domenica 2 agosto 2015

Riprovazione della Laudato si'. Un commento del Professor Radaelli all'ultima enciclica di Francesco.


Riceviamo dal Professor Enrico Maria Radaelli, che ringraziamo per l'autorizzazione di pubblicarlo, un magistrale commento all'Enciclica di Francesco Laudato si'. Il Professor Radaelli ricorrendo alle categorie ameriane e ai solidi parametri ricavati dalle proprie opere e riflessioni sottopone a un vaglio tanto rigoroso quanto proficuo le pagine di una "Lettera enciclica  più lunga di tutto il Nuovo Testamento messo insieme". 

Piero di Cosimo - Vulcano ed Eolo maestri dell'umanità (1500-1505 ca.)


COMMENTO ALL'ENCICLICA LAUDATO SI'

IL PROBLEMA DELL’UOMO È IL PROBLEMA DELL’ADORAZIONE E TUTTO IL RESTO È FATTO PER PORTARVI LUCE E SOSTANZA.

Così scriveva Romano Amerio nel giugno 1926 in Di un bisogno dei contemporanei (Pagine nostre, periodico della diocesi di Lugano), ventunenne studente alla Cattolica di Milano.

È invece forse cambiato, “il problema dell’uomo”, in questi quasi cento anni da quel lontano giugno di fresche, assolutistiche e specialmente molto veridiche scoperte ameriane?
Oggi, giugno 2015, Papa Bergoglio ha immerso la Chiesa in una Lettera enciclica che asserisce urbi et orbi essere il problema dell’uomo tutto tranne quello dell’adorazione. La Laudato si’ è la più esemplare cartina di tornasole dello stato della civiltà occidentale oggi: una civiltà tutta post cristiana.
Infatti: le chiese di tutto il mondo ormai da decenni si stanno svuotando di giorno in giorno di milioni di fedeli. E dove vanno questi milioni di fedeli gioiosamente apostati? Non vanno solo a zonzo qua e là, quasi senza sapere dove andare, ma vanno in un luogo preciso, in un dirupo, in un abisso scosceso e senza fondo, che loro credono di vedere come un luogo ameno e solatio, il luogo dei piaceri e dei canti: vanno a ingrossare, spensierati e felici, le fila del liberalismo, dell’agnosticismo, dell’ateismo militante, che permette loro di fare finalmente quel che vogliono, una pacchia. E nei pochi che restano nella Chiesa il sentimento religioso, intanto, si immiserisce nell’abitudinarietà, nella pochezza spirituale, nella caduta del timor di Dio, tutta colpa, queste tre infinite miserie, della perdita di apprezzamento e di venerazione del dogma (la liturgia nasce dal dogma), sovrastato e ormai come cancellato dalla terra della Chiesa.

È la “Guerra delle forme”, o “delle due forme”: la forma dogmatica contro la pastorale, la forma pastorale contro la dogmatica. Guerra che tutti combattono e di cui nessuno parla o vuol parlare: da cinquant’anni i Pastori della Chiesa si procurano in tutti i modi di vessare il magistero dogmatico così da anteporgli con ogni mezzo, fondamentalmente con argomentazioni che in giurisprudenza cadrebbero sotto il nome di ‘falso ideologico’, il magistero pastorale, il quale però è un magistero a metà, è un magistero che vive e respira solo se dietro e tutt’intorno a lui è presente e gli dà aria il magistero dogmatico, e oggi, essendo tutti obnubilati da tali devianti registri (v., di chi scrive, Che cosa può cambiare e che cosa non può cambiare nella Chiesa, in Dogma e Pastorale. L’ermeneutica della Chiesa dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, a cura di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2015, pp. 71, 103-6, 112, 139), non si trova un Pastore che sia uno che osi eccepire su religiosità, convenienza, e, specialmente, correttezza dottrinale della Laudato si’. Ciò che si vedrà qui.
    
Mettiamola pure così: la natalità di nazioni feconde come Italia, Francia e Germania è precipitata, superando persino il cosiddetto “punto di non ritorno”, e – ancor più grave – di ciò nessuno se ne occupa e preoccupa, pur se personalità come Ettore Gotti Tedeschi da anni fanno notare che tutta l’economia e il benessere sociale delle nazioni sono al traino della loro natalità. La quale natalità però, a sua volta, è al traino della religione, perché è solo in virtù della fede che l’uomo sa ritrovare i mezzi per vincere il proprio egoismo, sa prendere in mano responsabilmente il proprio dovere di generare a Dio altri figli nella fede, sa dare loro i mezzi per vivere adorandolo, così portando « luce e sostanza » a questo altissimo fine ultimo, solo per il quale l’uomo è stato creato e non adempiendo il quale l’uomo da se stesso si danna in eterno.
La situazione, insomma, è tale da poter affermare con certezza e senza ombra di dubbio che davvero “il punto di non ritorno”, se vogliamo chiamarlo così, tanto sognato dai liberali quanto ritenuto impossibile – e a ragione – dai cattolici, sarebbe arrivato anche per la cristianità. “Punto di non ritorno” che peraltro la cristianità, coll’indizione in forma meramente pastorale del concilio Vaticano II, si è accuratamente cercato, si è pervicacemente voluto. È proprio con quell’apertura che la forma pastorale attaccò tanto pesantemente quanto inaspettatamente la forma dogmatica, dando inizio a quella devastante “Guerra delle forme” che porterà in pochi decenni alla scomparsa della Chiesa dalla scena culturale di tutto il mondo occidentale e alla scristianizzazione pressoché totale che si diceva della civiltà.

Ma mentre le nazioni fino a ieri cristiane possono ora sbandierare felicemente un’almeno apparente vittoria del Liberalismo sul Veritarismo proclamando la fine della cristianità, rimpiazzata in ogni ramo del sapere dal pensiero anticattolico, la civiltà laicista, agnostica e atea che ne ha preso momentaneamente il posto con prepotente, melliflua, ma inarrestabile e smisurata violenza culturale, è giunta ormai quasi al suo prefissato e ben studiato traguardo, e la dimostrazione di ciò la si ha in particolare nelle arti: nell’arte propriamente detta, ma poi specialmente nella letteratura, nel cinema, nella tv, nelle pagine culturali dei giornali, nel modo stesso con cui si danno ormai oggi le notizie: è evidente a tutti l’invasione capillare e incontrastata dell’ambienza liberale, del nuovo e tutto antropocentrico clima culturale regnante su popoli e nazioni, che – pare – in tal modo finalmente possono ben vivere e prosperare non solo, come si diceva ai tempi di Spinoza, etsi Deus non daretur, “come se Dio non esistesse”, ma di più: velut si Deus homo ipse esset, “come se Dio fosse lo stesso uomo” (che è il pensiero più senza senso che un uomo possa avere), infatti ciascun uomo è oggi ormai Dio a se stesso.
Tale è il Liberalismo.
E che il Papa sia, come quelli dicono, “dalla nostra”, proprio questa purtroppo in nulla francescana Lettera circolare Laudato si’ ben lo dimostra. 
                         
1. I FATTI.

19 giugno 2015. Esce la seconda Lettera enciclica di Papa Francesco, che poi in realtà, essendo stata la Lumen Fidei concepita e scritta fondamentalmente da Papa Ratzinger, è la sua prima.
Essa, fin dal titolo, Laudato si’, oltre che per il tema, vorrebbe essere improntata, come può immaginarsi, a colui che dovrebbe essere il suo ispiratore ideale, san Francesco d’Assisi. Ma non lo è: è una Lettera tecnico-politica, non religiosa, che si muove su un terreno tecnico-politico, non religioso, dove il fine ultimo, l’obiettivo da perseguire è tecnico-politico, non religioso: « Affermiamo – dice al n. 127 – che “l’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale" (Gaudium et Spes, 63) ». L’uomo. Non Dio. Possibile? 
Ancora una volta c’è da avanzare forti riserve sulla reale consistenza del legame cui Papa Francesco tanto tiene col sublime Serafico: c’è da chiedersi se p. es. quest’ultimo avrebbe mai concluso un’Enciclica non con una, ma con due preghiere, nessuna delle quali però “giusta”: una che dovrebbe essere pregata da un certo gruppo di credenti, l’altra da un altro: la prima da un gruppo al 100% inclusivista, irenico e quanto mai impregnato del falso e fuorviante “spirito d’Assisi” di woytjliana memoria, che si rivolge a un generico e imprecisato “dio” pregato dall’insieme di tutti i credenti di tutte le religioni del mondo quali che siano; l’altra da un secondo gruppo, e questo, nella mente del Papa, più esclusivista, diciamo quasi esclusivista, se non fosse anch’esso ecumenico, cioè pancristiano, formato da cattolici, luterani, evangelici, anglicani eccetera, cioè e da cattolici e da eretici.
Ma – direbbe san Francesco, quello santo, esclusivista e strettamente cattolico e trinitario –, una preghiera da far dire ai soli cattolici, no? “Per soli cattolici”: che poi sarebbero gli unici a seguire la verità, dunque ad adorare Dio, dunque gli unici di cui Dio ascolterebbe la preghiera. Ma questo concetto si è perso da tempo, non lo crede più nessuno.


2. DUE PREGHIERE SBAGLIATE AL POSTO DELL’UNICA GIUSTA.
           
Che senso ha tutto questo? E, più ancora: com’è possibile che non uno dei vescovi che hanno letto e studiato il documento pontificio rilevi la contraddizione delle due orazioni, oltre alla contraddizione tra la prima di esse e il comandamento peraltro del tutto esclusivista che si ricava dalle sacre Scritture e dal millenario Magistero della Chiesa?
Il cardinale Caffarra grida: « Guai se il Signore ci rimproverasse con le parole del profeta, ‘Cani che non avete abbaiato’ ».
Ma perché mai, Eminenza, il congiuntivo ipotetico? Lei, per quanto sia già benemerito per aver agitato queste parole, è però in ritardo: il Signore vi e ci sta già rimproverando, e da tempo, e molto: è da cinquant’anni che la Chiesa abbaia alla luna! Dove sono i Cani del Signore che dovrebbero ricordare alle greggi, cristiane e non, le eterne verità da ricordare sui nuovi pessimi costumi e sulle ancor peggiori conseguenti leggi prese dalla società civile su contraccezione, aborto, divorzio, sodomia, morale matrimoniale, o sulle spaventose cause, peraltro tutte ideologiche, della fuga dalla Chiesa di centinaia di milioni di loro? dove i Cani del Signore che dovrebbero pur gridare a quelle greggi qual è il vero “pensiero unico” da tenere riguardo a Dio, che non è certo quello irenico, neomodernista e inclusivo propalato da cinquant’anni da un Magistero complice della falsissima ideologia liberale ovunque al potere? dove i santi e indefessi Cani che invece, improvvisamente ammutolitisi, o tramutatisi in variopinti pavoni, per non cadere in contraddizione, da cinquant’anni si guardan bene dal formalizzare in dogmi le multicolori, equivoche e tutte liberaloidi novità insegnate dal Vaticano II, studiando di tenersi sempre a un livello mere pastorale, così aggirando l’onere dell’impegnativa che il sacro e infuocato carisma petrino imporrebbe di affrontare?

Il cardinale Caffarra, e tutti quei ben pochi cardinali che come lui sentono l’alito pesante di satana soffiare sopra le spalle, non han che da vedere tutto il male che già sta avvenendo nella Chiesa, che da se stessa si è inflitta la propria agonia, e ciò non solo, come è, a presagio di ulteriori mali futuri, ma pure a castigo e a prova di colpe già ora in essere. 
E, per tornare alla Lettera, perché mai non è stata pensata una e una sola preghiera, come da duemila anni la Chiesa le eleva ogni giorno a Dio, ovviamente specifica per soli cattolici? Possibile che a un Vicario di Cristo non venga in mente di proporre una preghiera da far dire, strettamente, solo intra mœnia, cioè da far dire solo all’interno del sacro recinto di cui è – o dovrebbe essere – il fedele e sempre vigile Custode, cioè da far dire, come sempre è stato, solo da chi fermamente crede che Gesù Cristo sia l’unico sacerdote e mediatore tra Dio Padre e gli uomini, in Lui suoi figli?

Poi uno va a vedere, legge le due preghiere, e resta ancor più di sasso: in nessuna delle due il Papa accenna a un fine teleologico, cioè a un orizzonte sub specie æternitatis, sovrastorico, evangelico, cristico, cui dovrebbe essere piegata ogni considerazione umana, figurarsi una preghiera. Anzi, entrambe paiono pervase da un generale sentimento di inglobamento “panreligioso”, tanto da « riconoscere – così la prima – che siamo profondamente uniti con tutte le creature nel nostro cammino verso la tua [di Dio] luce infinita », formula che, con quel « tutte le creature » e quel “dio” spersonalizzato comodamente in eterea « luce infinita », se non può non compiacere anche il fedele buddista o induista di più stretta osservanza, lascia quanto meno perplesso il fedele cattolico, a meno che non sia, come oggi tutti, di scuola rahneriana.

3. FONDAMENTO ILLIBERALE E DETERMINISTICO DELL’ENCICLICA.

Nella seconda orazione poi, dopo parole che dovrebbero far tirare un sospiro di sollievo a fedeli, monsignori, vescovi e cardinali, perché finalmente si parla di un Cristo dal quale « sono state create tutte le cose », ecco che li si fa sobbalzare e conturbare di nuovo tutti: cos’è mai infatti quell’espressione che, riferendosi direttamente a nostro Signore, afferma senza mezzi termini, più rahnerianamente che mai: « Oggi [tu] sei vivo in ogni creatura con la tua gloria di risorto », concetto già avanzato peraltro poco prima, al n. 221: « Cristo, […] ora, risorto, dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con la sua luce »? quando mai nei Vangeli o in san Paolo si dice che Cristo vivificherebbe con la sua gloria un universo per il quale l’Apostolo attesta piuttosto l’attesa impaziente « della rivelazione dei figli di Dio » (Rm 8,19), rivelazione che si avrà appunto solo nella Parusia?
La gloria di Cristo risorto dimora solo in chi lo accoglie, come detto chiaramente p. es. in Ap 3,20: « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me », perché se essa invece dimorasse aprioristicamente « nell’intimo di ogni essere […] penetrandolo con la sua luce », come si spiegherebbero non dico le mancanze più lievi, che già farebbero difficoltà, ma le efferatezze dei grandi criminali della storia, le durezze di chi gli resiste con caparbietà e ostinazione, le repellenti e oceaniche immondizie morali in cui sta annegando la civiltà proprio perché ha rifiutato di seguire i comandamenti di Cristo?
Forse che Cristo ha dimorato nell’intimo di anticristi come Hitler, Stalin, Maometto, Giuda, per citare i più efferati?

Può anche essere, anzi è di fede che Egli abbia pur tentato di « circondarli con il suo affetto » e penetrarli « con la sua luce », perché questo è appunto ciò che Egli afferma quando dice: « Ecco, sto alla porta e busso », ma la cosa si ferma qui, perché Dio, autore della realtà, della verità che le aderisce perché sia correttamente riconosciuta e della libertà attraverso cui l’uomo deve sapervi liberamente adeguare (cioè per scelta libera dell’intelletto), è il primo a rispettare la libertà umana: Egli sta alla porta e bussa, ma se non gliela apri, la porta, Egli non entra, non violenta la tua libertà, anche se quello “stare alla porta” sottintende tutto un misericordioso e incessante lavorio dall’esterno fatto di affetto e di luce, ossia di mille e mille invenzioni di Dio, di questo Dio personale e straordinariamente tenero, che con i suoi angeli non abbandona neppure l’uomo più recalcitrante e criminale se non quando ormai è proprio cadavere, perché tale è la misericordia di Dio per ciascuno di noi fino all’ultimo respiro.

Ho detto “più rahnerianamente che mai”, perché le espressioni lette denunciano senza fallo essere la loro origine nell’idealistica dottrina congetturata da Karl Rahner s.j. La teologia cosiddetta dei “cristiani anonimi” di quel gesuita, malgrado l’evidente ateoreticità dei suoi presupposti, per la seducente proposta “inclusiva” che rappresentava si impresse fortemente nelle menti della maggioranza dei Padri del Vaticano II, alla ricerca di buoni motivi per ingraziarsi il mondo, v. Gaudium et Spes 22 (« con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo ad ogni uomo »), Ad Gentes 7, Lumen Gentium 16. Papa Giovanni Paolo II poi, nella sua Redemptor hominis, XIII, 3, si premurò d’interpretare personalmente il concetto: « Si tratta – lì quel Papa pur oggi canonizzato volle sostenere – di “ciascun” uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero ». Ripeto: Cristo forse che si è unito, e per sempre, con anticristi come Ario, Lutero, Calvino, o Napoleone, Garibaldi, Mao, Assad? Brrr.
Per il gesuita, « teocentrismo e antropocentrismo non sono orizzonti filosofici incompatibili uno con l’altro, anzi costituiscono una medesima realtà enunciata da due punti di vista diversi » (Antonio Livi, Vera e falsa teologia, Leonardo da Vinci, Roma 2012, p. 215), che però egli intende unificare, v. Karl Rahner, Theologie und Anthropologie, in Idem, Schriften zur Theologie, vol. VIII, 1967, p. 43. In quel suo saggio Livi fa notare che per padre Fabro « il presupposto metafisico dal quale parte Rahner è la priorità del verum sull’ens, ossia la subordinazione del trascendente assoluto della metafisica dell’essere», l’ens appunto, cioè la realtà, « al trascendentale di relazione dell’a priori della conoscenza” (Cornelio Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974, p. 5) » (ibidem). Tale priorità del verum sull’ens, o, che è lo stesso, subordinazione dell’ens al verum, è, come si sa, la classica matrice dell’idealismo, cioè della perdita più irrefrenabile della realtà.
Con queste premesse, il filosofo del Senso comune ha buoni motivi per declassare la teologia rahneriana a filosofia della religione, a causa « della “attesa ontologica dell’uomo” », giacché l’“attesa ontologica” del teologo tedesco « non ha nulla a che vedere con quella conoscenza naturale di sé (come creatura precaria) e di Dio (come primo Principio e ultimo Fine) che, come ha sempre sostenuto la sapienza cristiana a partire da sant’Agostino, genera l’attesa di una rivelazione della “verità tutta intera” e la speranza di una grazia salvifica » (idem, p. 216).

Ciò comporta, per il filosofo pratese, « l’implicita negazione della libertà » (ibidem), e infatti: che possibilità mai avrebbero avuto gli anticristi di cui sopra di fare le loro scellerate ma libere scelte per il male se fossero stati uniti a Cristo, e persino « nell’intimo »? E viceversa: che possibilità avrebbe avuto mai la Beata Vergine, di essere libera di scegliere tra pronunciare o non pronunciare il fatidico “sì”, se “nel suo intimo – per dirla col Pontefice – dimorava Cristo circondandola con il suo affetto e penetrandola con la sua luce”?
Una tale invadenza di Cristo non ha nulla a che fare con la cristologia del dogma cattolico, imperniata come nessuna sul distinguo degli enti, che in fin dei conti è il loro rispetto.
Ieri padre Karl Rahner. Oggi Papa Francesco-Bergoglio: due gesuiti imprimono una concezione illiberale, idealistica, deterministica e aprioristica della fede disconoscendo il « necessario itinerario della coscienza umana, che », corregge però ancora Livi, « può arrivare all’incontro con l’evento della Rivelazione (riconosciuto come tale sulla scorta di evidenze fattuali e storiche – p. es., nel caso della beata Vergine, sappiamo che alle Sue sante e ragionevoli obiezioni l’Angelo porta l’evidenza fattuale e storica, dunque superragionevole, del miracoloso concepimento di Sua cugina, santa Elisabetta –, che costituiscono i “motiva credibilitatis”) solo presupponendo le evidenze del senso comune (che sono sempre, almeno materialmente, di carattere metafisico e costituiscono i “præambula fidei”) » (ibidem).

4. ANTROPOCENTRISMO RADICALE DELL’ENCICLICA.

Anche questa, come tante precedenti, è una Lettera enciclica più lunga di tutto il Nuovo Testamento messo insieme, e di certo diecimila volte meno significativa. A meno che si ritenga significativo per la fede avere attenzione « alla casa comune » intesa non come Regno dei Cieli, e nemmeno come Chiesa, ma come terra, il pianeta su cui viviamo e che sfrutteremmo; o si ritenga significativo per la fede, come recita il III paragrafo del Cap. 6, « la conversione ecologica » da compiersi prima che sia troppo tardi. « La conversione ecologica »?! Questa direi proprio che è la prima volta che un Papaparla di “conversione” senza riferirsi allo spirito, all’anima.
Tutti i 6 capitoli, i 246 paragrafi e le 192 pagine che compongono la Lettera sono indelebilmente segnati da una doppia contraddizione: ancora una volta Papa Francesco asserisce pastoralmente verità a posteriori, cioè epistemiche pseudo-verità tutte da vagliare e verificare, che, come sollecito a fare in La Chiesa ribaltata, Gondolin, Verona 2014, pp. 300-3, o in Che cosa può cambiare… cit., pp. 91-4 e 151-6), se solo provasse a ratificare – ma non lo farà mai! –, portandole sul sacro e corrosivo braciere del carisma dogmatico, verrebbero dissolte ancor prima di nascere. Ma come si può pretendere che uno scritto steso per lisciare il pelo alle pecore dal verso giusto abbia la solidità cristallina delle parole a Erode di un san Giovanni Battista, che di lisciare il pelo a chicchessia tanto non si preoccupò, da essere chiamato all’altissima missione di Precursore del Cristo, « Via, Verità e Vita »?
Quando mai si tornerà ad avere Pastori che sanno d’avere il sacro dovere di “lisciare il pelo al dogma” prima di lisciarlo al popolo (e, v. La Chiesa ribaltata, p. 256, a se stessi)?

« Affermiamo che “l’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale (Gaudium et Spes, 63) », ripreso al n. 127 della Laudato si’. Questo antropocentrismo esasperato, raccolto, come si vede, dal Vaticano II (celebre il n. 24/d di Gaudium et Spes, per la cui analisi rimando a Dogma e pastorale… cit., pp. 63-5 e 73 segg.), distorce ab origine la corretta visione religiosa, perché il vero Autore, il centro e il fine di tutta la vita del mondo, fosse anche quella di un ambito così poco apparentemente legato alla religione e allo spirito come parrebbe essere la vita dell’ambito economico-sociale, è ancora e in primo luogo Dio, non l’uomo, come peraltro ricorda tutta la sacra Scrittura, p. es., nel V. T., « Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli » (Sal 32,10), disegni e progetti di tutti i tipi e ambiti, anche fossero gli “economico-sociali”, o ancora: « Il Signore ha dato, il Signore ha tolto » (Gb 1,21), e, nel N. T., Lc 12,6: « Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio », o anche I Cor 3,7: « Né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma è Dio che fa crescere », sicché Romano Amerio, con mirabile sintesi, come visto, può ben concludere: « Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per darvi luce e sostanza ».
« Tutto il resto »: l’economico, il sociale, il politico, il legislativo, il giuridico, il culturale, l’artistico, il didattico eccetera. Non sono forse questi i vari mezzi attraverso i quali i popoli possono perseguire la pace? e i cristiani non implorano forse Dio per avere da lui la pace? e come credono di ottenerla se non implorando Dio di dargliela, realizzandola poi essi attraverso appunto quei tali mezzi, spesso così poco spirituali, sì, ma pure i più facili a essere causa di litigi, contrasti, guerre, così come, all’opposto, di pace e di fraternità?
Ma il capovolgimento antropocentrico e secolarista, che trascina nella polvere l’unica religione al mondo il cui perseguimento, al contrario, consiste precisamente e solo nel rendere casta e virginale – cristica, appunto – l’anima anche più abietta, purché lo voglia, permette non solo di sviare tutta l’attenzione dei fedeli da Dio all’uomo, dallo spirito alla carne, dal cielo alla terra (primo fine), ma anche di abbracciare nell’inclusivismo che si diceva tutte le religioni del mondo quali che siano (secondo fine). E così avviene.
Per il suo antropocentrismo, per il suo secolarismo, che distorcono all’origine, e doppiamente, l’insegnamento che, sempre che la religione ne possa mai sollecitare l’esigenza, ci si potrebbe aspettare, la Lettera andrebbe espunta, cancellata, evirata decisamente e in toto dagli Acta Apostolicæ Sedis.   

5. PRIMO RISULTATO: DISTOGLIERE L’ATTENZIONE DEI FEDELI
E DEL MONDO DAI FINI TUTTI E SOLO SPIRITUALI DELLA CHIESA.

Il Papa, ancora una volta, sollecita la cristianità e il mondo a occuparsi anima e corpo di fatti, religiosamente parlando, del tutto secondari, irrilevanti, surclassati in importanza, impellenza e gravità, p. es., dalla stessa devastante, terrificante e generale apostasia in atto da decenni – per l’esattezza, da dieci lustri –, per la quale intere nazioni, cattolicissime fino al fatidico Vaticano II, si sono ritrovate di recente gioiosamente atee; o surclassati, ancora, dall’invasione di immoralità, sessuale in primis, ma non solo, vedasi il dilagare dei fenomeni di corruzione sociale, politica, mafiosa, lo strabordamento inverosimile della quantità di omicidi e di violenza su tutto e su tutti, violenza che non arretra davanti a nulla e che anzi con foga distruttiva e barbara non arretra neanche dinanzi alla purezza e innocenza dei minori, dei bambini, del futuro del mondo, e, questa invasione di immoralità, viene pure teorizzata in vere e proprie dottrine: sulla sodomia, sul gender, sulla famiglia fuori del matrimonio cattolico eccetera; o surclassati, ancora e più di tutto, dalla perdita sempre più larga e dalla sciatteria sempre più manifesta del sacro atto di adorazione e di lode a Dio Padre, Principio di tutto, parlo della s. Messa, sacro e miracoloso atto che invece dovrebbe essere, e non è più, quello che anche da Amerio è ricordato (lo abbiamo visto) come il più significativo e ultimo di tutta la Chiesa, di ogni anima, di tutto il mondo.

Ecco: anteporre oggi, in un documento importante quale una Lettera enciclica, temi squisitamente tecnico-sociali a temi strettamente spirituali, come i tre qui appena accennati, specie all’ultimo, che dei tre è il più incisivo e determinante, è spostare l’attenzione e la barra della Chiesa in una direzione “carnale” che non le compete per niente, o almeno in un orizzonte per essa del tutto secondario, abbracciando così quello che possiamo chiamare amerianamente « cristianesimo secondario » – e altro non è –: un cristianesimo la cui qualità dipende dalla qualità del “primario”, del cristianesimo tout court, dipende cioè dalla fede e dalla morale cristiane.
Ma spostare la barra della Chiesa dal suo Sole alla terra che gli gira attorno è operazione evidentemente falsificatoria, che non solo non aiuta a risolvere le impellenti e gravi difficoltà spirituali in cui Chiesa e umanità versano oggi, ma le aggrava rovinosamente, perché toglie loro il trono che hanno di diritto, le depotenzia, le snerva del ruolo primario loro dovuto. Poi si sa che se un male non è curato per tempo, si aggrava ogni giorno di più. Quanto è grave il peccato d’omissione di un sommo Pastore che non si attarda in tutti i modi che ha a disposizione a por fine a quella “Guerra delle forme” che ha ischeletrito la Chiesa e scristianizzato il mondo, e l’una e l’altra cosa ha fatto perché forse ha anche oltre ogni limite sdegnato il Signore nostro Dio?

Quei tre primi temi detti – ma sono solo i primi tre di tanti –, per la vorace aggressione di cui sono oggetto, da tempo attendono che un Papa se ne occupi, e seriamente, cioè prendendoli di petto, con la ferma intenzione di porvi una parola chiarificatrice e definitiva, ma i Papi degli ultimi dieci lustri glissano, e il “Papa venuto dalla fine del mondo” somiglia sempre più ai Papi rinascimentali tipo Leone X de’ Medici, che sviavano l’attenzione della cristianità dagli oggetti primari della religione – dottrinali, sacramentali e morali –, che avrebbero dovuto costituire sempre e comunque il focus delle loro più ardenti e vive preoccupazioni, ai più secondari, se non anche inutili e vacui, oltre che esposti a opinioni e obiezioni di tutti i tipi, legittime o meno che siano.
Questo sviamento d’attenzione da ciò che dovrebbe essere in ogni ora la gemma incastonata sulla fronte di ogni cristiano, e tanto più di un Papa, a un qualsiasi tema terreno, per quanto “umanistico”, per quanto cioè possa ricevere effluvi di ammirazione da parte dell’opinione pubblica mondiale – specie della dominante atea, gnostica e massonica alla Scalfari – e delle potenti lobbies che si occupano dei vasti moti culturali, ecologici, economici, sociali, aggrava terribilmente la situazione spirituale in cui versa la cristianità.

Sicché abbiamo ieri i cortei magnifici e ridondanti di cocchi e carrozze dorate in cui un Papa col suo seguito squisito attirava le folle in visibilio a rimirare una Firenze in cui faceva l’ingresso trionfale, camuffata da antica Roma, Roma Clemens, per opera di artisti famosi come Piero di Cosimo, Andrea del Sarto, Pontormo, Rosso Fiorentino, Andrea di Cosimo, Francesco Granacci, Baccio Bandinelli, che avevano addobbato le strade della Città del Fiore con quinte e fondali sontuosi, mentre trombettieri e pifferai sonavano da Palazzo Vecchio e i bombardieri sparavano a salve le artiglierie, e oggi, servatis servandis – ma l’aura di “divina” munificenza è sempre la stessa –, ecco davanti a noi altrettanto inusitati cortei di cocchi e carrozze avanzare splendidi, all’interno scorgervi gentili Problematiche sociologiche accanto a regali e nuovissime Spiritualità ecologiche – sì: proprio loro, chi se le aspettava? –, benevolmente benedicenti le folle osannanti mentre a coppia sei paia di cavalli candidi di Ecologiche schiere procedono tra nugoli di fiori, di petali, di palme, e che meraviglia di festoni a Impegno per l’Ambiente, che eleganza di encarpi imbastiti di Biodiversità, che gioia quelle ghirlande di Catene alimentari! E guardate voi le meravigliose e tanto inclusive Conversioni ecologiche globali, oh, che intuizione! Rimirate come son ben precedute e altrettanto graziosamente seguite da avvincenti Sviluppi sostenibili e da variopinti e impennacchiati Cicli di produzione e di consumo; ecco poi – il vino migliore è sempre proposto per ultimo –, verso un gran finale che si presenta come sempre del tutto inaspettato, inusitati Modelli circolari di produzione, potenti Vulcanismi planetari, per concludere con travolgenti Ecologie integrali e scoppiettanti Variazioni dell’orbita e dell’asse terrestre: non è una meraviglia? e qui abbiamo ammirato solo i fenomeni più appariscenti e strepitosi che appaiono scorrendo or qua or là le doviziose, lussureggianti, ubertose pagine dell’immaginifico “Corteo terraqueo globale” di Papa Bergoglio, l’umile e spoglio Papa nostro Francesco.

Grandi e inventivi Papi, i Pontefici “umanisti:” sanno richiamare folle immense a rimirare quel che sa e può offrire la cultura se impregnata di saggezza: ieri rappresentata dal mito della Roma dei Cesari, oggi da quello di una spiritualità ecologica globale, e poco importa se nel frattempo ieri Lutero, qualche principe tedesco e altre poche anime ribelli, oggi ancora poche centinaia di milioni di altrettante anime insofferenti e secolarizzate, si ribellano alla Chiesa, voltano le spalle al Vicario di Cristo, si disperdono per il mondo, si lasciano travolgere dalle vane e mortifere seduzioni della carne lasciando dietro di sé decine di migliaia di chiese vuote da convertire in hotel, ville esclusive, centri congressi, ristoranti d’élite, con l’alternativa accarezzata da tutti gli Illuministi del mondo, oggi vittoriosi sull’odiata Chiesa di Roma, di essere prima o poi, invece, definitivamente distrutte.

6. SECONDO RISULTATO: CONFONDERSI, EQUIPARARSI
CON LE NOZIONI FILOSOFICHE E RELIGIOSE DEL MONDO.

Al n. 233 vi è una nota, la 159, in cui, per la prima volta in un’Enciclica papale, in un documento magisteriale cioè di valore segnatamente solenne e universale, e sottolineo per la prima volta, viene indicato ai cattolici, in qualità di « maestro spirituale », un seguace di una setta religiosa notoriamente non cattolica. Trattasi di tale Alì Al Khawwas, un maomettano, e precisamente un sufita, e dunque, almeno teoricamente, certamente un eretico. E lo si vedrà. Ma non pare che la cosa abbia fatto clamore, abbia sollevato perplessità pubbliche da parte di qualche porporato, nemmeno uno: è in una nota, e la nota 159 è una delle ultime, chi la va mai a leggere? che importanza mai può avere?
E invece ne ha, di importanza, e moltissima. Ripeto: è la prima volta in duemila anni che il Vicario di Cristo, in un documento formalmente tra i più rilevanti del Magistero della Chiesa, riporta elogiativamente, se pur in nota, il pensiero di un autore non cattolico, per di più appartenente a una religione contro la quale indiscusse autorità come san Tommaso d’Aquino ritennero necessario scrivere pagine severe come la Summa contra Gentiles. È la prima volta che un eretico viene assunto a ‘maestro spirituale’ della cristianità, la quale, confidente nel Depositum Fidei e nelle verità derivate, sarebbe invitata a considerarlo, meditarlo, interiorizzarlo, assimilandolo ai Maestri spirituali cattolici verso i quali il suo cuore è naturalmente trasportato. La cosa è clamorosa. Tanto più che, ancora una volta, l’inatteso sdoganamento si rivelerà pericoloso per la fede proprio come qui temuto.
Per carità: san Tommaso d’Aquino è il primo a rilevare che molte verità spirituali si possono trovare anche oltre il sacro recinto, ma, aggiunge, « se uno, p. es., conosce una conclusione, senza il termine medio che la dimostra, di essa non ha evidentemente la scienza, ma solo un’opinione » (S. Th., II-II, 5, 3). Il sufita, in verità, non conosce bene neanche “la conclusione”, come direbbe san Tommaso, perché vi si avvicina goffamente, scambiando – al solito degli gnostici, e i sufiti sono notoriamente gnostici – una del tutto ipotetica relazione spirituale con la solita relazione sentimentale e dunque carnale in cui sempre incocciano i falsi maestri, che della spiritualità insegnata dal Cristo, cioè da Dio, non sanno afferrare neanche i lembi più icastici. Ecco il testo:

« Un maestro spirituale, Alì Al Khawwas, a partire dalla sua esperienza – altro elemento, questo, che dovrebbe mettere in allarme il fedele cristiano, che raccoglie l’ascolto della Parola, non la propria interiore esperienza –, sottolineava la necessità di non separare troppo le creature del mondo dall’esperienza di Dio nell’interiorità. Diceva: Non occorre criticare a priori coloro che cercano l’estasi nella musica o nella poesia. C’è un segreto sottile in ognuno dei movimenti e dei suoni di questo mondo. Gli iniziati – altro elemento ancora, questo degli “iniziati”, di infinito allarme per la pecorella cattolica, che sa che Gesù non è per pochi, ma per tutti – arrivano a captare quello che dicono il vento che soffia, gli alberi che si flettono, l’acqua che scorre, le mosche che ronzano, le porte che cigolano, il canto degli uccelli, il suono delle corde o dei flauti, il sospiro dei malati, il gemito degli afflitti…” (Eva de Vitray-Meyerovich ed., Anthologie du sufisme, Paris 1978, 200; trad. it.: I mistici dell’Islam, Parma 1991, 199) ». Gnosi allo stato puro, cioè purulento maxime.

Tra le creature del mondo e Dio non vi è né può esservi alcuna continuità, e non vi è né può esservi alcuna continuità nemmeno nell’esperienza che se ne può fare. Supporre tale continuità tra creature e Dio, o della loro esperienza, è opera carnale, come carnale è l’errata convinzione di Spinoza sul tema. Al più, sotto il profilo analogico che si può trovare tra creature e Dio, si può fantasticare ed elaborare opere “poetiche”, a volte anche di alta poesia, come in Dante, o in qualche altro animo cattolico di fine spiritualità, ma per nulla affatto opera ‘mistica’ in senso stretto, e il sufismo non si può catalogare come esperienza ‘mistica’, perché resta nei limiti del sentimento, dell’emozione, della poesia, categorie tutte – religiosamente parlando – sempre comunque ‘carnali’, cioè che cadono sotto il dominio dei sensi.
Le esperienze estatiche di san Paolo non hanno nulla a che fare con l’immaginazione poetica di Dante: il primo vide, udì e fu rapito realmente (« se con il corpo o senza corpo, non lo so, Dio lo sa », II Cor 12,3) « al terzo Cielo », cioè in un luogo reale, seppur non di questa terra, che è a dire in un luogo assolutamente non creato: reale, ma del tutto spirituale, come testimonia lui stesso: « ineffabile », cioè che non si può spiegare con le categorie dell’attuale nostra natura. Il secondo, invece, immaginò, percorse con la fantasia, si inoltrò, con i vividi ‘fantasmata’ della sua mente umile e cattolica, nei cieli descritti dalla fede, giungendo ad altezze sublimi, mai viste, incantevoli, ma pur sempre e solo intellettuali.
Dunque non andiamo a cercare in parole imprecise di uomini le cui nozioni “spirituali” sono del tutto incontrollate, fatti cui i santi ci possono avvicinare con ben altre garanzie, ricordandosi peraltro che la religione cattolica è l’unica al mondo autenticamente ‘spirituale’, ossia è l’unica religione che ci garantisce di portarci in tutta purezza in una realtà autenticamente e veramente spirituale, e altre non ve ne sono. Avvicinare cosiddette “spiritualità” non cattoliche alla cattolica non fa che macchiare quest’ultima di impurità che non le si confanno e confondere le cose, le anime che guardano stupite le cose così confuse, il mondo perso nell’entropia dottrinale che in tal modo vanamente lo infiamma, incenerendolo. 

Ed ecco poi ora un secondo elemento per mostrare in che misura noi cattolici siamo qui confusi, mescolati e quasi equiparati – con grave ingiustizia per loro e per la divina Rivelazione cui si riferiscono – alle altre nozioni religiose quali che siano, irreali e non rivelate, in un continuum in cui è caduto ogni confine, ogni distinguo, per essere assimilati, i credenti nel reale con i credenti nel vano, in un orizzonte inclusivista che dovrebbe, cadute le differenze, pacificare tutti in un’unica entropia panreligiosa.
Leggiamo infatti al n. 220: « Per il credente », che è a dire “A parere del credente”; al n. 235 leggiamo ancora: « Per l’esperienza cristiana », cioè “Secondo l’esperienza cristiana”, e, al n. 239, « Per i cristiani », cioè “Per quel che possano pensare i cristiani”, “Secondo i cristiani”.
Tre modi per mettere in una scatola, per stringere in un sacco, per relativizzare in una delle tante opinioni correnti, e lì relegarle per sempre, verità che per loro natura hanno invece una non picciola caratteristica: quella di essere cattoliche, cioè vere, universali ed eterne.
La verità del n. 239, p. es., ricorda che « credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria ». Questa importante verità è riconosciuta da sant’Agostino nel suo De Trin., VI, da san Tommaso nella sua S. Th., I, 45, 7, da san Buonaventura nei testi segnalati dalla Lettera.
Che poi siano o no verità strettamente del Depositum Fidei, o da esso dipendenti nei modi illustrati in Dogma e Pastorale… cit., pp. 58-66, non ha importanza, perché in gioco è il fatto che quelle della Lettera sono verità che, stando all’Autore, hanno la loro peculiarità nell’essere credute dalla Chiesa, ed è questo ciò che qui si vuole rilevare: che se è così, se effettivamente esse sono verità cattoliche, non si può attribuire loro un valore solo ipotetico, una qualità estemporanea, cioè un valore che si attribuisce appunto a precisazioni come quelle riportate (“Per costoro”, “Secondo loro”, “A parer loro”…), precisazioni che in analisi logica sono dette ‘complementi di limitazione’, e non si possono attribuire tali complementi di limitazione perché la loro realtà supera la ragione, non sta dentro nessun limite, nessun confine, originando dalla ss. Trinità, e precisamente dal Logos.

Trovarsi però tra i piedi, in questa Lettera enciclica, dei complementi di limitazione che non dovrebbero esserci è del tutto ovvio, è “naturale”: uno scritto che si propone di rivolgersi au pair a tutte le nozioni religiose brulicanti sotto le stelle, che vuole trattare le opinioni e gli indirizzi teologici e filosofici più vari, fossero pure del tutto contrari non solo alla Rivelazione, ma alla religione in sé, non come fossero errori ed elucubrazioni insensate e spesso anche originate da intenzioni malevole, è uno scritto che non oserà più utilizzare verbi affermativi, autoritativi, prescrittivi, e se necessario anche definitori, o espressioni capaci di ricordare la forza, mite ma irresistibile, di verità cristiane come quella menzionata. Non oserà e infatti non osa più, come qui si vede, e anzi si rattrappisce in una timidezza da relativisti spinti.

7. CONTINUARE A INSEGNARE CON LA SCIAGURATA FORMA ‘PASTORALE’ O RITORNARE FINALMENTE ALLA DOGMATICA?

Ancora una volta, la forma cosiddetta ‘pastorale’ del Magistero, usata dal tempo del concilio Vaticano II, che poi veramente ‘pastorale’ non è, perché (come pure nella Laudato si’) è piegata a muoversi liberamente, quasi che tale forma di Magistero possa davvero permettersi di non verificare punto per punto la coerenza delle considerazioni che di volta in volta si vengono a fare con i principi fermi ed eterni della forma dogmatica, perde anche quel resto di diritto autoritativo ancora ben presente p. es. in Encicliche come la Satis cognitum di Leone XIII, o la Humani generis di Pio XII, cui si doveva l’obbedienza de fide anche se in esse non era presente il carisma papale al massimo grado di pienezza, o entelechia, perché così era richiesto dai loro altissimi autori, pienamente coscienti della maestà veritativa che quei loro documenti prescrittivi, precettivi, rappresentavano in quei frangenti: il fatto è che quei Pontefici non avevano ancora compiuto la cosiddetta “opzione pastorale” perpetrata dal Vaticano II, ben consapevoli, piuttosto, di avere il dovere di pervadere i loro insegnamenti del carattere dogmatico che sempre deve impregnare il Magistero della Chiesa per diffonderne la carità, e della conseguente obbedienza da dargli, e ciò compivano utilizzando il linguaggio veritativo dovuto, quello appunto autoritativo, affermativo, apodittico, prescrittivo, e di conseguenza, specularmente, anatemizzante, a esso necessario, come largamente illustrato da chi scrive in Il domani – terribile o radioso? – del dogma, pro manuscripto Aurea Domus, Milano 2013, pp. 105-17.
Quei Papi non si sarebbero mai sognati di utilizzare espressioni astringenti, restrittive e relativizzanti come « Per il credente », o simili, perché ben consapevoli che credere non è un’opzione che si possa abbracciare o invece cestinare, ma dovere teoretico per ogni uomo dotato di ragione cui viene adeguatamente annunciato l’Euangelion, il che dà alla verità creduta il valore assoluto che ha solo l’adesione alla realtà più vera. E questo è il punto: sapere che ciò che si crede è reale, è la realtà vera, dà a chi crede l’autorità che la realtà da se stessa in se stessa possiede (da cui il celebre apoftegma romano: “Contra factum non valet argumentum”), e all’opposto, limitare, circoscrivere, relativizzare l’autorità della cosa creduta in una opinione tra le tante, dissocia la verità dalla realtà correlata, come è giusto fare per le verità a posteriori, ma non per verità eterne come sono quelle di fede, e Dio viene dissolto nell’ipotetico, nel soggettivo, come in Kant.
 
Qui troviamo la chiave dell’incapacità della Lettera di dire qualcosa di genuinamente religioso: quando un Papa relativizza a opinione personale ciò che dovrebbe essere presentato fortemente e decisamente come verità eterna, si capisce che non ha più senso parlare di verità, e che in ogni caso ‘spirituale’ e ‘temporale’ sono categorie senza più significato.
Si attende una Lettera enciclica con il plurale maiestatis pontificale (v., di chi scrive, La Chiesa ribaltata, pp. 60-7). Si attende un Magistero papale che smetta di abusare proditoriamente della forma cosiddetta ‘pastorale’ di insegnamento, che poi nemmeno pastorale è, utile solo a diffondere nozioni religiose ai limiti consentiti dai principi della fede, per non dire anche oltre tali limiti, mostrando coraggio laddove c’è solo finzione e falso ideologico, come illustrato in Dogma e pastorale… cit., pp. 103-6, perché il vero coraggio lo si avrà unicamente quando quelle cosiddette novità in cui tanto si crede – p. es. quella della concessione dell’Eucaristia ai divorziati risposati – le si porterà finalmente davanti al Trono di Pietro, e Pietro, usando tutta la pienezza del suo carisma, e mettendo con ciò fine alla “Guerra delle forme”, o “Guerra delle due forme” che paralizza e anzi annienta la Chiesa, le porrà nel sacro braciere del dogma, provando a bruciarle, roventi, sull’ardente e celeste calderone, cosicché delle due l’una: o quelle novità sono sante, pure, spirituali, cattoliche, e allora tutto il mondo le vedrà innalzarsi come lingue di fuoco altissime e potenti, e unirsi alle altre fiammeggianti lingue delle eterne norme e leggi che regolano la fede e la morale cristiane. O quelle novità sono invece pessime, impure, false e bugiarde, e allora saranno incenerite dallo stesso rovente braciere, il cui calore soprannaturale non permette a nessuna falsità di avvicinarvisi, come asserisce il Signore con giuramento eterno: « Portæ Inferi non prævalebunt adversus eam » (Mt 16,18): “Le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa”, cioè la falsità, la menzogna, come pure l’ostinata e colpevole non volontà di riconoscere la realtà, aderirvi e comandare di aderirvi, anatemizzando i disobbedienti, non prevarranno contro la Chiesa.

8. DUNQUE ADORAZIONE, ADORAZIONE,
E ANCORA ADORAZIONE.

Questa è l’unica strada aperta davanti alla Chiesa, è la strada di sempre, ma è anche la strada che da cinquant’anni, cioè dal concilio Vaticano II, i suoi Pastori non vogliono percorrere, e ciò non vogliono per “lisciare il pelo al mondo” e così compiacerlo, e di ciò compiacersi, come nota san Gregorio Magno, « Dalla vanagloria nascono le stravaganze dei novatori » (in Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, 10, 1, ad 3).
Per avere la forza di imboccare quella che per la verità non è altro che la sua propria e unica strada, la Chiesa dovrebbe essere con tutte le forze spinta a riprendere a compiere quegli atti di penitenza e di adorazione tralasciati negli ultimi cinquant’anni: decisa, sentita e forte penitenza e decisa, sentita e forte adorazione. Intendendo per ‘decisa, sentita e forte adorazione’ non più la celebrazione eucaristica secondo il Novus Ordo Missæ, che già tanto comprensibile sdegno ha con tutta probabilità suscitato in Dio Padre per la sua oggettiva e miserevole adoratio minor, come ampiamente illustrato da chi scrive in La Chiesa ribaltata… cit., pp. 149-53 e in Dogma e pastorale… cit., pp. 54-9, ma la celebrazione secondo il Rito Romano, o Gregoriano, o Tridentino che dir si voglia, oggettiva adoratio maior, anzi maxima, che poi va in ogni caso soggettivamente irrobustita e corroborata spiritualmente dal celebrante e da chi eventualmente lo coadiuva in una santità di attenzione e di venerazione che, a ogni suo inveramento, deve renderla visibilmente quale è: il santissimo e miracoloso atto per cui, come scrive Romano Amerio, « è realmente presente e realmente si prende il dio » (Iota unum, Lindau, Torino 2009, p. 542). Sulla degradazione di adorazione operata da Papa Paolo VI con l’introduzione del suo Novus Ordo Missæ sono state scritte migliaia di pagine, ma per l’icastica forza con cui essa è lumeggiata nei due capitoli sull’Eucaristia e sulla riforma liturgica, quelle di Iota unum le consiglio perché sono ancora tra le più chiare.
Se si pensa che a fronte di circa mezzo milione di Messe dette ogni giorno nel mondo secondo l’adoratio maior, cioè in Rito Romano, o Gregoriano, fino al 1969, oggi ne restano a dir tanto un migliaio, e in ogni caso solo circa 350-400.000 in adoratio minor, cioè nel Novus Ordo, giacché nel frattempo, per divina punizione, è caduto verticalmente anche il numero dei celebranti, con le almeno tre aggravanti: la prima, che la più parte di esse è detta senza spirito di adorazione, di contemplazione, ma di corsa (come d’altronde purtroppo anche molte delle mille Romane), e che in molte di esse vengono compiute le più incresciose bizzarrie e i più inaspettati atti quantomeno di leggerezza se non di sacrilegio, v. comunione sulla mano; la seconda, che negli ultimi cinquant’anni nessun Papa, ripeto: nessun Papa, neanche tra quelli elevati agli onori degli altari, ha mai celebrato altro che il Novus Ordo cioè mai ha reso a Dio Padre l’adoratio maxima trasmessa da Cristo agli Apostoli e da questi ai loro discepoli, adoratio maxima mai fatta mancare, prima, in duemila anni di storia, neanche dal Papa meno santo; la terza, che di tutto questo sfascio i Pastori che se ne fanno carico e se ne preoccupano pubblicamente parrebbero essere, nel mondo, tra vescovi e cardinali, non più di una dozzina, e tra costoro, come visto, non sembra ci sia il Vescovo di Roma; ecco, se si pensa tutto questo, si capisce bene perché si dica che l’unica strada è quella che si è detta.

Qui non si tratta di restaurazione dell’antico, o di qualcosa che non c’è più e che qualcuno rimpiange: questo modo di vedere lo si lasci alla politica e agli stati, società laiche.
Qui si tratta di riprendere l’unica strada che la Chiesa può percorrere per essere se stessa, Sposa di Cristo, e compiere ciò che Cristo le ha ordinato di compiere: riprendere lo spirito di penitenza e di adorazione, tornare alla adoratio maior di sempre, tornare a respirare ogni giorno l’ambienza dogmatica che trasuda solo dal Rito Romano, e tutto ciò fare per ricevere la grazia del coraggio soprannaturale di tornare a saper prescrivere col massimo munus magisteriale richiesto dall’oggetto dell’insegnamento, ossia con il carisma petrino, i santi comportamenti da tenersi a riguardo dei sacramenti del Matrimonio, della Penitenza e dell’Eucaristia per quelle che oggi vengono viste da certuni come nuove circostanze sociali, relazionali e famigliari. Adoratio maior universale ed esercizio del magistero dogmatico. La “Guerra delle forme” va chiusa, e si può chiudere solo col ripristino dell’esercizio della forma dogmatica nel magistero e nella liturgia. 
Altra strada, per salvarsi, per salvare, e per scrivere Lettere encicliche sante e santificanti, proprio non c’è.




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