Riceviamo dal Professor Enrico Maria Radaelli, che ringraziamo per l'autorizzazione di pubblicarlo, un magistrale commento all'Enciclica di Francesco Laudato si'. Il Professor Radaelli ricorrendo alle categorie ameriane e ai solidi parametri ricavati dalle proprie opere e riflessioni sottopone a un vaglio tanto rigoroso quanto proficuo le pagine di una "Lettera enciclica più lunga di tutto il Nuovo Testamento messo insieme".
COMMENTO ALL'ENCICLICA LAUDATO SI'
IL PROBLEMA DELL’UOMO È IL PROBLEMA DELL’ADORAZIONE E
TUTTO IL RESTO È FATTO PER PORTARVI LUCE E SOSTANZA.
Così scriveva Romano Amerio nel giugno 1926 in Di un bisogno
dei contemporanei (Pagine nostre, periodico della diocesi di Lugano),
ventunenne studente alla Cattolica di Milano.
È invece forse cambiato, “il problema dell’uomo”, in questi
quasi cento anni da quel lontano giugno di fresche, assolutistiche e
specialmente molto veridiche scoperte ameriane?
Infatti: le chiese di tutto il mondo ormai da decenni si
stanno svuotando di giorno in giorno di milioni di fedeli. E dove vanno questi
milioni di fedeli gioiosamente apostati? Non vanno solo a zonzo qua e là, quasi
senza sapere dove andare, ma vanno in un luogo preciso, in un dirupo, in un
abisso scosceso e senza fondo, che loro credono di vedere come un luogo ameno e
solatio, il luogo dei piaceri e dei canti: vanno a ingrossare, spensierati e felici,
le fila del liberalismo, dell’agnosticismo, dell’ateismo militante, che
permette loro di fare finalmente quel che vogliono, una pacchia. E nei pochi
che restano nella Chiesa il sentimento religioso, intanto, si immiserisce
nell’abitudinarietà, nella pochezza spirituale, nella caduta del timor di Dio,
tutta colpa, queste tre infinite miserie, della perdita di apprezzamento e di
venerazione del dogma (la liturgia nasce dal dogma), sovrastato e ormai come
cancellato dalla terra della Chiesa.
È la “Guerra delle forme”, o “delle due forme”: la forma
dogmatica contro la pastorale, la forma pastorale contro la dogmatica. Guerra
che tutti combattono e di cui nessuno parla o vuol parlare: da cinquant’anni i
Pastori della Chiesa si procurano in tutti i modi di vessare il magistero
dogmatico così da anteporgli con ogni mezzo, fondamentalmente con
argomentazioni che in giurisprudenza cadrebbero sotto il nome di ‘falso
ideologico’, il magistero pastorale, il quale però è un magistero a metà, è un
magistero che vive e respira solo se dietro e tutt’intorno a lui è presente e
gli dà aria il magistero dogmatico, e oggi, essendo tutti obnubilati da tali
devianti registri (v., di chi scrive, Che cosa può cambiare e che cosa non può
cambiare nella Chiesa, in Dogma e Pastorale. L’ermeneutica della Chiesa dal
Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, a cura di Antonio Livi, Leonardo da
Vinci, Roma 2015, pp. 71, 103-6, 112, 139), non si trova un Pastore che sia uno
che osi eccepire su religiosità, convenienza, e, specialmente, correttezza
dottrinale della Laudato si’. Ciò che si vedrà qui.
Mettiamola pure così: la natalità di nazioni feconde come
Italia, Francia e Germania è precipitata, superando persino il cosiddetto
“punto di non ritorno”, e – ancor più grave – di ciò nessuno se ne occupa e
preoccupa, pur se personalità come Ettore Gotti Tedeschi da anni fanno notare
che tutta l’economia e il benessere sociale delle nazioni sono al traino della
loro natalità. La quale natalità però, a sua volta, è al traino della religione,
perché è solo in virtù della fede che l’uomo sa ritrovare i mezzi per vincere
il proprio egoismo, sa prendere in mano responsabilmente il proprio dovere di
generare a Dio altri figli nella fede, sa dare loro i mezzi per vivere
adorandolo, così portando « luce e sostanza » a questo altissimo fine ultimo, solo
per il quale l’uomo è stato creato e non adempiendo il quale l’uomo da se
stesso si danna in eterno.
La situazione, insomma, è tale da poter affermare con
certezza e senza ombra di dubbio che davvero “il punto di non ritorno”, se
vogliamo chiamarlo così, tanto sognato dai liberali quanto ritenuto impossibile
– e a ragione – dai cattolici, sarebbe arrivato anche per la cristianità.
“Punto di non ritorno” che peraltro la cristianità, coll’indizione in forma meramente
pastorale del concilio Vaticano II, si è accuratamente cercato, si è
pervicacemente voluto. È proprio con quell’apertura che la forma pastorale
attaccò tanto pesantemente quanto inaspettatamente la forma dogmatica, dando
inizio a quella devastante “Guerra delle forme” che porterà in pochi decenni
alla scomparsa della Chiesa dalla scena culturale di tutto il mondo occidentale
e alla scristianizzazione pressoché totale che si diceva della civiltà.
Ma mentre le nazioni fino a ieri cristiane possono ora
sbandierare felicemente un’almeno apparente vittoria del Liberalismo sul
Veritarismo proclamando la fine della cristianità, rimpiazzata in ogni ramo del
sapere dal pensiero anticattolico, la civiltà laicista, agnostica e atea che ne
ha preso momentaneamente il posto con prepotente, melliflua, ma inarrestabile e
smisurata violenza culturale, è giunta ormai quasi al suo prefissato e ben
studiato traguardo, e la dimostrazione di ciò la si ha in particolare nelle
arti: nell’arte propriamente detta, ma poi specialmente nella letteratura, nel
cinema, nella tv, nelle pagine culturali dei giornali, nel modo stesso con cui
si danno ormai oggi le notizie: è evidente a tutti l’invasione capillare e
incontrastata dell’ambienza liberale, del nuovo e tutto antropocentrico clima
culturale regnante su popoli e nazioni, che – pare – in tal modo finalmente
possono ben vivere e prosperare non solo, come si diceva ai tempi di Spinoza, etsi
Deus non daretur, “come se Dio non esistesse”, ma di più: velut si Deus homo
ipse esset, “come se Dio fosse lo stesso uomo” (che è il pensiero più senza
senso che un uomo possa avere), infatti ciascun uomo è oggi ormai Dio a se
stesso.
Tale è il Liberalismo.
E che il Papa sia, come quelli dicono, “dalla nostra”,
proprio questa purtroppo in nulla francescana Lettera circolare Laudato si’ ben
lo dimostra.
1. I FATTI.
19 giugno 2015. Esce la seconda Lettera enciclica di Papa
Francesco, che poi in realtà, essendo stata la Lumen Fidei concepita e scritta
fondamentalmente da Papa Ratzinger, è la sua prima.
Essa, fin dal titolo, Laudato si’, oltre che per il tema,
vorrebbe essere improntata, come può immaginarsi, a colui che dovrebbe essere
il suo ispiratore ideale, san Francesco d’Assisi. Ma non lo è: è una Lettera
tecnico-politica, non religiosa, che si muove su un terreno tecnico-politico,
non religioso, dove il fine ultimo, l’obiettivo da perseguire è
tecnico-politico, non religioso: « Affermiamo – dice al n. 127 – che “l’uomo è
l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale" (Gaudium et
Spes, 63) ». L’uomo. Non Dio. Possibile?
Ancora una volta c’è da avanzare forti riserve sulla reale
consistenza del legame cui Papa Francesco tanto tiene col sublime Serafico: c’è
da chiedersi se p. es. quest’ultimo avrebbe mai concluso un’Enciclica non con
una, ma con due preghiere, nessuna delle quali però “giusta”: una che dovrebbe
essere pregata da un certo gruppo di credenti, l’altra da un altro: la prima da
un gruppo al 100% inclusivista, irenico e quanto mai impregnato del falso e
fuorviante “spirito d’Assisi” di woytjliana memoria, che si rivolge a un
generico e imprecisato “dio” pregato dall’insieme di tutti i credenti di tutte
le religioni del mondo quali che siano; l’altra da un secondo gruppo, e questo,
nella mente del Papa, più esclusivista, diciamo quasi esclusivista, se non
fosse anch’esso ecumenico, cioè pancristiano, formato da cattolici, luterani,
evangelici, anglicani eccetera, cioè e da cattolici e da eretici.
Ma – direbbe san Francesco, quello santo, esclusivista e
strettamente cattolico e trinitario –, una preghiera da far dire ai soli
cattolici, no? “Per soli cattolici”: che poi sarebbero gli unici a seguire la
verità, dunque ad adorare Dio, dunque gli unici di cui Dio ascolterebbe la preghiera.
Ma questo concetto si è perso da tempo, non lo crede più nessuno.
2. DUE PREGHIERE SBAGLIATE AL POSTO DELL’UNICA GIUSTA.
Che senso ha tutto questo? E, più ancora: com’è possibile
che non uno dei vescovi che hanno letto e studiato il documento pontificio
rilevi la contraddizione delle due orazioni, oltre alla contraddizione tra la
prima di esse e il comandamento peraltro del tutto esclusivista che si ricava
dalle sacre Scritture e dal millenario Magistero della Chiesa?
Il cardinale Caffarra grida: « Guai se il Signore ci rimproverasse
con le parole del profeta, ‘Cani che non avete abbaiato’ ».
Ma perché mai, Eminenza, il congiuntivo ipotetico? Lei, per
quanto sia già benemerito per aver agitato queste parole, è però in ritardo: il
Signore vi e ci sta già rimproverando, e da tempo, e molto: è da cinquant’anni
che la Chiesa abbaia alla luna! Dove sono i Cani del Signore che dovrebbero
ricordare alle greggi, cristiane e non, le eterne verità da ricordare sui nuovi
pessimi costumi e sulle ancor peggiori conseguenti leggi prese dalla società civile
su contraccezione, aborto, divorzio, sodomia, morale matrimoniale, o sulle spaventose
cause, peraltro tutte ideologiche, della fuga dalla Chiesa di centinaia di milioni
di loro? dove i Cani del Signore che dovrebbero pur gridare a quelle greggi
qual è il vero “pensiero unico” da tenere riguardo a Dio, che non è certo
quello irenico, neomodernista e inclusivo propalato da cinquant’anni da un
Magistero complice della falsissima ideologia liberale ovunque al potere? dove
i santi e indefessi Cani che invece, improvvisamente ammutolitisi, o
tramutatisi in variopinti pavoni, per non cadere in contraddizione, da cinquant’anni
si guardan bene dal formalizzare in dogmi le multicolori, equivoche e tutte
liberaloidi novità insegnate dal Vaticano II, studiando di tenersi sempre a un
livello mere pastorale, così aggirando l’onere dell’impegnativa che il sacro e
infuocato carisma petrino imporrebbe di affrontare?
Il cardinale Caffarra, e tutti quei ben pochi cardinali che
come lui sentono l’alito pesante di satana soffiare sopra le spalle, non han
che da vedere tutto il male che già sta avvenendo nella Chiesa, che da se
stessa si è inflitta la propria agonia, e ciò non solo, come è, a presagio di ulteriori
mali futuri, ma pure a castigo e a prova di colpe già ora in essere.
E, per tornare alla Lettera, perché mai non è stata pensata
una e una sola preghiera, come da duemila anni la Chiesa le eleva ogni giorno a
Dio, ovviamente specifica per soli cattolici? Possibile che a un Vicario di
Cristo non venga in mente di proporre una preghiera da far dire, strettamente,
solo intra mœnia, cioè da far dire solo all’interno del sacro recinto di cui è
– o dovrebbe essere – il fedele e sempre vigile Custode, cioè da far dire, come
sempre è stato, solo da chi fermamente crede che Gesù Cristo sia l’unico
sacerdote e mediatore tra Dio Padre e gli uomini, in Lui suoi figli?
Poi uno va a vedere, legge le due preghiere, e resta ancor
più di sasso: in nessuna delle due il Papa accenna a un fine teleologico, cioè
a un orizzonte sub specie æternitatis, sovrastorico, evangelico, cristico, cui dovrebbe
essere piegata ogni considerazione umana, figurarsi una preghiera. Anzi,
entrambe paiono pervase da un generale sentimento di inglobamento
“panreligioso”, tanto da « riconoscere – così la prima – che siamo
profondamente uniti con tutte le creature nel nostro cammino verso la tua [di
Dio] luce infinita », formula che, con quel « tutte le creature » e quel “dio”
spersonalizzato comodamente in eterea « luce infinita », se non può non compiacere
anche il fedele buddista o induista di più stretta osservanza, lascia quanto
meno perplesso il fedele cattolico, a meno che non sia, come oggi tutti, di
scuola rahneriana.
3. FONDAMENTO ILLIBERALE E DETERMINISTICO DELL’ENCICLICA.
Nella seconda orazione poi, dopo parole che dovrebbero far
tirare un sospiro di sollievo a fedeli, monsignori, vescovi e cardinali, perché
finalmente si parla di un Cristo dal quale « sono state create tutte le cose »,
ecco che li si fa sobbalzare e conturbare di nuovo tutti: cos’è mai infatti
quell’espressione che, riferendosi direttamente a nostro Signore, afferma senza
mezzi termini, più rahnerianamente che mai: « Oggi [tu] sei vivo in ogni
creatura con la tua gloria di risorto », concetto già avanzato peraltro poco
prima, al n. 221: « Cristo, […] ora, risorto, dimora nell’intimo di ogni
essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con la sua luce »?
quando mai nei Vangeli o in san Paolo si dice che Cristo vivificherebbe con la
sua gloria un universo per il quale l’Apostolo attesta piuttosto l’attesa
impaziente « della rivelazione dei figli di Dio » (Rm 8,19), rivelazione che si
avrà appunto solo nella Parusia?
La gloria di Cristo risorto dimora solo in chi lo accoglie,
come detto chiaramente p. es. in Ap 3,20: « Ecco, sto alla porta e busso. Se
qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con
lui ed egli con me », perché se essa invece dimorasse aprioristicamente « nell’intimo
di ogni essere […] penetrandolo con la sua luce », come si spiegherebbero non
dico le mancanze più lievi, che già farebbero difficoltà, ma le efferatezze dei
grandi criminali della storia, le durezze di chi gli resiste con caparbietà e
ostinazione, le repellenti e oceaniche immondizie morali in cui sta annegando
la civiltà proprio perché ha rifiutato di seguire i comandamenti di Cristo?
Forse che Cristo ha dimorato nell’intimo di anticristi come
Hitler, Stalin, Maometto, Giuda, per citare i più efferati?
Può anche essere, anzi è di fede che Egli abbia pur tentato
di « circondarli con il suo affetto » e penetrarli « con la sua luce », perché
questo è appunto ciò che Egli afferma quando dice: « Ecco, sto alla porta e
busso », ma la cosa si ferma qui, perché Dio, autore della realtà, della verità
che le aderisce perché sia correttamente riconosciuta e della libertà attraverso
cui l’uomo deve sapervi liberamente adeguare (cioè per scelta libera
dell’intelletto), è il primo a rispettare la libertà umana: Egli sta alla porta
e bussa, ma se non gliela apri, la porta, Egli non entra, non violenta la tua
libertà, anche se quello “stare alla porta” sottintende tutto un misericordioso
e incessante lavorio dall’esterno fatto di affetto e di luce, ossia di mille e
mille invenzioni di Dio, di questo Dio personale e straordinariamente tenero,
che con i suoi angeli non abbandona neppure l’uomo più recalcitrante e criminale
se non quando ormai è proprio cadavere, perché tale è la misericordia di Dio
per ciascuno di noi fino all’ultimo respiro.
Ho detto “più rahnerianamente che mai”, perché le
espressioni lette denunciano senza fallo essere la loro origine
nell’idealistica dottrina congetturata da Karl Rahner s.j. La teologia
cosiddetta dei “cristiani anonimi” di quel gesuita, malgrado l’evidente
ateoreticità dei suoi presupposti, per la seducente proposta “inclusiva” che
rappresentava si impresse fortemente nelle menti della maggioranza dei Padri
del Vaticano II, alla ricerca di buoni motivi per ingraziarsi il mondo, v. Gaudium
et Spes 22 (« con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo
ad ogni uomo »), Ad Gentes 7, Lumen Gentium 16. Papa Giovanni Paolo II poi,
nella sua Redemptor hominis, XIII, 3, si premurò d’interpretare personalmente
il concetto: « Si tratta – lì quel Papa pur oggi canonizzato volle sostenere – di
“ciascun” uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e
con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero ». Ripeto:
Cristo forse che si è unito, e per sempre, con anticristi come Ario, Lutero,
Calvino, o Napoleone, Garibaldi, Mao, Assad? Brrr.
Per il gesuita, « teocentrismo e antropocentrismo non sono
orizzonti filosofici incompatibili uno con l’altro, anzi costituiscono una
medesima realtà enunciata da due punti di vista diversi » (Antonio Livi, Vera e
falsa teologia, Leonardo da Vinci, Roma 2012, p. 215), che però egli intende
unificare, v. Karl Rahner, Theologie und Anthropologie, in Idem, Schriften zur
Theologie, vol. VIII, 1967, p. 43. In quel suo saggio Livi fa notare che per
padre Fabro « il presupposto metafisico dal quale parte Rahner è la priorità
del verum sull’ens, ossia la subordinazione del trascendente assoluto della
metafisica dell’essere», l’ens appunto, cioè la realtà, « al trascendentale di
relazione dell’a priori della conoscenza” (Cornelio Fabro, La svolta
antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974, p. 5) » (ibidem). Tale
priorità del verum sull’ens, o, che è lo stesso, subordinazione dell’ens al verum,
è, come si sa, la classica matrice dell’idealismo, cioè della perdita più
irrefrenabile della realtà.
Con queste premesse, il filosofo del Senso comune ha buoni
motivi per declassare la teologia rahneriana a filosofia della religione, a
causa « della “attesa ontologica dell’uomo” », giacché l’“attesa ontologica”
del teologo tedesco « non ha nulla a che vedere con quella conoscenza naturale
di sé (come creatura precaria) e di Dio (come primo Principio e ultimo Fine)
che, come ha sempre sostenuto la sapienza cristiana a partire da sant’Agostino,
genera l’attesa di una rivelazione della “verità tutta intera” e la speranza di
una grazia salvifica » (idem, p. 216).
Ciò comporta, per il filosofo pratese, « l’implicita negazione
della libertà » (ibidem), e infatti: che possibilità mai avrebbero avuto gli
anticristi di cui sopra di fare le loro scellerate ma libere scelte per il male
se fossero stati uniti a Cristo, e persino « nell’intimo »? E viceversa: che
possibilità avrebbe avuto mai la Beata Vergine, di essere libera di scegliere
tra pronunciare o non pronunciare il fatidico “sì”, se “nel suo intimo – per
dirla col Pontefice – dimorava Cristo circondandola con il suo affetto e penetrandola
con la sua luce”?
Una tale invadenza di Cristo non ha nulla a che fare con la
cristologia del dogma cattolico, imperniata come nessuna sul distinguo degli
enti, che in fin dei conti è il loro rispetto.
Ieri padre Karl Rahner. Oggi Papa Francesco-Bergoglio: due
gesuiti imprimono una concezione illiberale, idealistica, deterministica e
aprioristica della fede disconoscendo il « necessario itinerario della
coscienza umana, che », corregge però ancora Livi, « può arrivare all’incontro
con l’evento della Rivelazione (riconosciuto come tale sulla scorta di evidenze
fattuali e storiche – p. es., nel caso della beata Vergine, sappiamo che alle
Sue sante e ragionevoli obiezioni l’Angelo porta l’evidenza fattuale e storica,
dunque superragionevole, del miracoloso concepimento di Sua cugina, santa Elisabetta
–, che costituiscono i “motiva credibilitatis”) solo presupponendo le evidenze
del senso comune (che sono sempre, almeno materialmente, di carattere metafisico
e costituiscono i “præambula fidei”) » (ibidem).
4. ANTROPOCENTRISMO RADICALE DELL’ENCICLICA.
Anche questa, come tante precedenti, è una Lettera enciclica
più lunga di tutto il Nuovo Testamento messo insieme, e di certo diecimila
volte meno significativa. A meno che si ritenga significativo per la fede avere
attenzione « alla casa comune » intesa non come Regno dei Cieli, e nemmeno come
Chiesa, ma come terra, il pianeta su cui viviamo e che sfrutteremmo; o si
ritenga significativo per la fede, come recita il III paragrafo del Cap. 6, « la
conversione ecologica » da compiersi prima che sia troppo tardi. « La
conversione ecologica »?! Questa direi proprio che è la prima volta che un Papaparla di “conversione” senza riferirsi allo spirito, all’anima.
Tutti i 6 capitoli, i 246 paragrafi e le 192 pagine che compongono
la Lettera sono indelebilmente segnati da una doppia contraddizione: ancora una
volta Papa Francesco asserisce pastoralmente verità a posteriori, cioè epistemiche
pseudo-verità tutte da vagliare e verificare, che, come sollecito a fare in La
Chiesa ribaltata, Gondolin, Verona 2014, pp. 300-3, o in Che cosa può cambiare…
cit., pp. 91-4 e 151-6), se solo provasse a ratificare – ma non lo farà mai! –,
portandole sul sacro e corrosivo braciere del carisma dogmatico, verrebbero
dissolte ancor prima di nascere. Ma come si può pretendere che uno scritto
steso per lisciare il pelo alle pecore dal verso giusto abbia la solidità
cristallina delle parole a Erode di un san Giovanni Battista, che di lisciare
il pelo a chicchessia tanto non si preoccupò, da essere chiamato all’altissima
missione di Precursore del Cristo, « Via, Verità e Vita »?
Quando mai si tornerà ad avere Pastori che sanno d’avere il
sacro dovere di “lisciare il pelo al dogma” prima di lisciarlo al popolo (e, v.
La Chiesa ribaltata, p. 256, a se stessi)?
« Affermiamo che “l’uomo è l’autore, il centro e il fine di
tutta la vita economico-sociale (Gaudium et Spes, 63) », ripreso al n. 127
della Laudato si’. Questo antropocentrismo esasperato, raccolto, come si vede,
dal Vaticano II (celebre il n. 24/d di Gaudium et Spes, per la cui analisi
rimando a Dogma e pastorale… cit., pp. 63-5 e 73 segg.), distorce ab origine la
corretta visione religiosa, perché il vero Autore, il centro e il fine di tutta
la vita del mondo, fosse anche quella di un ambito così poco apparentemente
legato alla religione e allo spirito come parrebbe essere la vita dell’ambito
economico-sociale, è ancora e in primo luogo Dio, non l’uomo, come peraltro
ricorda tutta la sacra Scrittura, p. es., nel V. T., « Il Signore annulla i
disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli » (Sal 32,10), disegni
e progetti di tutti i tipi e ambiti, anche fossero gli “economico-sociali”, o
ancora: « Il Signore ha dato, il Signore ha tolto » (Gb 1,21), e, nel N. T., Lc
12,6: « Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno
di essi è dimenticato davanti a Dio », o anche I Cor 3,7: « Né chi pianta, né
chi irriga è qualche cosa, ma è Dio che fa crescere », sicché Romano Amerio,
con mirabile sintesi, come visto, può ben concludere: « Il problema dell’uomo è
il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per darvi luce e sostanza ».
« Tutto il resto »: l’economico, il sociale, il politico, il
legislativo, il giuridico, il culturale, l’artistico, il didattico eccetera.
Non sono forse questi i vari mezzi attraverso i quali i popoli possono
perseguire la pace? e i cristiani non implorano forse Dio per avere da lui la
pace? e come credono di ottenerla se non implorando Dio di dargliela,
realizzandola poi essi attraverso appunto quei tali mezzi, spesso così poco
spirituali, sì, ma pure i più facili a essere causa di litigi, contrasti,
guerre, così come, all’opposto, di pace e di fraternità?
Ma il capovolgimento antropocentrico e secolarista, che
trascina nella polvere l’unica religione al mondo il cui perseguimento, al
contrario, consiste precisamente e solo nel rendere casta e virginale –
cristica, appunto – l’anima anche più abietta, purché lo voglia, permette non
solo di sviare tutta l’attenzione dei fedeli da Dio all’uomo, dallo spirito
alla carne, dal cielo alla terra (primo fine), ma anche di abbracciare
nell’inclusivismo che si diceva tutte le religioni del mondo quali che siano (secondo
fine). E così avviene.
Per il suo antropocentrismo, per il suo secolarismo, che
distorcono all’origine, e doppiamente, l’insegnamento che, sempre che la
religione ne possa mai sollecitare l’esigenza, ci si potrebbe aspettare, la
Lettera andrebbe espunta, cancellata, evirata decisamente e in toto dagli Acta
Apostolicæ Sedis.
5. PRIMO RISULTATO: DISTOGLIERE L’ATTENZIONE DEI FEDELI
E DEL MONDO DAI FINI TUTTI E SOLO SPIRITUALI DELLA CHIESA.
Il Papa, ancora una volta, sollecita la cristianità e il mondo
a occuparsi anima e corpo di fatti, religiosamente parlando, del tutto
secondari, irrilevanti, surclassati in importanza, impellenza e gravità, p.
es., dalla stessa devastante, terrificante e generale apostasia in atto da decenni
– per l’esattezza, da dieci lustri –, per la quale intere nazioni,
cattolicissime fino al fatidico Vaticano II, si sono ritrovate di recente
gioiosamente atee; o surclassati, ancora, dall’invasione di immoralità,
sessuale in primis, ma non solo, vedasi il dilagare dei fenomeni di corruzione
sociale, politica, mafiosa, lo strabordamento inverosimile della quantità di
omicidi e di violenza su tutto e su tutti, violenza che non arretra davanti a
nulla e che anzi con foga distruttiva e barbara non arretra neanche dinanzi
alla purezza e innocenza dei minori, dei bambini, del futuro del mondo, e,
questa invasione di immoralità, viene pure teorizzata in vere e proprie
dottrine: sulla sodomia, sul gender, sulla famiglia fuori del matrimonio
cattolico eccetera; o surclassati, ancora e più di tutto, dalla perdita sempre
più larga e dalla sciatteria sempre più manifesta del sacro atto di adorazione
e di lode a Dio Padre, Principio di tutto, parlo della s. Messa, sacro e
miracoloso atto che invece dovrebbe essere, e non è più, quello che anche da
Amerio è ricordato (lo abbiamo visto) come il più significativo e ultimo di
tutta la Chiesa, di ogni anima, di tutto il mondo.
Ecco: anteporre oggi, in un documento importante quale una
Lettera enciclica, temi squisitamente tecnico-sociali a temi strettamente
spirituali, come i tre qui appena accennati, specie all’ultimo, che dei tre è
il più incisivo e determinante, è spostare l’attenzione e la barra della Chiesa
in una direzione “carnale” che non le compete per niente, o almeno in un
orizzonte per essa del tutto secondario, abbracciando così quello che possiamo
chiamare amerianamente « cristianesimo secondario » – e altro non è –: un
cristianesimo la cui qualità dipende dalla qualità del “primario”, del
cristianesimo tout court, dipende cioè dalla fede e dalla morale cristiane.
Ma spostare la barra della Chiesa dal suo Sole alla terra
che gli gira attorno è operazione evidentemente falsificatoria, che non solo
non aiuta a risolvere le impellenti e gravi difficoltà spirituali in cui Chiesa
e umanità versano oggi, ma le aggrava rovinosamente, perché toglie loro il
trono che hanno di diritto, le depotenzia, le snerva del ruolo primario loro
dovuto. Poi si sa che se un male non è curato per tempo, si aggrava ogni giorno
di più. Quanto è grave il peccato d’omissione di un sommo Pastore che non si
attarda in tutti i modi che ha a disposizione a por fine a quella “Guerra delle
forme” che ha ischeletrito la Chiesa e scristianizzato il mondo, e l’una e
l’altra cosa ha fatto perché forse ha anche oltre ogni limite sdegnato il
Signore nostro Dio?
Quei tre primi temi detti – ma sono solo i primi tre di
tanti –, per la vorace aggressione di cui sono oggetto, da tempo attendono che
un Papa se ne occupi, e seriamente, cioè prendendoli di petto, con la ferma
intenzione di porvi una parola chiarificatrice e definitiva, ma i Papi degli
ultimi dieci lustri glissano, e il “Papa venuto dalla fine del mondo” somiglia
sempre più ai Papi rinascimentali tipo Leone X de’ Medici, che sviavano l’attenzione
della cristianità dagli oggetti primari della religione – dottrinali,
sacramentali e morali –, che avrebbero dovuto costituire sempre e comunque il focus
delle loro più ardenti e vive preoccupazioni, ai più secondari, se non anche
inutili e vacui, oltre che esposti a opinioni e obiezioni di tutti i tipi,
legittime o meno che siano.
Questo sviamento d’attenzione da ciò che dovrebbe essere in
ogni ora la gemma incastonata sulla fronte di ogni cristiano, e tanto più di un
Papa, a un qualsiasi tema terreno, per quanto “umanistico”, per quanto cioè
possa ricevere effluvi di ammirazione da parte dell’opinione pubblica mondiale
– specie della dominante atea, gnostica e massonica alla Scalfari – e delle
potenti lobbies che si occupano dei vasti moti culturali, ecologici, economici,
sociali, aggrava terribilmente la situazione spirituale in cui versa la
cristianità.
Sicché abbiamo ieri i cortei magnifici e ridondanti di
cocchi e carrozze dorate in cui un Papa col suo seguito squisito attirava le
folle in visibilio a rimirare una Firenze in cui faceva l’ingresso trionfale,
camuffata da antica Roma, Roma Clemens, per opera di artisti famosi come Piero
di Cosimo, Andrea del Sarto, Pontormo, Rosso Fiorentino, Andrea di Cosimo,
Francesco Granacci, Baccio Bandinelli, che avevano addobbato le strade della
Città del Fiore con quinte e fondali sontuosi, mentre trombettieri e pifferai
sonavano da Palazzo Vecchio e i bombardieri sparavano a salve le artiglierie, e
oggi, servatis servandis – ma l’aura di “divina” munificenza è sempre la stessa
–, ecco davanti a noi altrettanto inusitati cortei di cocchi e carrozze
avanzare splendidi, all’interno scorgervi gentili Problematiche sociologiche accanto
a regali e nuovissime Spiritualità ecologiche – sì: proprio loro, chi se le aspettava?
–, benevolmente benedicenti le folle osannanti mentre a coppia sei paia di
cavalli candidi di Ecologiche schiere procedono tra nugoli di fiori, di petali,
di palme, e che meraviglia di festoni a Impegno per l’Ambiente, che eleganza di
encarpi imbastiti di Biodiversità, che gioia quelle ghirlande di Catene
alimentari! E guardate voi le meravigliose e tanto inclusive Conversioni
ecologiche globali, oh, che intuizione! Rimirate come son ben precedute e
altrettanto graziosamente seguite da avvincenti Sviluppi sostenibili e da
variopinti e impennacchiati Cicli di produzione e di consumo; ecco poi – il
vino migliore è sempre proposto per ultimo –, verso un gran finale che si
presenta come sempre del tutto inaspettato, inusitati Modelli circolari di
produzione, potenti Vulcanismi planetari, per concludere con travolgenti Ecologie
integrali e scoppiettanti Variazioni dell’orbita e dell’asse terrestre: non è
una meraviglia? e qui abbiamo ammirato solo i fenomeni più appariscenti e strepitosi
che appaiono scorrendo or qua or là le doviziose, lussureggianti, ubertose
pagine dell’immaginifico “Corteo terraqueo globale” di Papa Bergoglio, l’umile
e spoglio Papa nostro Francesco.
Grandi e inventivi Papi, i Pontefici “umanisti:” sanno
richiamare folle immense a rimirare quel che sa e può offrire la cultura se
impregnata di saggezza: ieri rappresentata dal mito della Roma dei Cesari, oggi
da quello di una spiritualità ecologica globale, e poco importa se nel frattempo
ieri Lutero, qualche principe tedesco e altre poche anime ribelli, oggi ancora
poche centinaia di milioni di altrettante anime insofferenti e secolarizzate,
si ribellano alla Chiesa, voltano le spalle al Vicario di Cristo, si disperdono
per il mondo, si lasciano travolgere dalle vane e mortifere seduzioni della carne
lasciando dietro di sé decine di migliaia di chiese vuote da convertire in
hotel, ville esclusive, centri congressi, ristoranti d’élite, con l’alternativa
accarezzata da tutti gli Illuministi del mondo, oggi vittoriosi sull’odiata Chiesa
di Roma, di essere prima o poi, invece, definitivamente distrutte.
6. SECONDO RISULTATO: CONFONDERSI, EQUIPARARSI
CON LE NOZIONI FILOSOFICHE E RELIGIOSE DEL MONDO.
Al n. 233 vi è una nota, la 159, in cui, per la prima volta
in un’Enciclica papale, in un documento magisteriale cioè di valore
segnatamente solenne e universale, e sottolineo per la prima volta, viene
indicato ai cattolici, in qualità di « maestro spirituale », un seguace di una
setta religiosa notoriamente non cattolica. Trattasi di tale Alì Al Khawwas, un
maomettano, e precisamente un sufita, e dunque, almeno teoricamente, certamente
un eretico. E lo si vedrà. Ma non pare che la cosa abbia fatto clamore, abbia
sollevato perplessità pubbliche da parte di qualche porporato, nemmeno uno: è
in una nota, e la nota 159 è una delle ultime, chi la va mai a leggere? che
importanza mai può avere?
E invece ne ha, di importanza, e moltissima. Ripeto: è la
prima volta in duemila anni che il Vicario di Cristo, in un documento
formalmente tra i più rilevanti del Magistero della Chiesa, riporta
elogiativamente, se pur in nota, il pensiero di un autore non cattolico, per di
più appartenente a una religione contro la quale indiscusse autorità come san
Tommaso d’Aquino ritennero necessario scrivere pagine severe come la Summa
contra Gentiles. È la prima volta che un eretico viene assunto a ‘maestro spirituale’
della cristianità, la quale, confidente nel Depositum Fidei e nelle verità
derivate, sarebbe invitata a considerarlo, meditarlo, interiorizzarlo,
assimilandolo ai Maestri spirituali cattolici verso i quali il suo cuore è naturalmente
trasportato. La cosa è clamorosa. Tanto più che, ancora una volta, l’inatteso
sdoganamento si rivelerà pericoloso per la fede proprio come qui temuto.
Per carità: san Tommaso d’Aquino è il primo a rilevare che
molte verità spirituali si possono trovare anche oltre il sacro recinto, ma,
aggiunge, « se uno, p. es., conosce una conclusione, senza il termine medio che
la dimostra, di essa non ha evidentemente la scienza, ma solo un’opinione » (S.
Th., II-II, 5, 3). Il sufita, in verità, non conosce bene neanche “la
conclusione”, come direbbe san Tommaso, perché vi si avvicina goffamente, scambiando
– al solito degli gnostici, e i sufiti sono notoriamente gnostici – una del
tutto ipotetica relazione spirituale con la solita relazione sentimentale e dunque
carnale in cui sempre incocciano i falsi maestri, che della spiritualità
insegnata dal Cristo, cioè da Dio, non sanno afferrare neanche i lembi più
icastici. Ecco il testo:
« Un maestro spirituale, Alì Al Khawwas, a partire dalla sua
esperienza – altro elemento, questo, che dovrebbe mettere in allarme il fedele
cristiano, che raccoglie l’ascolto della Parola, non la propria interiore
esperienza –, sottolineava la necessità di non separare troppo le creature del
mondo dall’esperienza di Dio nell’interiorità. Diceva: Non occorre criticare a
priori coloro che cercano l’estasi nella musica o nella poesia. C’è un segreto
sottile in ognuno dei movimenti e dei suoni di questo mondo. Gli iniziati – altro
elemento ancora, questo degli “iniziati”, di infinito allarme per la pecorella
cattolica, che sa che Gesù non è per pochi, ma per tutti – arrivano a captare
quello che dicono il vento che soffia, gli alberi che si flettono, l’acqua che
scorre, le mosche che ronzano, le porte che cigolano, il canto degli uccelli,
il suono delle corde o dei flauti, il sospiro dei malati, il gemito degli
afflitti…” (Eva de Vitray-Meyerovich ed., Anthologie du sufisme, Paris 1978,
200; trad. it.: I mistici dell’Islam, Parma 1991, 199) ». Gnosi allo stato
puro, cioè purulento maxime.
Tra le creature del mondo e Dio non vi è né può esservi
alcuna continuità, e non vi è né può esservi alcuna continuità nemmeno
nell’esperienza che se ne può fare. Supporre tale continuità tra creature e
Dio, o della loro esperienza, è opera carnale, come carnale è l’errata convinzione
di Spinoza sul tema. Al più, sotto il profilo analogico che si può trovare tra
creature e Dio, si può fantasticare ed elaborare opere “poetiche”, a volte
anche di alta poesia, come in Dante, o in qualche altro animo cattolico di fine
spiritualità, ma per nulla affatto opera ‘mistica’ in senso stretto, e il
sufismo non si può catalogare come esperienza ‘mistica’, perché resta nei
limiti del sentimento, dell’emozione, della poesia, categorie tutte – religiosamente
parlando – sempre comunque ‘carnali’, cioè che cadono sotto il dominio dei sensi.
Le esperienze estatiche di san Paolo non hanno nulla a che
fare con l’immaginazione poetica di Dante: il primo vide, udì e fu rapito
realmente (« se con il corpo o senza corpo, non lo so, Dio lo sa », II Cor
12,3) « al terzo Cielo », cioè in un luogo reale, seppur non di questa terra,
che è a dire in un luogo assolutamente non creato: reale, ma del tutto spirituale,
come testimonia lui stesso: « ineffabile », cioè che non si può spiegare con le
categorie dell’attuale nostra natura. Il secondo, invece, immaginò, percorse
con la fantasia, si inoltrò, con i vividi ‘fantasmata’ della sua mente umile e
cattolica, nei cieli descritti dalla fede, giungendo ad altezze sublimi, mai
viste, incantevoli, ma pur sempre e solo intellettuali.
Dunque non andiamo a cercare in parole imprecise di uomini
le cui nozioni “spirituali” sono del tutto incontrollate, fatti cui i santi ci
possono avvicinare con ben altre garanzie, ricordandosi peraltro che la
religione cattolica è l’unica al mondo autenticamente ‘spirituale’, ossia è
l’unica religione che ci garantisce di portarci in tutta purezza in una realtà
autenticamente e veramente spirituale, e altre non ve ne sono. Avvicinare
cosiddette “spiritualità” non cattoliche alla cattolica non fa che macchiare
quest’ultima di impurità che non le si confanno e confondere le cose, le anime
che guardano stupite le cose così confuse, il mondo perso nell’entropia
dottrinale che in tal modo vanamente lo infiamma, incenerendolo.
Ed ecco poi ora un secondo elemento per mostrare in che
misura noi cattolici siamo qui confusi, mescolati e quasi equiparati – con
grave ingiustizia per loro e per la divina Rivelazione cui si riferiscono –
alle altre nozioni religiose quali che siano, irreali e non rivelate, in un continuum
in cui è caduto ogni confine, ogni distinguo, per essere assimilati, i credenti
nel reale con i credenti nel vano, in un orizzonte inclusivista che dovrebbe,
cadute le differenze, pacificare tutti in un’unica entropia panreligiosa.
Leggiamo infatti al n. 220: « Per il credente », che è a
dire “A parere del credente”; al n. 235 leggiamo ancora: « Per l’esperienza cristiana
», cioè “Secondo l’esperienza cristiana”, e, al n. 239, « Per i cristiani »,
cioè “Per quel che possano pensare i cristiani”, “Secondo i cristiani”.
Tre modi per mettere in una scatola, per stringere in un
sacco, per relativizzare in una delle tante opinioni correnti, e lì relegarle
per sempre, verità che per loro natura hanno invece una non picciola
caratteristica: quella di essere cattoliche, cioè vere, universali ed eterne.
La verità del n. 239, p. es., ricorda che « credere in un
Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà
contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria ». Questa importante verità
è riconosciuta da sant’Agostino nel suo De Trin., VI, da san Tommaso nella sua S.
Th., I, 45, 7, da san Buonaventura nei testi segnalati dalla Lettera.
Che poi siano o no verità strettamente del Depositum Fidei,
o da esso dipendenti nei modi illustrati in Dogma e Pastorale… cit., pp. 58-66,
non ha importanza, perché in gioco è il fatto che quelle della Lettera sono
verità che, stando all’Autore, hanno la loro peculiarità nell’essere credute
dalla Chiesa, ed è questo ciò che qui si vuole rilevare: che se è così, se
effettivamente esse sono verità cattoliche, non si può attribuire loro un
valore solo ipotetico, una qualità estemporanea, cioè un valore che si attribuisce
appunto a precisazioni come quelle riportate (“Per costoro”, “Secondo loro”, “A
parer loro”…), precisazioni che in analisi logica sono dette ‘complementi di
limitazione’, e non si possono attribuire tali complementi di limitazione
perché la loro realtà supera la ragione, non sta dentro nessun limite, nessun
confine, originando dalla ss. Trinità, e precisamente dal Logos.
Trovarsi però tra i piedi, in questa Lettera enciclica, dei
complementi di limitazione che non dovrebbero esserci è del tutto ovvio, è
“naturale”: uno scritto che si propone di rivolgersi au pair a tutte le nozioni
religiose brulicanti sotto le stelle, che vuole trattare le opinioni e gli
indirizzi teologici e filosofici più vari, fossero pure del tutto contrari non
solo alla Rivelazione, ma alla religione in sé, non come fossero errori ed
elucubrazioni insensate e spesso anche originate da intenzioni malevole, è uno
scritto che non oserà più utilizzare verbi affermativi, autoritativi,
prescrittivi, e se necessario anche definitori, o espressioni capaci di
ricordare la forza, mite ma irresistibile, di verità cristiane come quella
menzionata. Non oserà e infatti non osa più, come qui si vede, e anzi si rattrappisce
in una timidezza da relativisti spinti.
7. CONTINUARE A INSEGNARE CON LA SCIAGURATA FORMA
‘PASTORALE’ O RITORNARE FINALMENTE ALLA DOGMATICA?
Ancora una volta, la forma cosiddetta ‘pastorale’ del Magistero,
usata dal tempo del concilio Vaticano II, che poi veramente ‘pastorale’ non è,
perché (come pure nella Laudato si’) è piegata a muoversi liberamente, quasi
che tale forma di Magistero possa davvero permettersi di non verificare punto
per punto la coerenza delle considerazioni che di volta in volta si vengono a
fare con i principi fermi ed eterni della forma dogmatica, perde anche quel
resto di diritto autoritativo ancora ben presente p. es. in Encicliche come la Satis
cognitum di Leone XIII, o la Humani generis di Pio XII, cui si doveva
l’obbedienza de fide anche se in esse non era presente il carisma papale al
massimo grado di pienezza, o entelechia, perché così era richiesto dai loro
altissimi autori, pienamente coscienti della maestà veritativa che quei loro documenti
prescrittivi, precettivi, rappresentavano in quei frangenti: il fatto è che
quei Pontefici non avevano ancora compiuto la cosiddetta “opzione pastorale”
perpetrata dal Vaticano II, ben consapevoli, piuttosto, di avere il dovere di
pervadere i loro insegnamenti del carattere dogmatico che sempre deve
impregnare il Magistero della Chiesa per diffonderne la carità, e della
conseguente obbedienza da dargli, e ciò compivano utilizzando il linguaggio
veritativo dovuto, quello appunto autoritativo, affermativo, apodittico,
prescrittivo, e di conseguenza, specularmente, anatemizzante, a esso
necessario, come largamente illustrato da chi scrive in Il domani – terribile o
radioso? – del dogma, pro manuscripto Aurea Domus, Milano 2013, pp. 105-17.
Quei Papi non si sarebbero mai sognati di utilizzare
espressioni astringenti, restrittive e relativizzanti come « Per il credente »,
o simili, perché ben consapevoli che credere non è un’opzione che si possa
abbracciare o invece cestinare, ma dovere teoretico per ogni uomo dotato di
ragione cui viene adeguatamente annunciato l’Euangelion, il che dà alla verità
creduta il valore assoluto che ha solo l’adesione alla realtà più vera. E
questo è il punto: sapere che ciò che si crede è reale, è la realtà vera, dà a
chi crede l’autorità che la realtà da se stessa in se stessa possiede (da cui
il celebre apoftegma romano: “Contra factum non valet argumentum”), e
all’opposto, limitare, circoscrivere, relativizzare l’autorità della cosa
creduta in una opinione tra le tante, dissocia la verità dalla realtà
correlata, come è giusto fare per le verità a posteriori, ma non per verità
eterne come sono quelle di fede, e Dio viene dissolto nell’ipotetico, nel
soggettivo, come in Kant.
Qui troviamo la chiave dell’incapacità della Lettera di dire
qualcosa di genuinamente religioso: quando un Papa relativizza a opinione
personale ciò che dovrebbe essere presentato fortemente e decisamente come
verità eterna, si capisce che non ha più senso parlare di verità, e che in ogni
caso ‘spirituale’ e ‘temporale’ sono categorie senza più significato.
Si attende una Lettera enciclica con il plurale maiestatis
pontificale (v., di chi scrive, La Chiesa ribaltata, pp. 60-7). Si attende un
Magistero papale che smetta di abusare proditoriamente della forma cosiddetta
‘pastorale’ di insegnamento, che poi nemmeno pastorale è, utile solo a
diffondere nozioni religiose ai limiti consentiti dai principi della fede, per
non dire anche oltre tali limiti, mostrando coraggio laddove c’è solo finzione
e falso ideologico, come illustrato in Dogma e pastorale… cit., pp. 103-6,
perché il vero coraggio lo si avrà unicamente quando quelle cosiddette novità
in cui tanto si crede – p. es. quella della concessione dell’Eucaristia ai
divorziati risposati – le si porterà finalmente davanti al Trono di Pietro, e
Pietro, usando tutta la pienezza del suo carisma, e mettendo con ciò fine alla
“Guerra delle forme”, o “Guerra delle due forme” che paralizza e anzi annienta
la Chiesa, le porrà nel sacro braciere del dogma, provando a bruciarle,
roventi, sull’ardente e celeste calderone, cosicché delle due l’una: o quelle
novità sono sante, pure, spirituali, cattoliche, e allora tutto il mondo le
vedrà innalzarsi come lingue di fuoco altissime e potenti, e unirsi alle altre
fiammeggianti lingue delle eterne norme e leggi che regolano la fede e la
morale cristiane. O quelle novità sono invece pessime, impure, false e
bugiarde, e allora saranno incenerite dallo stesso rovente braciere, il cui
calore soprannaturale non permette a nessuna falsità di avvicinarvisi, come
asserisce il Signore con giuramento eterno: « Portæ Inferi non prævalebunt adversus
eam » (Mt 16,18): “Le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa”, cioè
la falsità, la menzogna, come pure l’ostinata e colpevole non volontà di riconoscere
la realtà, aderirvi e comandare di aderirvi, anatemizzando i disobbedienti, non
prevarranno contro la Chiesa.
8. DUNQUE ADORAZIONE, ADORAZIONE,
E ANCORA ADORAZIONE.
Questa è l’unica strada aperta davanti alla Chiesa, è la
strada di sempre, ma è anche la strada che da cinquant’anni, cioè dal concilio
Vaticano II, i suoi Pastori non vogliono percorrere, e ciò non vogliono per
“lisciare il pelo al mondo” e così compiacerlo, e di ciò compiacersi, come nota
san Gregorio Magno, « Dalla vanagloria nascono le stravaganze dei novatori »
(in Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, 10, 1, ad 3).
Per avere la forza di imboccare quella che per la verità non
è altro che la sua propria e unica strada, la Chiesa dovrebbe essere con tutte
le forze spinta a riprendere a compiere quegli atti di penitenza e di
adorazione tralasciati negli ultimi cinquant’anni: decisa, sentita e forte
penitenza e decisa, sentita e forte adorazione. Intendendo per ‘decisa, sentita
e forte adorazione’ non più la celebrazione eucaristica secondo il Novus Ordo
Missæ, che già tanto comprensibile sdegno ha con tutta probabilità suscitato in
Dio Padre per la sua oggettiva e miserevole adoratio minor, come ampiamente illustrato
da chi scrive in La Chiesa ribaltata… cit., pp. 149-53 e in Dogma e pastorale…
cit., pp. 54-9, ma la celebrazione secondo il Rito Romano, o Gregoriano, o
Tridentino che dir si voglia, oggettiva adoratio maior, anzi maxima, che poi va
in ogni caso soggettivamente irrobustita e corroborata spiritualmente dal
celebrante e da chi eventualmente lo coadiuva in una santità di attenzione e di
venerazione che, a ogni suo inveramento, deve renderla visibilmente quale è: il
santissimo e miracoloso atto per cui, come scrive Romano Amerio, « è realmente
presente e realmente si prende il dio » (Iota unum, Lindau, Torino 2009, p.
542). Sulla degradazione di adorazione operata da Papa Paolo VI con
l’introduzione del suo Novus Ordo Missæ sono state scritte migliaia di pagine,
ma per l’icastica forza con cui essa è lumeggiata nei due capitoli
sull’Eucaristia e sulla riforma liturgica, quelle di Iota unum le consiglio
perché sono ancora tra le più chiare.
Se si pensa che a fronte di circa mezzo milione di Messe
dette ogni giorno nel mondo secondo l’adoratio maior, cioè in Rito Romano, o
Gregoriano, fino al 1969, oggi ne restano a dir tanto un migliaio, e in ogni caso
solo circa 350-400.000 in adoratio minor, cioè nel Novus Ordo, giacché nel
frattempo, per divina punizione, è caduto verticalmente anche il numero dei
celebranti, con le almeno tre aggravanti: la prima, che la più parte di esse è
detta senza spirito di adorazione, di contemplazione, ma di corsa (come
d’altronde purtroppo anche molte delle mille Romane), e che in molte di esse
vengono compiute le più incresciose bizzarrie e i più inaspettati atti
quantomeno di leggerezza se non di sacrilegio, v. comunione sulla mano; la
seconda, che negli ultimi cinquant’anni nessun Papa, ripeto: nessun Papa,
neanche tra quelli elevati agli onori degli altari, ha mai celebrato altro che
il Novus Ordo cioè mai ha reso a Dio Padre l’adoratio maxima trasmessa da
Cristo agli Apostoli e da questi ai loro discepoli, adoratio maxima mai fatta
mancare, prima, in duemila anni di storia, neanche dal Papa meno santo; la
terza, che di tutto questo sfascio i Pastori che se ne fanno carico e se ne
preoccupano pubblicamente parrebbero essere, nel mondo, tra vescovi e
cardinali, non più di una dozzina, e tra costoro, come visto, non sembra ci sia
il Vescovo di Roma; ecco, se si pensa tutto questo, si capisce bene perché si
dica che l’unica strada è quella che si è detta.
Qui non si tratta di restaurazione dell’antico, o di qualcosa
che non c’è più e che qualcuno rimpiange: questo modo di vedere lo si lasci
alla politica e agli stati, società laiche.
Qui si tratta di riprendere l’unica strada che la Chiesa può
percorrere per essere se stessa, Sposa di Cristo, e compiere ciò che Cristo le
ha ordinato di compiere: riprendere lo spirito di penitenza e di adorazione,
tornare alla adoratio maior di sempre, tornare a respirare ogni giorno
l’ambienza dogmatica che trasuda solo dal Rito Romano, e tutto ciò fare per
ricevere la grazia del coraggio soprannaturale di tornare a saper prescrivere
col massimo munus magisteriale richiesto dall’oggetto dell’insegnamento, ossia
con il carisma petrino, i santi comportamenti da tenersi a riguardo dei
sacramenti del Matrimonio, della Penitenza e dell’Eucaristia per quelle che
oggi vengono viste da certuni come nuove circostanze sociali, relazionali e
famigliari. Adoratio maior universale ed esercizio del magistero dogmatico. La
“Guerra delle forme” va chiusa, e si può chiudere solo col ripristino
dell’esercizio della forma dogmatica nel magistero e nella liturgia.
Altra strada, per salvarsi, per salvare, e per scrivere Lettere
encicliche sante e santificanti, proprio non c’è.
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