martedì 31 agosto 2021

Apologia dei cattolici libertari. Una risposta al professor Pietro De Marco

Dale Nichols - Arizona's Twilight,1934
Come si educe dalla breve biografia riportata da il Sussidiario (vedi qui), il professor Pietro De Marco, nato a Genova nel 1941, non è inquadrabile come studioso cattolico tradizionale, anche se ora sembra voler esercitare generosamente il proprio magistero anche in questo campo. Nell’articolo Apocalittici e libertari. Il ribellismo suicida dei cattolici no-vax pubblicato recentemente da Sandro Magister nella sua pagina Settimo Cielo nel sito de l’Espresso (qui e ripreso da Corrispondenza Romana qui; poi recensito da Stefano Fontana nella NBQ qui) De Marco sostiene una tesi interessante perché indice dell’incomprensione di alcuni aspetti fondamentali del passaggio dalla politica antica alla politica moderna nonché di una conseguente polemica mal esercitata contro chi oggi si oppone ai metodi e alle forme della “dittatura sanitaria” (qui in una nostra iniziale configurazione del fenomeno).

La tesi di De Marco sembra essere infatti questa: la difesa diffusa delle libertà personali di fronte ai provvedimenti anti-Covid dei governi rappresenta un processo di dissoluzione dell’“autorità” ancora esistente a tutto favore di una post-umanità indifferenziata e messa finalmente a disposizione di un tiranno, questo sì, veramente anticristico; il Cattolicesimo (tradizionale) dovrebbe, per evitare il suicidio, riaffermare il doppio katéchon dello Stato e della Cristianità. Formalmente la tesi di De Marco potrebbe essere condivisibile, soprattutto nelle sue conclusioni. In realtà, appena che si passi alla definizione dei concetti risulta del tutto fuorviante, almeno in una prospettiva tradizionale.

L’equivoco concettuale, che sembra condizionare tutto il discorso del Professor De Marco e di coloro che oggi ritengono di dover salvare a tutti i costi la decisione statale da ogni critica liquidata come “libertaria”, sta nella tralatizia immedesimazione del potere pubblico con lo Stato e dello Stato con un (il) katéchon. Una simile confusione non rende ragione al fondamento ontologico del politico da Esiodo fino alle monarchie del XVIII secolo, un fondamento che continua a sussistere (come osservò Otto Brunner nel suo bel saggio su La ‘casa come complesso’ e l’antica ‘economica’ europea, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1968, Vita & Pensiero) ancor oggi nonostante più di due secoli di sedimentazione rivoluzionaria: la struttura della casa e il signore della casa, il re nella sua accezione originaria come ancora lo intendeva Robert Filmer al di qua e al di là di Hobbes e di Locke, il pater familias o oikodespotes. Le monarchie antiche furono case sovrapposte a case e le democrazie antiche confederazioni di case. Questo sistema fu offuscato dalla decapitazione di Luigi XVI che instaurò, in luogo di uno stato di case e di padri, un “governo dei fratelli” (già parricidi) la cui chiusura fu necessariamente la sovranità dello Stato. Su questi passaggi scrisse cose notevoli Otto Brunner, e anche Carl Schmitt, citato parzialmente da De Marco, non li ignora, soprattutto nel suo imprescindibile dialogo con l’amico Álvaro d’Ors. Accanto allo Schmitt della Dottrina della costituzione (1928) c’è, infatti, lo Schmitt del Nomos della terra (1950) e dell'epocale superamento della forma politica statale. 

Se si accetta questo equivoco concettuale, come fa de Marco, fino a fare dello Stato un ente necessario nel contesto moderno e a individuare nel sistema statale l’ultimo freno alla dissoluzione anticristica, è giocoforza limitare e fondare le libertà in questo stesso sistema come se appartenessero definitivamente alla sua immanenza. Così infatti inequivocabilmente De Marco in un passaggio chiave, anche se un po' sfuggente, del suo articolo:
Se l’unica o almeno l’ultima autorità, nella tarda modernità dei diritti è assegnata, non per un abuso contingente ma per necessità, alle leggi e alle corti costituzionali, essa non può che agire minando le politiche e dissolvendo le società che incorporino autorità e in quanto la incorporano.

Una costatazione che si accompagna a un’altra costatazione secondo cui «l’intero “munus” imperativo (ovvero la cura dell’unità politica) è con la secolarizzazione (ovvero con la crisi della cristianità nell’età moderna) depositato nelle mani dei giuristi». Poiché si tratta qui evidentemente dei "giuristi curiali" del principe-Stato, ancora una volta De Marco legge parzialmente Schmitt che certamente individua nel “sileant theologi in munere alieno” di Alberico Gentili uno snodo fondamentale nella formazione dello Stato moderno, ma attribuisce, su un fronte opposto, allo jus non statale di Friedrich von Savigny (si veda il saggio di Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea, Pellicani, Roma 1996) e della sua scuola il compito di una forza frenante, di un katéchon appunto, all’interno di quello stesso processo formativo dello Stato in fondo al quale c’è il detto di Julius von Kirchmann: «I giuristi sono diventati, tramite la legge positiva, come vermi che vivono soltanto di legno marcio», mentre «tre parole del legislatore bastano a trasformare intere biblioteche in carta da macero» (J. H. von Kirchmann, Die Wertlosigkeit der Jurisprudenz als Wissenschaft, Muntius Verlag, Heidelberg 1988, pp. 28-29). Oggi il processo è persino oltremodo avanzato, poiché al legislatore che uccide il diritto è subentrata un’amministrazione materiale, la così detta governance, che pretende di indirizzare le società attraverso interventi puntuali e condizionanti, difficilmente sussumibili sotto qualche diritto anche soltanto legislativo, e perciò non processabili. L’armamentario dei dpcm, del lock-down e ultimamente del green-pass si inquadra in questo fenomeno al di là della sua occasione concreta.

Letta in questo contesto evolutivo, l’affermazione di De Marco sulla necessità del sistema statale come «l’ultima autorità … assegnata, non per un abuso contingente ma per necessità, alle leggi e alle corti costituzionali» appare persino superata, mentre doppiamente minacciosa nella sua attualità risulta la seconda parte della proposizione: «Essa non può che agire minando le politiche e dissolvendo le società che incorporino autorità e in quanto la incorporano». Qui allora l’affermazione della/e libertà può essere letta come dissoluzione libertaria soltanto nel quadro di una recidiva metafisica (o teologia) dello Stato, che De Marco sembra fare propria. In realtà e in un senso opposto, si tratta ancora una volta dell’affermazione dello jus come katéchon di fronte alla perfezione tecnica del Leviatano. Affermare il diritto è un esercizio di katéchon. Si tratta di un’insorgenza della storicità degli individui e delle famiglie come tempo non riducibile al normativo e come ricettacolo costante di istituti giuridici tradizionali e naturali. È la politica antica, come appena descritta, che si riprende i propri spazi, l’ontologia che forza la fantasmagoria statale. Un ordine politico libero (epperò autenticamente giuridico) e non statale, e in questo senso, se si vuole, anche libertario, che si affianca naturalmente (e non in maniera contraddittoria, come soltanto potrebbe fare lo Stato, secondo le conclusioni di De Marco) al più grande Katéchon costituito dalla Chiesa e dalla Cristianità. Qui la decisione sui vaccini cesserebbe di essere una minaccia sovranamente incombente.

Postilla: le presenti considerazioni possono essere anche riferite all'articolo del Professor Corrado Gnerre che, pur cercando di mantenersi nell'ambito interpretativo della dottrina sociale della Chiesa e della filosofia tomista, approda a una tesi analoga a quella di Pietro De Marco (vedi qui; e ripreso da CR qui).

Andrea Sandri

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