mercoledì 26 febbraio 2020

Dei frutti salutari del digiuno spirituale. Un testo di Joseph Ratzinger per chi oggi non può ricevere la comunione

Paradossalmente gli effetti che oggi i comunicati dei Vescovi - in ottemperanza agli atti normativi delle autorità civili per limitare la diffusione del coronavirus - producono sui fedeli non sono molto differenti, anche se diversi nello scopo, da quelli delle scomuniche ecclesiastiche che in passato colpivano città, signorie o regni: la privazione della celebrazione della Messa e dell'accesso alla comunione sacramentale. Sulla indecenza di non far celebrar messa in tempo di epidemia abbiamo già riportato alcune opportune osservazioni di Fabio Adernò (vedi qui). Sulla inclinazione, vagamente erastiana, dell'episcopato a un discutibile ossequio al legislatore statale che sacrifica la visione sovrannaturale della Chiesa bisognerà dire. D'altro canto, tuttavia, la condizione dei fedeli privati dell'eucaristia e forse anche del Sacrificio della Messa nelle loro parrocchie (non è improbabile che in molte chiese non sia celebrato neppure "a porte chiuse") può essere occasione per sperimentare una "fame" che avvicina all'amore di Dio e fa "capire di nuovo i doni del Signore". Di ciò parla Joseph Ratzinger alla fine del saggio "Communio. Eucaristia, comunità e missione" in J. Ratzinger, La Comunione nella Chiesa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pp. 85-90 (Il problema degli scomunicati), in una prospettiva teologica e storica. Qui di seguito il testo.

Che cosa dobbiamo però dire, se le cose stanno così, dei molti scomunicati che credono nel Signore ed in lui sperano, e desiderano il dono del suo corpo, ma non possono ricevere il sacramento? Io penso alle forme del tutto diverse di esclusione dalla comunione sacramentale. Da una parte vi è anzitutto l’impossibilità materiale di ricevere il sacramento in periodi di persecuzione o a causa della mancanza di sacerdoti. Dall’altra parte ci sono esclusioni giuridicamente fondate dalla comunione, come nel caso dei divorziati risposati. In un certo senso, qui viene toccato anche il problema ecumenico, la mancanza di comunione tra i cristiani separati. Naturalmente è impossibile chiarire questioni tanto diverse e tanto ampie nell’ambito del nostro tema. Tralasciarle del tutto, tuttavia, sarebbe una mancanza d’onestà. Benché una risposta sia qui impossibile, almeno vorrei tentare un breve richiamo ad un importante punto di vista. Nel suo libro L’Église est une communion, Hamer mostra che la teologia medievale, la quale, a sua volta, non poteva certo trascurare il problema degli scomunicati, s’è confrontata con esso in un modo molto accurato. Per i pensatori medioevali non era più possibile — come lo era nell’epoca patristica — identificare semplicemente l’appartenenza alla comunione visibile della Chiesa col rapporto con il Signore. Graziano aveva ancora scritto: cari, un cristiano che è escluso dalla comunione dai sacerdoti, è consegnato al diavolo. Perché? Poiché fuori della Chiesa vi è il diavolo, come all’interno della Chiesa Cristo. Rispetto a ciò, i teologi del XIII secolo si trovavano davanti al compito, da una parte, di mantenere il collegamento indispensabile tra interno ed esterno, tra segno e realtà, tra corpo e spirito, ma, ad un tempo, dovevano anche tener conto della diversità di entrambi. Così, ad esempio, troviamo in Guglielmo di Auvergne la distinzione in base alla quale comunione esterna e comunione interna sono in relazione l’una con l’altra come segno e realtà. Egli spiega allora che mai la Chiesa vorrebbe privare qualcuno della comunione interna. Quando essa usa la spada della scomunica, accade, secondo lui, solo ed unicamente per salvare con questa medicina la comunione spirituale. A questo aggiunge un pensiero altrettanto consolante e stimolante. A lui sarebbe noto — così dice — che per non pochi il peso dell’esclusione dalla comunione è tanto difficile da portare quanto il martirio. Ma talvolta uno da scomunicato procede nella pazienza e nell’umiltà più che nella situazione di partecipazione esterna alla comunione. Bonaventura ha approfondito ulteriormente questa concezione. Contro il diritto di esclusione della Chiesa egli si imbattè in un’obiezione assolutamente moderna, che così diceva: scomunicare è separare dalla comunione. La comunione cristiana, però, per natura è costituita dall’amore, anzi è comunione d’amore. Nessuno ha il diritto di escludere qualsivoglia persona dall’amore, dunque non esiste il diritto di scomunicare qualcuno (cfr. Hamer). A questa obiezione Bonaventura risponde con la distinzione di tre livelli di comunione; in questo modo egli può tener fermi la disciplina ecclesiastica ed il diritto ecclesiastico, e ad un tempo da teologo dire in piena responsabilità: «Io concludo che nessuno né può né deve essere escluso dalla comunione d’amore, sino a quando vive sulla terra. La scomunica non è esclusione da questa comunione». 

Da tali riflessioni, che oggi dovrebbero essere di nuovo accolte ed approfondite, non si può evidentemente concludere che sia superflua o meno importante la concreta, sacramentale appartenenza alla comunità fondata nella comunione. Lo «scomunicato» viene sostenuto dall’amore del corpo vivente di Cristo, dalle sofferenze dei santi che si uniscono alla sua sofferenza così come alla sua fame spirituale, poiché ambedue sono circondati dalle sofferenze, dalla fame, dalla sete di Gesù Cristo, che sopporta e sostiene noi tutti. D’altra parte la sofferenza dell’escluso, il suo tendere alla comunione — (sacramentale e di coloro che sono parte vivente di Cristo)— rappresenta il legame che lo tiene unito all’amore salvifico di Cristo. In entrambe le prospettive, dunque, si impongono e sono irrinunciabili il sacramento e la comunità che, da lui edificata e visibile, è fondata nella comunione. Anche qui ha luogo, dunque, il «salvataggio dell’amore» che è l’ultima mira della croce di Cristo, del sacramento, della Chiesa. Diviene allora comprensibile come, nella sofferenza per la lontananza, nel dolore pieno di desiderio e nell’amore che nella sofferenza cresce, l’impossibilità della comunione sacramentale possa condurre paradossalmente al progresso spirituale. La ribellione invece — come afferma Guglielmo d’Auvergne — necessariamente dissolve il fine positivo, costruttivo della scomunica. La ribellione non salva, ma distrugge l’amore.

In questo contesto mi si impone una riflessione che ha un più forte carattere di pastorale generale. Quando Agostino sentì avvicinarsi la morte, «scomunicò» se stesso, prese su di sé la penitenza della Chiesa. Nei suoi ultimi giorni si pose in solidarietà con i pubblici peccatori che cercano perdono e grazia mediante la sofferenza per la rinuncia alla comunione . Egli volle incontrare il suo Signore nell’umiltà di chi ha fame e sete di giustizia, di Lui, il giusto e il misericordioso. Sullo sfondo delle sue prediche e dei suoi scritti che descrivono grandiosamente il mistero della Chiesa come comunione con il corpo di Cristo e come corpo di Cristo a partire dall’eucarestia, questo gesto ha in sé qualcosa di commovente. Esso mi rende tanto più pensoso quanto più spesso vi rifletto. Noi, oggi, non riceviamo spesso con eccessiva facilità il santissimo sacramento? Talvolta questo digiuno spirituale non sarebbe utile o addirittura necessario al fine di approfondire e rinnovare il nostro rapporto col corpo di Cristo? 

In questa direzione la Chiesa antica conosceva una pratica di grande capacità espressiva: già a partire dall’epoca apostolica il digiuno eucaristico del venerdì santo era frutto della spiritualità comunionale della Chiesa. Proprio la rinuncia alla comunione in uno dei giorni più santi dell’anno liturgico, trascorso senza messa e senza comunione ai fedeli, era un modo particolarmente profondo di partecipare alla passione del Signore: il lutto della sposa alla quale è tolto lo sposo (cfr. Mc. 2, 20). Io penso che anche oggi un tale digiuno eucaristico, nel caso fosse determinato da riflessione e sofferenza, avrebbe un notevole significato in determinate occasioni, da ponderare con cura, come nei giorni di penitenza (perché non, ad esempio, di nuovo il venerdì santo?) o in modo del tutto particolare durante le grandi messe pubbliche in cui addirittura il numero dei partecipanti spesso non rende più possibile una dignitosa distribuzione del sacramento. In tal caso la rinuncia potrebbe veramente esprimere maggiore riverenza ed amore al sacramento di una partecipazione materiale che si trova ad essere in contraddizione con la grandezza dell’evento. Un tale digiuno — che naturalmente non può essere arbitrario, ma deve ordinarsi all’orientamento della Chiesa — potrebbe favorire un approfondimento del rapporto personale col Signore nel sacramento; potrebbe essere anche un atto di solidarietà con tutti coloro che hanno desiderio del sacramento, ma non lo possono ricevere. Mi sembra che il problema dei divorziati risposati, ma anche quello della intercomunione (ad esempio nei matrimoni misti) risulterebbe molto meno gravoso se tale volontario digiuno spirituale riconoscesse ed esprimesse visibilmente che noi tutti dipendiamo da quel «salvataggio dell’amore» che il Signore ha compiuto nell’estrema solitudine della croce. Naturalmente, con questo non vorrei proporre un ritorno ad una specie di giansenismo: il digiuno presuppone una condizione normale del mangiare tanto nella vita spirituale come in quella biologica. Ma talvolta abbiamo bisogno d’una medicina contro la caduta nella semplice abitudine e nella sua assenza di spiritualità. Talvolta abbiamo bisogno della fame — fisicamente e spiritualmente — per capire di nuovo i doni del Signore e per comprendere la sofferenza dei nostri fratelli che hanno fame. La fame tanto spirituale come fisica può essere uno strumento dell’amore.

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