempre mediatamente, cioè tramite una norma ultima (il Magistero) che regoli in modo più prossimo la sua coscienza. 

[3] Altri segni interessanti di questa nuova concezione del Magistero possono essere ravvisati in alcuni passaggi tratti dai testi magisteriali stessi, come ad esempio l’Enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI, nella quale il Pontefice dichiara di voler dare al suo ministero uno scopo soprattutto dialogico e pastorale (cfr. § 7: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio»). Quando è questa forma di esercizio «dialogico» del Magistero ad essere esercitata, ci si potrebbe in effetti chiedere, a titolo di ipotesi teologica, se questi atti possano realmente rientrare nelle categorie tradizionali del Magistero. Tuttavia, anche ammessa la fondatezza di tale ipotesi, il fatto che i Pontefici postconciliari abbiano, da una parte, fatto proprio prevalentemente questo esercizio «dialogico» del Magistero, non impedisce che, dall’altra, abbiano fatto ricorso anche, in altre circostanze, alla modalità tradizionale di esercizio del Magistero. 

[4] Anche il fatto che i Pontefici del Postconcilio ammettano il principio della libertà religiosa così come formulato dal Concilio Vaticano II in Dignitatis humanæ non può costituire un argomento a sostegno di tale tesi, perché in tale documento, se si afferma il diritto a non essere impediti nell’esercizio del culto religioso a cui si aderisce in coscienza, non si nega certo che il Magistero della Chiesa abbia carattere vincolante per la coscienza di chi aderisce al culto cattolico. 

[5] In effetti i teologi avevano dibattuto per molti secoli per determinare se l’episcopato, considerato distintamente dal presbiterato, sia un sacramento. E, già prima del Concilio, anche Pio XII in Sacramentum Ordinis, pur non dirimendo definitivamente la questione, sembra allinearsi decisamente alla soluzione affermativa (cfr. FRANCISCO A. SOLÁ S.I., De sacramentis vitæ socialis christianæ, in AA.VV., Sacræ theologiæ summa, BAC, Madrid 1957, vol. IV, pp. 596-607). 

[6] Cfr. I. SALAVERRI S.I., De Ecclesia Christi, in AA.VV., Sacræ theologiæ summa, BAC, Madrid 1962, vol. I, p. 793: «”Dottrina cattolica” strettamente intesa è quella che il Magistero universale insegna in modo meramente autentico, vale a dire con un atto dalla reale autorità dottrinale, senza però che escluda del tutto la possibilità dell’errore. Infatti […] esiste nella Chiesa un Magistero universale ed autentico a cui si deve un assenso interno e religioso, benché non abbia l’intenzione di definire qualcosa con un infallibile atto di autorità […]. Una dottrina insegnata autenticamente dalla Chiesa con questo grado minore di autorità, poiché è proposta dal Magistero universale, viene abitualmente denominata “dottrina cattolica” in senso stretto. E una dottrina ad essa contraria si può definire “errore nella dottrina cattolica”» (Doctrina Catholica stricte est ea quam universale Magisterium docet mere authentice, actu nempe doctrinalis veræ auctoritatis, sed non excludente possibilitatem erroris. Nam […] est in Ecclesia Magisterium universale et authenticum, cui debetur assensus internus et religiosus, etsi non intendat auctoritatis actu infallibili aliquid definire […]. Doctrina quæ hoc minori auctoritatis gradu ab Ecclesia authentice docetur, quia ab universali Magisterio proponitur, appelari consuevit Doctrina Catholica stricte. Contraria vero dici potest error in Doctrina Catholica). 

[7] M. LEFEBVRE, Marie, Mère de l’Eglise, in Lettres pastorales et écrits, Editions Fideliter, Escurolles 1989, p. 211-212. Questa citazione, tratta da una delle circolari (Avis du mois) che mons. Lefebvre, in qualità di Superiore generale dei Padri dello Spirito Santo, inviava mensilmente ai suoi confratelli, data del 1965. Il suo tono di elogio nei confronti del Concilio non deve sorprendere né va messo in contraddizione con le critiche che, già l’anno successivo, l’Arcivescovo avrebbe avanzato nei confronti di diversi pronunciamenti conciliari: queste righe non fanno altro che mostrare che fin quando non ebbe dai fatti, poco tempo dopo, l’evidenza del contrario, mons. Lefebvre volle ancora sperare che il Concilio avrebbe apportato quelle luci e quei frutti che, ancora ai tempi della sua convocazione e del suo svolgimento, si aspettava da esso; e, anche, che mantenne sempre un giudizio equilibrato, sapendo distinguere fin da subito i pronunciamenti in cui il Concilio impegnava realmente la sua autorità magisteriale facendosi eco della Tradizione da quelli in cui se ne discostava. 

[8] Id., Après le Concile: l’Eglise devant la crise morale contemporaine (conferenza tenuta nel 1969 alla Faculté Autonome d’Economie et de Droit di Parigi), in M. LEFEBVRE, Un évêque parle, Dominique Martin Morin, Parigi 1974, pp. 104-105. 

[9] «Al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4). 

[10] Non si confonda, beninteso, «magisteriale» con «infallibile». Una cosa è constatare il carattere magisteriale di un testo, tutt’altra determinarne la nota teologica e, eventualmente, l’infallibilità. 

[11] M. LEFEBVRE, Réflexions sur la question du magistère de l’Eglise, in Cor Unum. Vinculum membrorum Fraternitatis Sancti Pii X, n. 101, p. 30. La redazione di questo testo fu occasionata da una frase di un articolo di Fideliter, la rivista del Distretto francese della Fraternità San Pio X, che aveva suscitato qualche polemica. La frase incriminata era la seguente: «A differenza di tutti i Concili ecumenici precedenti, il Vaticano II si è voluto “Concilio pastorale” e non ha definito nessun punto di dottrina nel senso di una definizione irriformabile e infallibile: i documenti del Concilio, di conseguenza, appartengono al limite al Magistero ordinario della Chiesa, nel quale non è escluso che si possano trovare degli errori» (Fideliter, n. 46, luglio-agosto 1985). Mons. Lefebvre prese le difese di Fideliter, affermando che questa frase «non è in sé suscettibile di incriminazione, a meno che non si riferisca al Magistero ordinario e universale quale lo definisce il Vaticano I. Senz’altro esiste un Magistero ordinario pastorale che può contenere degli errori o esprimere delle semplici opinioni». 

[12] Cfr. la Notificazione fatta dall’Ecc.mo Segretario generale (mons. Pericle Felici) nella congregazione generale 123.a del 16 novembre 1964: «È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: “Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute”. In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo: “Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d’interpretazione teologica”». 

[13] Ciò non toglie, ovviamente, che un Pontefice possa insegnare magisterialmente una tesi alla quale in precedenza egli stesso (o un suo predecessore) aveva aderito solo a titolo di opinione personale. Questo, però, richiederebbe appunto un nuovo e formale insegnamento magisteriale e, in ogni caso, non può riguardare un’opinione già chiaramente e definitivamente condannata dal Magistero. 

[14] I criteri in base ai quali si può riconoscere con relativa sicurezza (restando cioè nell’ordine della mera certezza morale) se un atto sia provvisto di tale autorità sono fondamentalmente i seguenti: che a promulgarlo sia l’autorità legittima e competente; che la materia sia atta (che si tratti cioè di dottrine di fede o di morale, oppure di verità naturali logicamente e intimamente connesse con queste); il contesto e il pubblico a cui si rivolge; la solennità che si accompagna alla promulgazione dell’atto; il linguaggio utilizzato (ad esempio quello utilizzato da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis – per la quale cfr. supra, nota 4 – non lascia spazio a dubbi); e infine (benché, in un contesto di crisi ecclesiale generalizzata, quest’ultimo punto si riveli a volte di più difficile applicazione) il generale consenso della Chiesa docente. Si noterà en passant che proprio tale consenso universale è palesemente assente nel caso di Amoris lætitia, che viene interpretata e applicata nei modi più disparati dagli Episcopati di diverse nazioni. 

[15] ARISTOTELE, Metafisica, Γ, 3, 1005b 19-20. 

[16] Gal 1,6. 

[17] Resta comunque vero che, specialmente al di fuori dei tempi straordinari di crisi nella Chiesa, præsumptio stat pro auctoritate. Affermare, quindi, che in situazioni straordinarie un cattolico può, di fronte all’evidenza, constatare una contraddizione tra gli insegnamenti che gli sono proposti dalla legittima autorità, non esclude che, in via di principio, bisogna comunque effettivamente fare affidamento sull’autorità, fin quando l’evidenza delle cose non persuade al contrario. Mettersi sullo stesso piano o al di sopra dei rappresentanti della Chiesa docente resta una tentazione alla quale il cattolico tradizionalista deve guardarsi bene dal cedere. 

[18] Si noti, peraltro, che l’ecclesiologia è l’unica branca della teologia cattolica che san Tommaso d’Aquino non ha trattato nella sua Somma teologica, e questo, insieme alla complessità del suo oggetto, spiega come sia possibile che mentre per studiare seriamente argomenti come l’Eucaristia o la Trinità non si deve fare altro che inserirsi sulla scia della speculazione della Scolastica medievale, l’ecclesiologia invece resti ancora oggi, in parte, un cantiere aperto per i teologi. Cfr. C. JOURNET, L’Eglise du verbe incarné, Desclée de Brouwer, Parigi 1941, t. I, p. XII : «È davvero un peccato che il dottore angelico, che aveva per la Chiesa una devozione così delicata e, nel parlare da una parte del Cristo e dall’altra dei sacramenti, ha formulato tutti i princìpi che ne illustrano la struttura interna, non abbia composto, in un quadro analogo, un trattato de Ecclesia: avrebbe saputo sviscerarne subito tutte le dimensioni». Ovviamente non sono mancati, specialmente nella prima metà del Novecento, ottimi lavori di speculazione teologica sulla Chiesa: si pensi, ad esempio, ai grandi trattati de Ecclesia di Billot, Zapelena e Salaverri o agli approfondimenti dello stesso Journet. Ma, nel complesso, il materiale di cui si dispone oggi resta, soprattutto alla luce degli sviluppi (allora imprevedibili) degli ultimi sessant’anni, ben lungi dall’essere esauriente. 

[19] A parziale giustificazione di questo atteggiamento semplicistico va comunque detto che forse proprio l’esercizio esemplare che per molti decenni ininterrotti i Papi hanno fatto del Magistero (e non solo nel suo ruolo definitorio e sanzionatorio, ma anche in quello esplicativo e nell’approfondimento teologico delle verità di fede, come mostrano le grandi encicliche di Papi come Leone XIII e Pio XII) aveva fatto dimenticare ai cattolici l’esistenza della possibilità che l’autorità si sbagli. Questo è probabilmente il motivo della forte disapprovazione, da parte dell’area conservatrice degli anni ’70, della posizione di chi applicava questa distinzione ai testi conciliari. Su queste basi si giunse perfino ad accusare mons. Lefebvre di fare, col suo atteggiamento, «peggio dei modernisti». Oggi però questa tesi fa molta meno paura. Anzi, nelle sue linee essenziali comincia ad essere sostenuta da molti teologi (tutti ufficialmente riconosciuti dalla gerarchia ecclesiastica) che, di per sé, non hanno mai fatto parte della Fraternità San Pio X (ad esempio il compianto mons. Brunero Gherardini, i quattro cardinali dei Dubia su Amoris lætitia e i firmatari della Correctio filialis a papa Francesco).

[20] Alle verità insegnate direttamente da Gesù Cristo si possono assimilare, infatti, anche quelle che gli apostoli hanno promulgato su suo mandato e la cui autorità viene per questo denominata comunemente «divino-apostolica». 

[21] Cfr. M. LEFEBVRE, Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Tradizione perenne e futuro della Chiesa, a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Sugarco Edizioni, Milano 2010, p. 91: «Dire che valutiamo i documenti del Concilio “alla luce della Tradizione” vuol dire, evidentemente, tre cose inscindibili: che accettiamo quelli che sono conformi alla Tradizione; che interpretiamo secondo la Tradizione quelli che sono ambigui; che respingiamo quelli che sono contrari alla Tradizione». 

[22] Se ci si attiene strettamente, infatti, alla lettera dei testi, si può dire che ci sono «tre punti degli insegnamenti dottrinali del Concilio Vaticano II che appaiono davvero inconciliabili con la dottrina della fede cattolica già proposta dai documenti precedenti del Magistero ecclesiastico e che vanno dunque rifiutati. Il primo di questi punti è la dottrina sulla libertà religiosa» (Dignitatis humanæ, n.2, in contraddizione con gli insegnamenti di Gregorio XVI in Mirari vos, di Pio IX in Quanta cura, di Leone XIII in Immortale Dei e di Pio XI in Quas primas); «il secondo punto è la dottrina sull’ecumenismo e le religioni non cristiane», (Unitatis redintegratio, n. 3 e Nostra ætate, n. 2, in contraddizione con la condanna delle proposizioni 16 e 17 del Sillabo di Pio IX e con l’insegnamento di Pio XI in Mortalium animos); «il terzo ed ultimo punto è la dottrina sulla collegialità, che, per come è espressa nel n. 22 della Costituzione Lumen gentium […], rischia di mettere seriamente in discussione gli insegnamenti del Concilio Vaticano I sull’unicità del soggetto del potere supremo nella Chiesa, espressi nella Costituzione Pastor æternus» (don J.-M. GLEIZE, Vaticano II. Un dibattito aperto, Editrice Ichtys, Albano Laziale 2013, pp. 219-220). Non è però solo il loro numero a determinare la gravità e la portata degli errori: non si dimentichi, infatti, che «un piccolo errore nei princìpi diventa grande nelle conseguenze» (san TOMMASO D’AQUINO, De ente et essentia, Proemio). E ad un’analisi attenta, in effetti, la maggior parte degli errori diffusisi nell’età postconciliare non sono che conseguenze o emanazioni di questi tre. 

don Angelo Citati

sabato 8 febbraio 2020

Se il sale perde sapore. La situazione del Cattolicesimo postconciliare in un testo di Hans Urs von Balthasar

Fotogramma da Nattvardsgästerna / Luci d'inverno Ingmar Bergman, 1963
A due anni dalla pubblicazione di Cordula oder der Enstfall di Hans Urs von Balthasar (Johannes Verlag, Einsiedeln 1966; ultima edizione 1987; in italiano: Queriniana, Brescia 2016, prefata dal Cardinal Agelo Scola; oppure in Gesù e il cristiano, Jaca Book, Milano 1998) Alfredo Cattabiani con una recensione apparsa ne L’Osservatore Romano del 14 marzo 1968 (“Un libro paragonato a Le Paysan de la Geronne”) salutava nel testo del teologo svizzero “un valido contributo in difesa dell’ortodossia cattolica”, mentre, con maggior prudenza, quasi a indicare un compimento ancora imperfetto, Claudio Leonardi in Renovatio (1968, n.3: “Von Balthasar: La prova della fede”) scriveva significativamente: “La critica di von Balthasar appare fondamentalmente esatta e il suo appello onesto e coraggioso, perché significa anche una conversione da posizioni precedenti definibili entro il progressismo” (p. 422); e aggiungeva: “Forse la sua durezza con Rahner, tutta legittima, è anche un sintomo di una battaglia non ancora completamente risolta” (p. 424). Poco più tardi un esperto di San Tommaso, il lazzarista Giuseppe Perini, avrebbe sottolineato la relazione tra il von Balthasar di Cordula e l’opera di Søren Kierkegaard parlando di un “Kierkegaard cattolico”: “Lo stile dell'esposizione, il vigore polemico e, soprattutto, certe espressioni e richiami espliciti che troviamo in questo scritto di von Balthasar fanno pensare a Kierkegaard. La denuncia e la lotta contro il ‘sistema’ (con questo Kierkegaard designava propriamente la filosofia hegeliana), considerato come devastatore e distruttore del cristianesimo, è uno dei temi dominanti negli scritti
 del pensatore danese, il quale al ‘superamento’ e svuotamento del cristianesimo operato dal ‘sistema’ contrappone il martirio come ‘cardo rerum del cristianesimo’” (Divus Thomas, vol. 72, 1969, p. 337: “Cordula di von Balthasar: Problemi si pongono”).

Comunque si voglia giudicare il teologo von Balthasar nel campo di coloro che oggi si attengono
La prima edizione del 1966
alla Tradizione cattolica (e non mancano voci autorevoli critiche o persino molto critiche come, tra le altre, quella del Professor Ignacio Andereggen: vedi qui),
Cordula è uno di quei libri – al pari de L’avventura della teologia progressista di Cornelio Fabro (Rusconi, Milano 1974) - che fanno da sismografo di una grave crisi spirituale già in atto e che annunciano terremoti (indicando anche rifugi). In particolare è un attacco senza riserve al rahnerismo, alla sua disponibilità a includere e finalmente assorbire l’eccezione cristiana nel sistema immanente della filosofia moderna, in cui regnano “oggettività” scientifica e “soggettività” trascendentale” e Dio è tolto, come è tolto dalla sostituzione, tutta rahneriana, dell’“amore di Dio” con l’“amore del prossimo” in cui si compirebbe l’estrema decisione etica (senza Dio). Di qui il “cristiano anonimo” di Rahner; di qui, sul fronte opposto, l’Ernstfall, il “caso serio” di von Balthasar: Cristo Crocifisso, il martirio come decisione ultima di ogni cristiano nella vita quotidiana e nella disponibilità all’imitazione del Figlio di Dio fino al sacrificio di sé nella morte.

Nel VI capitoletto di Cordula (“Wenn das Salz dumm wird”, “Quando il sale perde sapore”) appare di fronte al proprio giudice “ben disposto” (che è il secolo cui ci si è “aperti”), in tutte le sue sfumature e gradualità psicologiche e teologiche di straordinaria attualità, il processo di autoliquidazione di un cristianesimo che ha rinunciato a Cristo e alla Croce.  A.S.

Il commissario (ben intenzionato): Compagno cristiano, mi puoi dire una buona volta chiaramente che cosa siete voi cristiani? Che cosa propriamente volete ancora nel nostro mondo? In che cosa vedete il vostro diritto all’esistenza? Qual è il vostro mandato? 

 Il cristiano: Anzitutto noi siamo uomini come tutti gli altri, che collaborano all’opera di edificazione del futuro.

 Il commissario: La prima cosa la credo, la seconda la voglio sperare.

Il cristiano: Da qualche tempo noi siamo infatti “aperti al mondo”, ed alcuni di noi si sono persino seriamente “convertiti al mondo”.

Il commissario: Questo mi pare un sospetto linguaggio da prete. Sarebbe, infatti, ancor più bello se voi, “uomini come gli altri”, vi foste convertiti già prima ad un’esistenza degna di uomini. Ma veniamo al fatto. Perché siete ancora cristiani? 

Il cristiano: Oggi noi siamo cristiani maturi, pensiamo ed agiamo con responsabilità morale.

Il commissario: Lo voglio sperare, dal momento che vi presentate come uomini. Ma credete qualcosa di particolare? 

Il cristiano: Questo non è tanto importante; ciò che importa è la parola epocale; l’accento oggi cade sull’amore del prossimo. Chi ama il prossimo, ama Dio.

Il commissario: Nell’ipotesi che esista. Ma poiché non esiste, non l’amate.

Il cristiano: Lo amiamo implicitamente, in modo non oggettivo.

Il commissario: Ah, la vostra fede quindi non ha un oggetto. Andiamo avanti. La cosa diventa chiara.

Il cristiano: Non è del tutto così semplice. Noi crediamo in Cristo.

Il commissario: Ne ho già sentito parlare. Ma sembra che storicamente se ne sappia maledettamente poco.

Il cristiano: Concesso. Praticamente nulla. Perciò noi non crediamo tanto al Gesù storico quanto al Cristo del kerygma.

Il commissario: E che mai c’è in questo messaggio?

Il cristiano: L’importante è il modo in cui se n’è toccati. Ad uno può permettere il perdono dei peccati. Questa, in ogni caso, era l’esperienza della comunità primitiva. A ciò dev’essere stata indotta dagli eventi relativi al Gesù storico, del quale veramente non sappiamo abbastanza per essere certi che lui…

Il commissario: E questo chiamate la vostra conversione al mondo? Siete gli oscurantisti di sempre. È con simili chiacchiere prolisse che volete collaborare all’edificazione del mondo!

Il cristiano (gioca la sua ultima carta): Abbiamo Teilhard de Chardin, che in Polonia fa una grande impressione!

Il commissario: La facciamo già noi. Non abbiamo bisogno, per questo, di dipendere da voi. Ma è bello che anche voi siate giunti infine a tal punto; soltanto, liquidate definitivamente le carabattole mistiche, che non hanno nulla a che vedere con la scienza, e allora potremo discorrere tra noi dell’evoluzione. Nelle altre storie non entro. Se voi stessi ne sapete così poco, non siete più pericolosi. Con ciò ci risparmiate una pallottola. Abbiamo in Siberia dei campi molto utili, dove potrete dimostrare il vostro amore per gli uomini e collaborare validamente all’evoluzione. Là si ricaverà di più che sulle vostre cattedre tedesche. 

Il cristiano (un po’ deluso): Voi sottovalutate la dinamica escatologica del cristianesimo. Noi prepariamo il futuro regno di Dio. Noi siamo la vera rivoluzione mondiale. Egalité, liberté, fraternité: questo è il nostro compito originario.

Il commissario: Che razza di parola è questa? Cinese? 

Il cristiano: Greco. Significa la predicazione del messaggio. Noi ci sentiamo toccati dall’evento linguistico del messaggio della fede.

Il commissario: Peccato che altri abbiamo dovuto lottare per voi. Dopo, non è difficile essere presenti. Il vostro cristianesimo non vale un fico secco.

Il cristiano: Voi siete con noi! Io so chi siete. Tu pensi onestamente, sei un cristiano anonimo.

Il commissario: Non diventare insolente, giovanotto. Anch’io ora ne so abbastanza. Vi siete liquidati da soli, e con ciò ci risparmiate la persecuzione. Via.