giovedì 6 gennaio 2022

Due ordini, due resistenze. Alcune osservazioni sul presente tra Chiesa e secolo

Reinhold Ljunggren (1920-2006) - Interno svedese

L'articolo che segue, pubblicato per la prima volta nel nr. 133 (2021) nella rivista Controrivoluzione (qui), completa la riflessione già sviluppata in Vigiliae Alexandrinae qui, qui, qui e qui.

Non pochi negli ultimi tempi hanno notato un doppio ed estremo disordine, nell’ambito della Chiesa e nell’ambito politico-sociale, quasi come ci fosse una causalità che dal primo giunge finalmente al secondo. Si tratta in ogni caso di una causalità spirituale, non verificabile con un metro positivo, e non sempre tanto univoca come potrebbe apparire. Se inizialmente un disordine a livello soprannaturale è destinato a ripercuotersi nella sfera dei rapporti naturali e storici, in concreto esistono reciproche influenze che non possono essere trascurate. Per esempio, la Chiesa seppe tener freno alla Rivoluzione francese e diede un decisivo contributo, negli anni successivi, al relativo ristabilimento di un ordine storico giusto. Ciò nondimeno si deve constatare che questa considerazione non esaurisce ogni prospettiva sulla causalità tra i due ambiti, se soltanto si pensa, rimanendo nell’esempio, che, da un canto, il pensiero rivoluzionario del XVIII si pose alla conclusione di un processo di autonomizzazione dalla teologia di filosofia, politica, diritto ed economia iniziato proprio all’interno della Seconda Scolastica e delle Università del tardo Medioevo, e che, dall’altro, l’Illuminismo secolare aveva compenetrato la società ecclesiastica di quello stesso secolo. La guardia al confine tra società ecclesiastica e società politica dovrebbe essere sempre un compito di chi conserva l’ortodossia nelle varie epoche, per impedire che l’errore religioso penetri nel mondo e che il pensiero del mondo penetri nella Chiesa con successive ricadute nel mondo. 

Una posizione eterodossa, che nasce nell’ambito ecclesiastico progressista sotto il nome di teologia della liberazione, e che, per diverse vie, ha finito per estendersi al campo conservatore e “tradizionalista” confondendo religione e politica, è quella che fa coincidere la grazia e il suo conseguimento con la lotta politica di liberazione. In questo modo alla donazione della grazia, come processo interno all’uomo la cui iniziativa è esclusivamente di Dio, si sostituisce un’azione di liberazione come atto estrinseco dell’uomo, come una violenta appropriazione pelagiana della salvezza in una prospettiva ultimamente immanentistica. La rievocazione aberrante di episodi storici, intimamente legati alla professione della fede e all’obbedienza alla Chiesa, come la Vandea, il Sanfedismo, le insorgenze antirisorgimentali, le guerre carliste, il levantamiento spagnolo, la guerra cristera, si presenta oggi come l’affermazione di un grande sacramento politico nel quale salvezza sovrannaturale e libertà politica delle comunità storiche finiscono per confondersi con un grave pericolo per la fede e per le anime. Di fronte a questo fenomeno che coinvolge, con diversi gradi di consapevolezza, individui e gruppi e non rende giustizia alle esperienze del passato evocate, occorre distinguere la diversa natura dell’ordine nelle due sfere.

Quando la teologia della liberazione nella sua versione “tradizionalista” entra nella sfera ecclesiastica con la pretesa di “riportare la Tradizione”, finisce (quasi sempre) per negare l’ordine stesso della Chiesa, attraendolo, con il pretesto dell’apostasia del clero, nell’immanenza della lotta politica, e ciò in vista della una restaurazione violenta di un passato ideologico o, come spesso accade, del compimento del tutto soggettivo di un messaggio mariano, come quello di Fatima, decontestualizzato da ogni comprensione mariologica e teologico-sistematica. Contro questa prospettiva si deve considerare che la Chiesa è dotata di una costituzione donata dal suo Divino Fondatore il quale si serve di essa per continuare a essere il suo Capo, a governare i cristiani e a essere tra loro. Il primato petrino (Mt 16), con il principio della gerarchia e della missio (Gv 20, 21), e il munus docendi (Mt 28, 19-20), così come l’opera sacramentale della Chiesa in tutto l’orbe, non possono essere dichiarati sospesi, abrogati o derogati in nome di uno stato di necessità che tende con il tempo a divenire fondamento di una “nuova chiesa” (o di un arcipelago di “nuove chiese”), e del grande sacramento politico in cui ci si sente coinvolti. L’effetto non trascurabile della negazione della vigenza attuale e concreta della costituzione divina della Chiesa, soprattutto del primato e della gerarchia, è la trasformazione del Cattolicesimo in una posizione intellettuale a disposizione di ogni interprete. E tale negazione è anche la tentazione più forte per il “tradizionalista” di fronte agli scandali che affliggono la Chiesa (uno su tutti l’adorazione della Pachamama). Benché certamente non possano essere accettate le dottrine eterodosse diffuse dal clero e dalla gerarchia e non ci si possa sentire obbligati a partecipare a pubblici atti di apostasia e di profanazione, l’ordinamento della Chiesa deve essere continuamente affermato tramite una insistente ordinazione formale e materiale al Papa, e al suo luogo che è Roma, nonché alla gerarchia della Chiesa, sempre tenendo conto della diversa vincolatività degli atti magisteriali. In ciò non possono mancare i doni della grazia dati da Cristo e non afferrati violentemente attraverso la lotta politica. 

Nell’ambito propriamente politico si sono accumulati molti equivoci dei quali non cessiamo di essere vittime. Siamo, infatti, ormai abituati a pensare la politica come monopolio dell’ordinamento dello Stato. In realtà l’Occidente, dalle Opere e i giorni di Esiodo alla cameralistica settecentesca, passando per la grande esperienza medioevale dell’ordinamento feudale della terra, ha senza interruzione pensato, in quanto ontologicamente poste al centro degli ordinamenti politici ed economici, la casa e la famiglia su una porzione di terra come elementi di un’unica istituzione creata. Ogni casa è una piccola monarchia originaria retta da un pater familias, da un oikodespotes o da un Hausherr: le monarchie antiche sono costituite da casati sovrapposti a case e le democrazie antiche sono sempre confederazioni di case, in entrambi i casi con un costante diritto di secessione. Ancora nel XVII secolo il cameralismo era la scienza della gestione del patrimonio dello “stato” come patrimonio del casato. La Rivoluzione francese con la decapitazione di Luigi XVI mise (apparentemente) fine a questo sistema introducendo ingenuamente, in un primo momento, l’autogoverno degli individui (“fratelli” in quanto parricidi) e, poi, con il maggior realismo dell’abate Sieyès, il governo della rappresentanza della società nazionale dei “fratelli cittadini”. La chiusura necessaria fu la sovranità del legislatore che esclude tanto i ceti (le case, le famiglie, le professioni) quanto l’intervento delle potenze straniere (tra le quali certamente la Chiesa). Oggi, mentre la società nazionale dei “fratelli” si è dilatata, secondo la propria originaria logica economica (e finalmente tecnica), alla società globale, gli Stati si sono ridotti a enti di esecuzione locale delle decisioni del Governo mondiale dell’umanità e delle sue agenzie. Quest’ultimo esito, che costituisce evidentemente il superamento in atto dello Stato di diritto, introduce la realtà tirannica cui la crisi sanitaria ci sta abituando.

La riaffermazione della costituzione divina della Chiesa non soltanto definisce la superiorità sovrannaturale della Chiesa stessa e la sua autonomia nella storia rispetto a ogni ordinamento politico tirannico – anche rispetto al grande sacramento che ci si illude essere la soluzione della crisi mortale della nostra epoca -, ma pone anche la politica nel suo giusto ordine. Il grande equivoco della dottrina sociale della Chiesa è stato quello di porre lo Stato al vertice dell’ordinamento della sussidiarietà sociale, lasciando così spesso credere che la definizione ultima del “bene comune” (che in realtà è qui soltanto un “interesse pubblico” eventualmente conforme al bene comune) possa essere assegnata allo Stato, talvolta ingenuamente immaginato come “Stato cattolico”. In realtà lo “Stato (moderno) cattolico” è un ossimoro in quanto tale irrealizzabile, e le proposizioni del magistero sociale hanno senso compiuto soltanto se riferite alla politica antica. Ciò che, dunque, nell’ordine politico deve essere riscoperto è il suo fondamento ontologico, come è stato sopra descritto, nella sua radicale opposizione allo Stato moderno. Si tratta qui, ogni volta, di ri-porre e difendere la decisione politica (sull’educazione dei figli, sull’economia, sui trattamenti sanitari, sugli amici e sul nemico etc.) nel luogo in cui il Creatore ne ha posto l’autorità sin dall’inizio, ossia nell’istituzione complessiva della casa che comprende un signore della casa e una famiglia. Ne potrà così sorgere con il tempo una confederazione di case, una “polis parallela”, come la chiamò il filosofo della resistenza ceca al comunismo Václav Benda, assai più dotata di realtà di quanto lo sia la fantasmagoria statale. E, a questo punto, diverrà sempre più evidente che la necessità dell’ordine “impolitico” della Chiesa è condizione della libertà della decisione politica dell’individuo di fronte allo Stato e, in certe circostanze, di un’ordinata e conveniente anarchia cristiana. 

Andrea Sandri

Immagine: Reinhold Ljunggren (1920-2006) - Interno svedese

venerdì 24 dicembre 2021

«Bambinello dall’eternità, ora voglio rivolgere un canto alla tua Madre!». Una poesia mariana di Gertrud von Le Fort per il giorno di Natale

Martin Schongauer - Geburt Christi, 1470-1500
Una delle più belle testimonianze letterarie cristiane del XX secolo sono le Hymnen an die Kirche (Ehrenwirth, München 1961) della poetessa tedesca Gertrud von Le Fort (1876-1971). Scritta nel 1922 quest’opera prelude e introduce alla conversione alla Chiesa cattolica dell’Autrice, avvenuta nel 1925. Come si legge nell’introduzione, «gli ‘Inni alla Chiesa’ rappresentano un dialogo. Dio risponde all’anima desiderosa di Lui con la voce della Chiesa» e «la voce della Santa Chiesa, come l’anima la percepisce in questi inni, è segnalata da una frase introduttiva: ‘La tua voce parla’». È dunque la Chiesa che parla negli inni di Gertrud von Le Fort ed è ascoltata dall’anima in cammino verso la conversione. Nell’inno di Natale, che riportiamo qui di seguito (nella versione originale tedesca e nella nostra traduzuione), appare subito la Chiesa di fronte al Presepe, al Dio incarnato, al “Bambinello dall’eternità”, e la Chiesa vuole rivolgere un canto alla Madre di Dio. Ognuno potrà apprezzare ciò che la Chiesa dice in prima persona alla Vergine Maria nella notte di Natale. 

Weihnacht

Deine Stimme spricht: 
Kindlein aus der Ewigkeit, nun will ich deiner Mutter singen! 
Mein Lied soll schön werden wie der morgenfarbne Schnee! 
Freue dich, Jungfrau Maria, Tochter meiner Erde, 
Schwester meiner Seele, freue dich, du Freude meiner Freude! 
Ich bin ein Wandern durch die Nächte,
aber du bist ein Haus unter Sternen! 
Ich bin eine durstige Schale, 
aber du bist ein offenes Meer des Herrn! 
Freue dich, Jungfrau Maria: 
selig preis' ich, die dich selig preisen! 
Nie mehr soll ein Menschenkind verzagen! 
Ich bin eine einige Liebe, ich will immerdar zu allen sprechen:
eine vom euch hat der Herr erhöht! – 
Freue dich, Jungfrau Maria, 
Flügel meiner Erde, Krone meiner Seele, 
freue dich, du Freude meiner Freude: 
selig preis‘ ich, die dich selig preisen! 

Natale 

La tua voce parla: 
Bambinello dall’eternità, ora voglio cantar alla tua Madre! 
Bello dev'essere il mio canto come la neve color dell’aurora! 
Rallegrati, Vergine Maria, Figlia della mia terra, 
Sorella dell'anima mia, rallegrati, tu Gioia della mia gioia! 
Io sono un pellegrino attraverso le notti, 
ma tu sei una Casa sotto le stelle! 
Io sono una coppa assetata, 
ma tu sei un mare aperto del Signore! 
Rallegrati, Vergine Maria: 
Beati coloro che ti dicono beata! 
Mai più un figlio dell’uomo dovrà disperare! 
Io sono un solo amore, e sempre a tutti io parlerò : 
una di voi è stata innalzata dal Signore! – 
Rallegrati, Vergine Maria, 
Ala della mia terra, Corona della mia anima,
Rallegrati, tu Gioia della mia gioia!
Beati coloro che ti dicono beata!

martedì 31 agosto 2021

Apologia dei cattolici libertari. Una risposta al professor Pietro De Marco

Dale Nichols - Arizona's Twilight,1934
Come si educe dalla breve biografia riportata da il Sussidiario (vedi qui), il professor Pietro De Marco, nato a Genova nel 1941, non è inquadrabile come studioso cattolico tradizionale, anche se ora sembra voler esercitare generosamente il proprio magistero anche in questo campo. Nell’articolo Apocalittici e libertari. Il ribellismo suicida dei cattolici no-vax pubblicato recentemente da Sandro Magister nella sua pagina Settimo Cielo nel sito de l’Espresso (qui e ripreso da Corrispondenza Romana qui; poi recensito da Stefano Fontana nella NBQ qui) De Marco sostiene una tesi interessante perché indice dell’incomprensione di alcuni aspetti fondamentali del passaggio dalla politica antica alla politica moderna nonché di una conseguente polemica mal esercitata contro chi oggi si oppone ai metodi e alle forme della “dittatura sanitaria” (qui in una nostra iniziale configurazione del fenomeno).

La tesi di De Marco sembra essere infatti questa: la difesa diffusa delle libertà personali di fronte ai provvedimenti anti-Covid dei governi rappresenta un processo di dissoluzione dell’“autorità” ancora esistente a tutto favore di una post-umanità indifferenziata e messa finalmente a disposizione di un tiranno, questo sì, veramente anticristico; il Cattolicesimo (tradizionale) dovrebbe, per evitare il suicidio, riaffermare il doppio katéchon dello Stato e della Cristianità. Formalmente la tesi di De Marco potrebbe essere condivisibile, soprattutto nelle sue conclusioni. In realtà, appena che si passi alla definizione dei concetti risulta del tutto fuorviante, almeno in una prospettiva tradizionale.

L’equivoco concettuale, che sembra condizionare tutto il discorso del Professor De Marco e di coloro che oggi ritengono di dover salvare a tutti i costi la decisione statale da ogni critica liquidata come “libertaria”, sta nella tralatizia immedesimazione del potere pubblico con lo Stato e dello Stato con un (il) katéchon. Una simile confusione non rende ragione al fondamento ontologico del politico da Esiodo fino alle monarchie del XVIII secolo, un fondamento che continua a sussistere (come osservò Otto Brunner nel suo bel saggio su La ‘casa come complesso’ e l’antica ‘economica’ europea, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1968, Vita & Pensiero) ancor oggi nonostante più di due secoli di sedimentazione rivoluzionaria: la struttura della casa e il signore della casa, il re nella sua accezione originaria come ancora lo intendeva Robert Filmer al di qua e al di là di Hobbes e di Locke, il pater familias o oikodespotes. Le monarchie antiche furono case sovrapposte a case e le democrazie antiche confederazioni di case. Questo sistema fu offuscato dalla decapitazione di Luigi XVI che instaurò, in luogo di uno stato di case e di padri, un “governo dei fratelli” (già parricidi) la cui chiusura fu necessariamente la sovranità dello Stato. Su questi passaggi scrisse cose notevoli Otto Brunner, e anche Carl Schmitt, citato parzialmente da De Marco, non li ignora, soprattutto nel suo imprescindibile dialogo con l’amico Álvaro d’Ors. Accanto allo Schmitt della Dottrina della costituzione (1928) c’è, infatti, lo Schmitt del Nomos della terra (1950) e dell'epocale superamento della forma politica statale. 

Se si accetta questo equivoco concettuale, come fa de Marco, fino a fare dello Stato un ente necessario nel contesto moderno e a individuare nel sistema statale l’ultimo freno alla dissoluzione anticristica, è giocoforza limitare e fondare le libertà in questo stesso sistema come se appartenessero definitivamente alla sua immanenza. Così infatti inequivocabilmente De Marco in un passaggio chiave, anche se un po' sfuggente, del suo articolo:
Se l’unica o almeno l’ultima autorità, nella tarda modernità dei diritti è assegnata, non per un abuso contingente ma per necessità, alle leggi e alle corti costituzionali, essa non può che agire minando le politiche e dissolvendo le società che incorporino autorità e in quanto la incorporano.

Una costatazione che si accompagna a un’altra costatazione secondo cui «l’intero “munus” imperativo (ovvero la cura dell’unità politica) è con la secolarizzazione (ovvero con la crisi della cristianità nell’età moderna) depositato nelle mani dei giuristi». Poiché si tratta qui evidentemente dei "giuristi curiali" del principe-Stato, ancora una volta De Marco legge parzialmente Schmitt che certamente individua nel “sileant theologi in munere alieno” di Alberico Gentili uno snodo fondamentale nella formazione dello Stato moderno, ma attribuisce, su un fronte opposto, allo jus non statale di Friedrich von Savigny (si veda il saggio di Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea, Pellicani, Roma 1996) e della sua scuola il compito di una forza frenante, di un katéchon appunto, all’interno di quello stesso processo formativo dello Stato in fondo al quale c’è il detto di Julius von Kirchmann: «I giuristi sono diventati, tramite la legge positiva, come vermi che vivono soltanto di legno marcio», mentre «tre parole del legislatore bastano a trasformare intere biblioteche in carta da macero» (J. H. von Kirchmann, Die Wertlosigkeit der Jurisprudenz als Wissenschaft, Muntius Verlag, Heidelberg 1988, pp. 28-29). Oggi il processo è persino oltremodo avanzato, poiché al legislatore che uccide il diritto è subentrata un’amministrazione materiale, la così detta governance, che pretende di indirizzare le società attraverso interventi puntuali e condizionanti, difficilmente sussumibili sotto qualche diritto anche soltanto legislativo, e perciò non processabili. L’armamentario dei dpcm, del lock-down e ultimamente del green-pass si inquadra in questo fenomeno al di là della sua occasione concreta.

Letta in questo contesto evolutivo, l’affermazione di De Marco sulla necessità del sistema statale come «l’ultima autorità … assegnata, non per un abuso contingente ma per necessità, alle leggi e alle corti costituzionali» appare persino superata, mentre doppiamente minacciosa nella sua attualità risulta la seconda parte della proposizione: «Essa non può che agire minando le politiche e dissolvendo le società che incorporino autorità e in quanto la incorporano». Qui allora l’affermazione della/e libertà può essere letta come dissoluzione libertaria soltanto nel quadro di una recidiva metafisica (o teologia) dello Stato, che De Marco sembra fare propria. In realtà e in un senso opposto, si tratta ancora una volta dell’affermazione dello jus come katéchon di fronte alla perfezione tecnica del Leviatano. Affermare il diritto è un esercizio di katéchon. Si tratta di un’insorgenza della storicità degli individui e delle famiglie come tempo non riducibile al normativo e come ricettacolo costante di istituti giuridici tradizionali e naturali. È la politica antica, come appena descritta, che si riprende i propri spazi, l’ontologia che forza la fantasmagoria statale. Un ordine politico libero (epperò autenticamente giuridico) e non statale, e in questo senso, se si vuole, anche libertario, che si affianca naturalmente (e non in maniera contraddittoria, come soltanto potrebbe fare lo Stato, secondo le conclusioni di De Marco) al più grande Katéchon costituito dalla Chiesa e dalla Cristianità. Qui la decisione sui vaccini cesserebbe di essere una minaccia sovranamente incombente.

Postilla: le presenti considerazioni possono essere anche riferite all'articolo del Professor Corrado Gnerre che, pur cercando di mantenersi nell'ambito interpretativo della dottrina sociale della Chiesa e della filosofia tomista, approda a una tesi analoga a quella di Pietro De Marco (vedi qui; e ripreso da CR qui).

Andrea Sandri

domenica 15 agosto 2021

Su nostra Signora nel corpo. Una meditazione del Cardinale John Henry Newman sulla Festa dell'Assunzione

Juan Martin Cabezalero - Assunzione di Maria
Delle annotazioni di John Henry Newman sui propri sermoni abbiamo già pubblicato il testo sulla Pentecoste (vedi
qui con una breve introduzione all’opera). Riportiamo ora, nella nostra traduzione,  il testo per l’Annunciazione che il Santo teologo inglese pone sotto il titolo “On our Lady as in the Body”. Nel solco della Tradizione della Chiesa e con evidenti richiami agli scritti dei Padri (specialmente, come sembra, a San Giovanni Damasceno), Newman offre un prezioso schema di riflessione le cui connessioni teologiche (con l’Immacolata Concezione e con il mistero dell’Incarnazione e della morte e resurrezione del Signore) possono portare a una visione profonda del dogma che oggi si festeggia. Ricorrono in particolare i temi della preservazione di Maria dal peccato originale, della sua esistenza “inviolata e intemerata”, dell’attesa della Vergine sulla terra, preceduta dai Padri dell’Antico Testamento nella visione del volto del Figlio, mentre tutto il sermone finisce per soffermarsi sulla «spada nel cuore» della Madre di Dio, spada di dolore e di amore che fu contemporaneamente ragione della sua morte e della sua assunzione in cielo. 

1. INTRODUZIONE. QUESTIONE. Ci si chiede se questa festa non sia incompatibile con l’Immacolata Concezione. Infatti come potrebbe nostra Signora morire, se non ha ereditato il peccato di Adamo? 

2. RISPOSTA. Perché Ella era sottoposta alle leggi della natura caduta, e ne ereditò i mali, eccetto ciò che concerne il peccato. Così nostro Signore benedetto patì fatiche, dolore e morte. Allo stesso modo Ella non ebbe perfetta conoscenza sin dall’inizio. Ebbe bisogno di un riparo, di vestiti etc., non trovandosi in un giardino come i nostri progenitori.

3. Quindi, dal momento che tutti gli uomini muoiono, anch’Ella morì. Nostro Signore morì. 4. Eppure anche per ciò che riguarda il suo corpo, nostro Signore osservò una speciale dispensazione che la riguardava. Infatti non fu soltanto preservata dalle malattie, ma anche dalla tortura, dalle ferite etc. 

5. Accadde così che Ella che era inviolata, intemerata, non dovesse avere alcuna ferita.

6. La differenza tra gli uomini e le donne in tempo di guerra. Le donne proteggono e rimangono a casa. Quante mogli, o sorelle o figlie, soffrono nello spirito, e le hai sentite dire: «O, se fossi un uomo!». Ed esse soffrono nell’anima, come soffrirono per la Croce i santi che non furono martiri. E dunque Maria aveva una spada nel suo cuore. E questo fu il suo dolore. 

7. Perciò Ella ci mostra lo straordinario esempio di un’anima sofferente, ma non il corpo. 

8. Ella visse pertanto fino alla piena età di un essere umano. E in ciò fu differente da nostro Signore.

9. Che immagine ci è così offerta! Immaginatela a trent’anni, a quaranta, a cinquanta, a sessant’anni, con un aspetto ancora meraviglioso e giovane, ogni anno più celeste. Crebbe nella bellezza, e la sua anima crebbe nella grazia e nel merito. 

10. E poi immaginate il suo crescente dolore per l’assenza di Cristo, ché Ella visse quindici o sedici anni senza di Lui!

11. Sulla lunga vita e attesa dei patriarchi antediluviani. Giacobbe: «Ho atteso la Tua salvezza, o Signore!»; Mosè; Daniele; Maria come le anime nel Limbus Patrum, benché il tempo della sua attesa sia stato più breve. Fu come il purgatorio, un’attesa del volto di Cristo, ma qui un’attesa accompagnata dal merito e non dal peccato. 

12. Non deve dunque meravigliare la pia credenza che Ella sia morta d’amore. Soltanto l’amore poteva uccidere il suo corpo. Fu una contesa fra anima e corpo. Il corpo così forte, l’anima così desiderosa di Dio. Nessuna malattia poteva uccidere quel corpo. Che cosa l’uccise? L’anima, affinché essa potesse giungere in cielo.

13. (1) Di struggimento; e (2) di aspirazione alla libertà. 

14. Fu quindi conveniente che, quando Ella divenne libera, il Figlio non lasciasse il suo corpo così vinto e sopraffatto, e che, nello stesso tempo in cui l’anima conquistò la vittoria, Egli sollevasse il suo corpo incorrotto. 


15. L’Avvocata nostra nel cielo.

martedì 3 agosto 2021

La FSSPX tra fronte e retrovia. Intorno a una nota dell'Abbé Gleize

L’Abbé Jean-Michel Gleize
Al momento l’Abbé Jean-Michel Gleize è probabilmente il teologo più rappresentativo della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Professore di Teologia fondamentale presso il seminario di Ecône, ha preso parte, in qualità di esperto di ecclesiologia, ai colloqui dottrinali con la Santa Sede tra il 2009 e il 2011. Di questo teologo, nel 2013, sono uscite in lingua italiana le Questioni disputate sul XXI Concilio Ecumenico (Editrice Ichtys, Albano Laziale, vedi qui) in cui Gleize, se da un canto individua in «testi come Nostra Aetate sulle religioni non cristiane, Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e Dignitatis humanae sulla libertà religiosa», gli snodi della discontinuità tra Tradizione e Concilio Vaticano II, afferma, dall’altro, che questi testi «impongono una scelta: o il Vaticano II o la Tradizione». Sicché non si può non osservare che così la teologia ufficiale, ma non sempre comune, della FSSPX ripropone, quasi in un “divergente accordo”, la tesi progressista della monoliticità del ventunesimo Concilio della Chiesa, senza tener conto di ermeneutiche che distinguono, in base al costante parametro della Tradizione, diversi livelli di vincolatività nei documenti conciliari nei quali è subentrata la confusione tra dottrina e pastorale (così, per esempio, p. Serafino Lanzetta in Il Concilio Vaticano II, un concilio pastorale. Ermeneutiche delle dottrine conciliari, Cantagalli, Siena 2014 vedi qui).

In uno scritto recente (vedi qui e qui l'originale francese) il medesimo aut-aut è applicato dall’Abbé Gleize alla lettura comparativa dei Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI (2010) e Traditionis custodes di Francesco (2021). Mentre il “conservatore” Benedetto XVI si limiterebbe a non decidere tra Novus e Vetus Ordo, proprio perché, a monte, non avrebbe deciso tra Concilio Vaticano II e Tradizione (così farebbe l’ermeneutica della continuità), Francesco assumerebbe coerentemente questa decisione in favore del Novus Ordo, dal momento che avrebbe già deciso per il Concilio Vaticano II. L’aut-aut di Gleize porta però il teologo all’omissione e all'oblivione dell’autentica decisione di Benedetto XVI nel senso della Tradizione liturgica e della sua non abrogabilità, decisione che costituisce il vero fondamento dogmatico e teologico del Summorum Pontificum e che rende questo documento solo superficialmente (su una superficie positivistica) paragonabile al procedere di Traditionis Custodes (vedi più ampiamente quanto abbiamo scritto qui). E, omesso il principio dogmatico, lo porta anche a opporre quasi positivisticamente testo a testo, rito a rito, laddove il discorso teologico, di per sé insufficiente (come ammette lo stesso Gleize nell’introduzione al libro appena citato), potrebbe servirsi del magistero. Nell’opposizione dialettica tra coloro che decidono per il Concilio Vaticano II e coloro che decidono per la Tradizione, tra coloro che decidono per la Messa tradizionale e coloro che decidono per la Messa di Paolo VI, l’Abbé Gleize non solo finisce per perdere di vista il fondamento certo del principio dogmatico dichiarato da Benedetto XVI (“la tradizione giuridica non può essere abrogata”), oltre che per contrapporsi così quasi occasionalisticamente alla decisione di Francesco, ma anche per collocare la FSSPX in una posizione, quella del fronte, che in questo momento non le spetta (e in cui la Provvidenza non sembra averla posta).

In realtà Traditionis Custodes aggredisce solo indirettamente la FSSPX: la aggredisce perché le Messe celebrate dai sacerdoti della FSSPX hanno (piaccia o no all'Abbé Gleize) la propria legittimità ultima nel principio dogmatico enunciato da Benedetto XVI, ma solo indirettamente perché la FSSPX, inserita in una missio atipica concessale da Francesco (su questo punto è tornato a esprimersi senza mezzi termini e in un modo che a taluni può sembrare ingiusto e crudele il Cardinale Burke, vedi qui), non è contemplata in termini normativi da Traditionis custodes. E sul fronte, perché invece direttamente colpiti dalle regole opposte al principio dogmatico della inabrogabilità della Tradizione giuridica, sono posti questa volta, diversamente dal 1971 e dal 1988, i parroci che si sono avvalsi fino a ieri delle regole ratzingeriane del Summorum Pontificum e ai quali è oggi interdetta la Messa nelle chiese parrocchiali, i neordinati che aspirano a un sacerdozio nella Tradizione liturgica, gli istituti ex Ecclesia Dei che si vedono minacciata la propria autonomia e la propria vocazione monoritualista, le abbazie, i conventi e le case religiose tradizionali. Tutto questo mondo è posto oggi sul fronte della Messa antica un tempo occupato dalla FSSPX, e si può credere che la vittoria di questo fronte sarà la vittoria di tutti, della Chiesa.

E la Fraternità Sacerdotale San Pio X? A essa non è tolto un ruolo fondamentale, bensì necessariamente assegnata una nuova posizione, quella della retrovia. Una guerra senza retrovia è spesso perduta sin dal principio. Restare nel posto in cui la Provvidenza ora la pone, significa per la FSSPX portare acqua e sostegno al fronte, garantire, con la propria lunga esperienza, ogni aiuto spirituale e materiale. I modi potranno essere individuati. Certamente non si tratta di sottrarre fedeli e sacerdoti a chi sta al fronte, quasi approfittando di un fallimento non ancora dichiarato (nonostante le suggestioni del teologo di fiducia), bensì di incoraggiarli a rimanere dove già sono. In questo modo la FSSPX potrà ordinarsi proficuamente al principio della Tradizione liturgica ben al di là della opposizione positivistica di due riti, e potrà finalmente ordinarsi al bene della Chiesa tutta, ponendo le basi di un giusto e pieno riconoscimento canonico in un futuro migliore, che potrebbe non tardare, e meritandosi riconoscenza e amicizia future anche oltre le proprie mura.

In questo senso possono essere lette le parole del Superiore della FSSPX, don Davide Pagliarani, contenute nella lettera del 22 luglio “Sul motu proprio Traditionis custodes” (vedi qui), la quale, mentre evidentemente condivide alcune posizioni dell’Abbé Gleize, sembra maggiormente aperta alla cattolicità della Chiesa: «La Fraternità San Pio X ha il dovere di aiutare tutte queste anime che si trovano attualmente nella costernazione e nello sconforto. Abbiamo innanzitutto il dovere di offrire loro, con i fatti, la certezza che la Messa tridentina non potrà mai scomparire dalla faccia della terra: si tratta di un segno di speranza estremamente necessario. Inoltre, occorre che ognuno di noi, sacerdote o fedele, tenda loro una mano rassicurante, perché colui che non desidera condividere i beni che possiede è in realtà indegno di tali beni. Solamente così ameremo veramente le anime e la Chiesa. Perché ogni anima che guadagneremo alla croce di Nostro Signore, e all’immenso amore che ha manifestato con il suo Sacrificio, sarà un’anima veramente acquisita alla sua Chiesa, alla carità che la anima e che deve essere la nostra, soprattutto in questo momento».

A.S.

giovedì 29 luglio 2021

Il bollettino mondiale di Traditionis Custodes. Verso una disapplicazione differenziata del Motu Proprio?

Segnaliamo (qui) un interessante sito che sta facendo un censimento dell'applicazione del Motu Proprio Traditionis Custodes nelle Diocesi di tutto il mondo. Si distringue tra Not Suppressed (bollino verde), All Suppressed (bollino rosso) e Some Suppressed (bollino giallo). Nella categoria Not Suppressed si distinguono i Vescovi che derogano espressamente al Motu Proprio (Yes) e i Vescovi che sembrerebbero temporeggiare (tra questi ultimi il Vescovo di Stoccolma di cui abbiamo commentato recentemente il comunicato qui, e la maggioranza dei Vescovi europei). L'applicazione stretta appare ancora sparuta. Negli Stati Uniti e, in generale, nell'area anglo-sassone sembra concentrarsi la tendenza alla disapplicazione esplicita (vedi qui una testimonianza della situazione americana). 
Si può constatare che, almeno al momento, l'atto normativo vaticano sta andando incontro a una seppur differenziata disapplicazione. Come si osservava su questo sito, la violenza è nemica della vigenza della legge.

mercoledì 28 luglio 2021

American Trads. Il Wall Street Journal su Traditionis Custodes

Ci è stato segnalato un interessante testo, pubblicato nella versione cartacea del Wall Street Journal del 22 luglio 2021 (vedi qui), che riportiamo qui di seguito nella nostra traduzione. È interessante che un grande giornale americano abbia ritenuto di occuparsi del Motu Proprio Traditionis Custodes affidando un articolo a una penna amica della Tradizione cattolica. Il testo contiene una preziosa citazione del Cardinale Newman che potrebbe divenire la divisa della resistenza a un provvedimento ingiusto, e ripercorre intelligentemente, con alcuni accenni che toccano la memoria anche del lettore europeo, lo sviluppo del movimento cattolico per la Messa tradizionale (la “TLM”) negli Stati Uniti, fino alla dura prova cui è oggi sottoposto. L’Autore, Matthew Walter, che è attualmente direttore della raffinata rivista di cultura cattolica The Lamp (vedi qui), collabora e ha collaborato con First Things, The Spectator, The Catholic Herald e National Review.
 


Kalamazoo, Michigan 

I furgoni si mettono in fila ben prima delle 8 del mattino e ce ne saranno altri a mezzogiorno. Ci vuole tempo prima che tutti escano da questi grandi modelli, pieni di sedili. Poi le mamme con il velo o il cappello di paglia legano i bambini al torace e seguono attraverso il parcheggio i loro mariti, anch’essi con bambini piccoli su ogni braccio. Questi cattolici stanno affollando la chiesa di Saint Mary, sede de facto della Messa in latino nella Diocesi prevalentemente rurale di Kalamazoo, per uno specifico obbligo religioso.

A St. Mary’s, nonostante i lockdown dello scorso anno, la partecipazione complessiva è cresciuta, più velocemente che in qualsiasi altra parte della Diocesi, ed è quasi raddoppiata dal 2020. In questi giorni le Messe domenicali tradizionali della parrocchia contano una media di circa 225 fedeli. Altre parrocchie americane hanno ottenuto analoghi incrementi di fedeli offrendo ciò che i devoti chiamano TLM [Traditional Latin Mass] o Vetus ordo ("Vecchio Ordine"), un riferimento scherzoso al Novus Ordo promulgato nel 1970.

Le comunità stabili della Messa in latino, a cui appartengono famiglie come la mia, sarebbero state irriconoscibili per i cattolici tradizionalisti negli Αnni ’80 e ’90. A quei tempi molti guidavano per diverse ore per assistere a Messe scarsamente frequentate, celebrate in orari strani nelle sale dell’American Legion o negli scantinati delle case private. Poteva anche capitare che alcune famiglie arrivassero con il prete al seguito, e che lo portassero poi alla fermata successiva come un ecclesiastico di frontiera. 

Oggi molti giovani sacerdoti celebrano quotidianamente la tradizionale Messa. Vecchi messalini tenuti insieme con il nastro adesivo sono stati sostituiti da costosi volumi rilegati in pelle. Austere celebrazioni di mezz’ora hanno lasciato il posto in alcune parrocchie a regolari Messe solenni che richiedono cerimoniere, sacerdote, diacono e suddiacono. Gli standard liturgici in alcune parrocchie potrebbero ora essere superiori a quelli precedenti il Concilio Vaticano II.

Papa Benedetto XVI ha creato questo mondo. Nella sua lettera apostolica Summorum pontificum (2007) il Santo Padre ha concesso a qualsiasi sacerdote l'autorizzazione di celebrare la Messa nel rito antico e ha permesso ai laici di richiederne la celebrazione ai propri vescovi. Ciò che alcuni si aspettavano che corrispondesse a una disposizione limitata agli anziani e ad alcuni eccentrici è cresciuto in modo esponenziale.

Ora papa Francesco è determinato a porre fine a tutto questo. La scorsa settimana ha emanato un Motu Proprio che abroga il decreto del suo predecessore. Sembra insinuare che le cose siano andate troppo oltre e minaccino di annullare le riforme liturgiche degli Anni ’60. Il graduale superamento del nuovo rito emerso dopo il Vaticano II era infatti l'ambizione, espressa solo a metà, di molti tradizionalisti. Fino a poco tempo fa molti si attendevano un futuro in cui la “forma straordinaria” della Messa, come l'ha definita Benedetto, sarebbe divenuta ordinaria.

I vecchi trads, che ricordano i giorni delle Messe “don’t ask, don’t tell” [non chiedere, non dire] nelle cappelle private, si sono dimostrati tendenzialmente ottimisti. Michael Matt, direttore del Wanderer, un giornale cattolico tradizionalista, ha recentemente definito il decreto del Santo Padre una conferma del vigore del vecchio rito. E ha invitato i fedeli a resistere ai loro vescovi e persino allo stesso Papa.

Per molti versi questo è un ritorno a una norma una volta consolidata. Quando Benedetto emanò il Summorum pontificum, coloro che erano legati al vecchio rito erano stati trattati come paria per quasi 40 anni. Da allora è diventato comune che i sacerdoti di mentalità tradizionale siano incaricati della cura delle vocazioni o dei tribunali matrimoniali diocesani.

Questo spiega perché tanti di noi, che sono giunti all'età matura durante l’epoca del Summorum pontificum, si sentono come se il sole fosse caduto dal cielo. Decine di persone mi hanno detto che venerdì scorso è stato il giorno peggiore della loro vita. Mia moglie era una di loro. 

I membri della mia famiglia e migliaia come noi sono figli e figlie obbedienti della Chiesa. Facciamo di buon grado sacrifici per la fede, ma ora stiamo subendo una dura punizione che non verrebbe mai inflitta a coloro che sfidano apertamente l’insegnamento papale sull'aborto, per esempio. Mentre i cattolici liberali si compiacevano, mi sono venute in mente queste parole di San John Henry Newman: «Perché dovrebbe essere permesso a una fazione aggressiva e insolente di far piangere i cuori dei giusti che il Signore non ha addolorato? Perché non possiamo essere lasciati soli quando abbiamo perseguito la pace e non abbiamo meditato il male?».

Molti vescovi francesi, britannici e americani a quanto pare sono d’accordo e hanno annunciato che permetteranno a comunità come quella di St. Mary di rimanere così come sono. Il Vescovo Edward Scharfenberger di Albany, N.Y., è andato oltre e ha elogiato i «preziosi contributi apportati alla vita della Chiesa» dalla celebrazione della Messa tradizionale, che egli definisce un «bene pastorale e spirituale».

Ora aspettiamo. Dopo mezzo secolo di crollo delle vocazioni, come tratterà Roma i sacerdoti neo-ordinati che devono ora chiedere il permesso per dire la Messa tradizionale? Se vengono respinti, allora che cosa fare? Indipendentemente da ciò che accadrà, questo non era il futuro che molti di noi attaccati alla Messa tradizionale speravano. I furgoni continueranno a essere pieni, ma non c'è da stupirsi se i viaggi presto diventeranno più lunghi.

venerdì 23 luglio 2021

Una lettera dalla Svezia. Il Cardinal Arborelius e Traditionis Custodes

Il Cardinal Anders Arborelius, nato nel 1949 a Solengo nel Canton Ticino, da genitori luterani, si convertì al Cattolicesimo nel 1969, dopo un lungo percorso di avvicinamento alla Chiesa illuminato dalla lettura di Santa Brigida e di Santa Teresa di Lisieux. Nel 1971 entrò nel monastero carmelitano di Norraby in Svezia. Dopo aver professato i voti perpetui nel 1977, fu ordinato sacerdote nel 1979. Nominato da Giovanni Paolo II vescovo di Stoccolma, fu il primo vescovo cattolico svedese dai tempi dell’introduzione della Riforma in Svezia. Creato cardinale da Francesco nel 2017. Nel 2007 accolse con favore il Motu Proprio di Benedetto XVI e ne favorì l’applicazione nella sua Diocesi. In un paese in cui il Luteranesimo, a differenza che altrove, non appianò le forme liturgiche antiche e, anzi, permise alcune cristallizzazioni esteticamente apprezzabili, il Cattolicesimo tradizionale ha rappresentato per molti svedesi, in mezzo alla definitiva crisi liberale della Chiesa di Svezia, una porta maestra e congeniale per ritornare alla Chiesa degli antenati. E il Cardinale deve essersi avveduto dei buoni risultati del suo favore per la Messa antica (vedi qui). La lettera che qui riportiamo nella nostra traduzione (vedi qui l’originale) è apparsa sul portale della Diocesi di Stoccolma l’indomani della pubblicazione del Motu Proprio
Traditionis Custodes. È un breve testo prudente e conciliante che tuttavia, se letto attentamente, comunica le ragioni di una forte preoccupazione. 
Al centro di tutto è posta, come risulta dalla conclusione, l’opera di evangelizzazione della Svezia, che sembra essere ostacolata dal Motu Proprio giunto da Roma più come un problema che come una buona notizia (e qui c’è un riconoscimento del ruolo fondamentale della comunità cattolica tradizionale in Svezia). Il Cardinale raccomanda obbedienza e rispetto per il documento di Francesco (“comunque [sic!] un’espressione del magistero”) a chi “manifesta dolore, smarrimento o preoccupazione”, senza però condannare questi sentimenti, e si dice toccato dai fedeli legati alla Tradizione liturgica che, nonostante tutto, hanno voluto pregare per il Papa in questo singolare momento. Afferma (temporeggiando?) che si devono ancora trovare le modalità di applicazione di Traditionis Custodes (le Messe continuano dunque nell’“interregno” conformemente al SP?) e si impegna a garantire in ogni caso la continuità delle celebrazioni tradizionali. Se, come è stato osservato recentemente dal Professor Roberto de Mattei (vedi qui), Traditionis Custodes rappresenta un "atto oggettivamente violento" compiuto contro molti cristiani, la risposta del Cardinal Arborelius rappresenta un esempio di giusta e ordinata resistenza che si aggiunge a prese di posizione analoghe e anche più nette secondo le circostanze da parte di molti vescovi nel mondo. Da sempre la violenza può garantire solo una breve vigenza.


Stoccolma, 17.07.2021 

Cari fratelli e sorelle della Diocesi cattolica di Stoccolma, 

per prima cosa voglio ringraziare voi tutti che mi avete interpellato a motivo della lettera apostolica Traditionis Custodes emanata dal nostro Santo Padre Francesco in forma di Motu Proprio. Preferisco scrivere queste righe a voi tutti congiuntamente. Per alcuni di voi questa lettera è giunta come una assoluta sorpresa e ha causato sentimenti molto contrastanti. Molti manifestano dolore, smarrimento o preoccupazione. Al contempo sono grato del fatto che così tanti vi vedono comunque un’espressione del magistero della Chiesa che deve essere accolto come tale, dunque con obbedienza e rispetto. Sono rimasto particolarmente toccato dalla circostanza che alcuni tra coloro che provano grande amore per la forma straordinaria della Messa hanno voluto sottolineare di voler pregare in modo speciale per il Papa. È davvero importante considerare che questo è un tempo di preghiera e di penitenza, affinché si conservi e sia rafforzata l’unità nella Chiesa.

Probabilmente ci vorrà tempo prima che noi della Diocesi si possa individuare e definire le modalità di applicazione di questo Motu Proprio. Sono certo che si possa trovare la possibilità di celebrare la forma straordinaria della Messa, anche se ciò non sarà più possibile nelle chiese parrocchiali. Per questo esorto voi tutti di chiedere allo Spirito Santo ausilio per tutta la nostra Diocesi, affinché possa alfine aiutare tutti noi a fortificarci nell’amore della Santa Eucaristia e a lasciarci trasformare sempre più da quest’amore in fedeli discepoli di Gesù Cristo. Non possiamo rischiare di incepparci in discussioni interne su questioni liturgiche che ci rendono difficile o impediscono di intraprendere la nostra missione di evangelizzazione della Svezia.

Con la mia preghiera e benedizione, 

+ Anders Arborelius ocd

lunedì 19 luglio 2021

La Tradizione liturgica non può essere abrogata. Nota al Motu Proprio "Traditionis Custodes"


Come esige ogni ermeneutica giuridica, che non sia improntata a un mero positivismo, in ogni testo normativo deve essere cercata, sotto l’omogeneità formale dell’articolato, la decisione fondamentale e questa deve essere distinta dalle norme strumentali e secondarie, in particolare dalle norme compromissorie la cui natura è instabile e affidata al principio rebus sic stantibus cui i decisori si sono sottoposti. Si può sostenere a tal proposito che nell’ordinamento ecclesiastico la decisione costituzionale fondamentale è stata assunta definitivamente da Cristo quando, attraverso atti successivi, fondò la Chiesa, e che il contenuto di questa decisione è ricavabile dalla Scrittura, dalla Tradizione e dal magistero infallibile. Ciò nondimeno, quando esamina il documento di un Pontefice, l’interprete non può esimersi dall’individuare, se c’è, la “decisione fondamentale” che riguarda il contenuto della fede e che, se non costituisce formalmente un dogma, può essere considerata un principio dogmatico, distinguendola dal resto dell’apparato normativo in cui può confluire ogni tipo di statuizione anche transeunte, anche compromissoria. 

Un testo sul quale può essere compiuto esemplarmente questo esercizio giuridico-ermeneutico è il Motu Proprio Summorum Pontificum approvato da Benedetto XVI il 7 luglio 2007 (vedi qui). Come è risaputo, questo documento magisteriale dichiara la libertà di «celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962» (art. 1). In questo documento magisteriale sono rinvenibili alcune norme strumentali alla sua applicazione come, ad esempio, la previsione dell’esistenza di «un gruppo stabile di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica» affinché la Messa antica sia celebrata in una parrocchia (art. 5 § 1) o quella dell’intervento del Vescovo diocesano in caso di diniego da parte del parroco (art. 7) oppure quella della possibilità per l’Ordinario del luogo di erigere una «una parrocchia personale a norma del can. 518 per le celebrazioni secondo la forma più antica del rito romano» (art. 10).

Ed è riscontrabile una rilevante norma compromissoria che, rafforzata e fondata da una sostanza teologica e dottrinale, sembra fare da architrave all’intero testo. Benedetto XVI afferma infatti nell’art. 1 del Motu Proprio che «Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino» e che «tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi”», sicché Novus e Vetus Ordo devono essere considerati «due usi dell’unico rito romano». Qui sta l’apparente radice della libertà della forma più antica del Messale romano. Si tratta di una norma compromissoria perché mira, senza però decidere tra le due forme e affrontare i problemi posti da chi ne afferma la discontinuità, a una pace liturgica dopo un conflitto mai sopito dalla promulgazione del nuovo Messale e anche perché, come ai tempi della promulgazione del Motu Proprio da più parti si disse, il Papa dovette placare la minacciosa opposizione di alcune importanti Conferenze Episcopali e di altre agenzie progressiste.

C’è però uno strato più profondo nel Summorum Pontificum nel quale Benedetto XVI sembra collocare la propria decisione sulla fede, stabilendo, seppur diffusamente, un principio dogmatico. Nell’art. 1 dichiara che il Messale del 1962 non è «mai [stato] abrogato». Dal contesto si può ricavare la portata di questa dichiarazione ed escludere che essa possa anche significare che il Messale antico potrebbe essere abrogato. Nel preambolo la citazione della massima della Regola di San Benedetto «Nulla venga preposto all’opera di Dio» (cap. 43) sembra alludere all’indisponibilità della Tradizione liturgica. Seguono il riferimento a San Pio V che curò l’edizione dei libri liturgici “secondo la norma dei Padri” e la breve descrizione dello sviluppo del Messale romano fino alla riforma di Paolo VI, accompagnata dalla constatazione della sopravvivenza del Messale antico. Nella Lettera ai Vescovi che chiarisce le ragioni del Motu Proprio (vedi qui) Benedetto ribadisce che il Messale del 1962 «non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso». Constata poi «che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia». E osserva che «nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto». 

L’interpretazione autentica di queste proposizioni ci è data, per così dire in anticipo, dal Cardinale Ratzinger nei suoi ricordi pubblicati per la prima volta in italiano nel 1997 e usciti in Germania nel 1998 con il titolo Aus meinem Leben. Erinnerungen (1927-1987) (Deutsche Verlags-Anstalt, München 1998). Qui il futuro Papa rammenta, riferendosi agli anni Settanta, il suo sgomento di fronte «al divieto del vecchio Messale, dal momento che qualcosa di simile non c’era mai stato nella storia della liturgia» (p. 172). E continua: «Pio V fece soltanto rielaborare il Missale Romanum, come ciò è normale nel vivo sviluppo della storia attraverso i secoli. Così anche molti suoi successori procedettero a una revisione del Messale, senza contrapporre un Messale a un altro. Fu un continuo processo di crescita e purificazione nel quale la continuità non fu mai interrotta. Un Messale di Pio V, fatto da lui, non esiste. C’è soltanto la rielaborazione di Pio V come fase di una lunga storia di crescita» (ibidem). Osserva significativamente che il suo santo predecessore decise «che il Messale della città di Roma dovesse essere introdotto come indubbiamente cattolico in tutti i luoghi nei quali non si potessero esibire liturgie che fossero almeno antiche duecento anni. In questo caso si poteva continuare a celebrare la liturgia precedente, perché il suo carattere cattolico era garantito. Non si poteva pertanto parlare di un divieto» (p. 173). E sul divieto del Messale del 1962 scrive: «L’attuale divieto del Messale, che si è accresciuto senza soluzione di continuità attraverso i secoli a partire dai sacramentari della Chiesa antica, ha comportato nella storia della liturgia una rottura le cui conseguenze poterono essere solamente tragiche» (ibidem).

Da questo ampio contesto normativo ed ermeneutico si può ricavare il principio dogmatico deciso da Benedetto XVI, il principio che regge in realtà l’intero Summorum Pontificum e rimane un insegnamento magisteriale oltre lo stesso Motu Proprio e la sua occasione: la Tradizione liturgica non può essere abrogata. Il Messale con il quale Pio V e poi Giovanni XXIII trasmisero le forme apostoliche e antiche della liturgia rimane nel tesoro della Tradizione come un elemento la cui soppressione fa vacillare la cattolicità della Chiesa. Di qui il senso fondamentale del «mai abrogato» affermato nel Motu Proprio del 2007 e ribadito nella Lettera ai Vescovi. Sotto questo aspetto si potrebbe anche sostenere che la regola indecisa di Benedetto XVI («due usi dell’unico rito romano») trovi nel principio dogmatico deciso e nell’argomentazione teologica che lo avvolge una certa stabilità e logica cattolica. E ciò perché il Novus Ordo può giustificarsi come forma del Rito romano solo se si colloca nella continuità (che per molti deve ancora essere provata) della Tradizione liturgica. Se si toglie il «mai abrogato», il nuovo Messale è destinato a divenire irreparabilmente un testo di rottura, al di là di ogni considerazione di merito sulla riforma del 1970.

Anche il Legislatore del Motu Proprio Traditionis Custodes decide e lo fa scopertamente nell’art. 1 del documento, mentre le norme degli scarni otto articoli successivi sono meramente funzionali alla ferrea esecuzione della decisione: «I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano». Apparentemente questa decisione si limita a decidere in superficie la regola indecisa di Benedetto XVI scempiando i «due usi dell’unico rito romano». Ma, più in profondità, diventa evidente che proprio questa operazione, se si segue la logica di Ratzinger, isola il Novus Ordo e lo separa dal principio dogmatico della Tradizione liturgica che, come si può facilmente constatare, automaticamente scompare dal testo di Traditionis Custodes, lasciando un mero ordine positivo senza fondamento o fondato nella mera volontà del legislatore. Pertanto, disapplicare pacificamente e ordinatamente Traditionis Custodes significa da oggi per vescovi e sacerdoti continuare a celebrare sulla roccia di Pietro e della Chiesa. Un atto di obbedienza al Papa e alla Chiesa di Cristo.

A. S.

lunedì 12 luglio 2021

"Stiamo attenti a non essere i protestanti della Tradizione". Alcune significative considerazioni di Don Alberto Secci sulla tentazione neotradizionalista

Karolina Larusdottir - La Processione
Dopo avere presentato i caratteri propri del fenomeno eterodosso del neotradizionalismo (vedi
qui) che sta inquinando le acque del movimento cattolico fedele alla Tradizione della Chiesa e dopo aver analizzato un articolo di Aldo Maria Valli in cui è affermata la fine della gerarchia cattolica insieme alla “Chiesa colata a picco” che l’Autore, già allievo del Cardinal Martini, vorrebbe sostituire con una nuova chiesa spirituale e “poco visibile” (vedi qui), abbiamo trovato nella rete un interessante intervento di don Alberto Secci che poco più di un anno fa metteva in guardia i cattolici tradizionali dalla tentazione di una Chiesa spiritualizzata, senza gerarchia, e perciò facilmente dimentica dell’Incarnazione e del Verbo incarnato che, prima di ascendere in cielo, mandò Pietro e gli Apostoli affinché lo rappresentassero vicariamente sulla terra nell’Ordnung e nell’Ortung - nell’“ordinamento” e nella “dislocazione”, secondo l’azzeccata concettualizzazione del canonista Hans Barion – della Chiesa da Lui fondata. Come è noto, don Alberto Secci è sacerdote fedele alla Tradizione che, dando coerente esecuzione al principio, stabilito da Benedetto XVI, dell’impossibilità di abrogare la Tradizione liturgica, regge da anni la comunità della chiesa di Vocogno in Val Vigezzo (vedi qui). Riportiamo qui di seguito la trascrizione delle osservazioni di don Alberto, con qualche modifica non sostanziale per favorire la lettura (qui invece il video).

La domanda di T. S. Eliot sull’ateismo moderno 

Nei Cori da La Rocca (vedi qui il testo inglese) il grande scrittore Thomas S. Eliot fa risuonare questa domanda: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?». Eliot, contemplando l’ateismo dei nostri tempi, dei tempi moderni, dice che «hanno abbandonato Dio per nessun Dio». Ma la causa sta nella Chiesa o nell’umanità? È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità? Tutt’e due. E nella Chiesa in che modo si è abbandonata l’umanità? Semplicemente con la protestantizzazione del Cristianesimo. Non cogliendo più il Cristianesimo nella sua interezza. L’eresia è sempre una riduzione. La Chiesa ha abbandonato l’umanità quando la Chiesa si è protestantizzata. Ma allora dobbiamo andare avanti chiedendoci: che cos’è il Protestantesimo?

L’Incarnazione come discrimine fra Cattolicesimo e Protestantesimo 

Che cos’è questa differenza tra il Cattolicesimo e il Protestantesimo? C’è un bel capitolo del libro di Davies (vedi qui, qui e qui) sulla riforma liturgica anglicana intitolato “Cattolicesimo, religione dell’incarnazione”. E prendo da questo capitolo una citazione del grande Newman. Il Cardinal Newman a un certo punto dice che se gli avessero domandato di scegliere una dottrina come base della nostra fede, avrebbe risposto: «Io direi che, per quanto mi riguarda, l’Incarnazione è al cuore del Cristianesimo», cioè che il Verbo si fa uomo, che Dio si fa uomo, «l’Incarnazione è al cuore del Cristianesimo. È di là che procedono tre aspetti essenziali del suo insegnamento: il sacramentale, il gerarchico e l’ascetico», tutte tre gli aspetti. 

I tre aspetti discendenti dall’Incarnazione: sacramentale, gerarchico e ascetico 

Sarò brevissimo. Discendono dall’Incarnazione i tre aspetti del Cristianesimo: sacramentale, gerarchico, ascetico. Allora dobbiamo stare attenti, noi che ci sentiamo chiamati a difendere la Tradizione, o che comunque riconosciamo il Cattolicesimo compiuto come quello della Tradizione, dobbiamo stare attenti a non spiritualizzare questa ricerca della Tradizione. Occorre riconoscere che dall’Incarnazione di Cristo, dall’incarnazione di Dio, discendono i tre aspetti. Il sacramentale: e facciamo bene a difendere l’integrità dei sacramenti. Il gerarchico: non possiamo essere dei rivoluzionari nella Chiesa, e dobbiamo riconoscere che la Chiesa è visibile e che ha una gerarchia, anche quando la gerarchia non esercita pienamente la sua autorità; noi siamo in una crisi così: ci sono vescovi che non fanno i vescovi, ci sono preti che non fanno i preti, ci può essere il Papa che non sempre esercita con coraggio il mandato petrino, ma nonostante questo occorre riconoscere l’aspetto gerarchico. Come anche bisogna riconoscere l’aspetto ascetico: non è perché la Chiesa è in crisi, che io non debba farmi santo, che io non debba rinunciare al peccato, e non debba domandare la grazia di una vera conversione, e lavorare faticando, perché questa conversione avvenga in me, soprattutto in me, oltre a pregare perché avvenga negli altri e nella Chiesa tutta. Stiamo attenti allora a non ridurre in senso protestantico la lotta per la Tradizione, a non essere i protestanti della Tradizione. 

Non possiamo rifugiarci in una chiesa spirituale. Il pericolo della protestantizzazione 

No, noi riconosciamo che l’Incarnazione è il dogma fondamentale e che da questo discendono i tre aspetti: sacramentale, gerarchico e ascetico. Per essere cattolici è necessario che questi tre aspetti siano presenti. Questo non vuol dire non denunciare la crisi. Si denuncia la crisi del sacramentale, quando i sacramenti sono contraffatti e non si lavora perché le persone li ricevano secondo le condizioni che portano frutto. Si denuncia la crisi della gerarchia dove chi ha un posto di comando come pastore non lo esercita o si assoggetta alla cultura dominante (e questo è drammatico!). Di fronte al lassismo, per cui c’è la crisi dell’aspetto ascetico, noi non possiamo rifugiarci in una chiesa spirituale. La Chiesa è una sola ed è quella che vediamo! Tutto ciò dipende dall’Incarnazione, ma è questo che ci fa cattolici. I cattolici non possono fuggire dal visibile, dall’incontrabile, da un’obbedienza evidente alla Chiesa. Stiamo attenti, perché il Protestantesimo combattuto, uscito dalla porta, rientra dalla finestra, se non vigiliamo. Tutto questo può aprire mille domande, può far soffrire, ma a ciò non possiamo rinunciare, perché così rinunceremmo al Cattolicesimo stesso. Pensiamoci bene, facciamoci guidare da Maria Santissima in questa vigilanza. Sia lodato Gesù Cristo!

venerdì 9 luglio 2021

Naufragio della barca della Chiesa e nascita della nuova comunità. Analisi di un recente articolo di A. M. Valli

Lucas Cranach il Giovane, La vera e la falsa chiesa (1546) 
Su questo sito, nel tentativo di descrivere il “neotradizionalismo” come passaggio da un’essenza a un’altra - da una galassia di gruppi e individui che negli anni del post-concilio si sono mantenuti insistentemente fedeli alla Tradizione della Chiesa, rimanendo nella costituzione divina della stessa, a un movimento che, nei suoi risultati, appare sempre più una teologia della liberazione giocata “a destra” - si sono recentemente individuati (vedi qui) tre passaggi fondamentali: la negazione della Chiesa visibile, la riduzione dell’ordine ecclesiastico all’organizzazione del gruppo di riferimento e l’impostazione politico-apocalittica culminante nella malcelata elevazione dell’azione politica a “grande sacramento” di liberazione

L’articolo di Aldo Maria Valli Mentre il papa è all’ospedale… comparso il 7 luglio sul blog del vaticanista (vedi qui) si presta, per le sorprendenti affermazioni ivi contenute, a una verifica della fattispecie di “neotradizionalista” individuata. Nei giorni della degenza di Francesco, Valli si dedica, infatti, “per analogia” (sic!), a una ricognizione dello “stato comatoso” della Chiesa cattolica, facendo seguire una serie di preoccupate constatazioni che sono alla portata di qualunque cattolico che abbia conservato sufficiente ortodossia e capacità di giudizio. E fin qui si può concedere all’articolista di non avere torto. Poi, però, si precipita in una serie di affermazioni che corrispondono perfettamente al primo elemento di fattispecie del neotradizionalismo ossia nella negazione della Chiesa visibile. Tutto in un crescendo, anzi: in un irrefrenabile sprofondamento in un abisso che si potrebbe facilmente dire luterano.

Valli premette che «naturalmente la Chiesa, che è di Cristo, non può finire», concedendo qualcosa al dogma della natura divina della Chiesa, ma aggiunge subito che «è finita la Chiesa così come l’abbiamo intesa e vissuta finora» e che «la Chiesa che sta rinascendo non ha nulla da spartire con la gerarchia [sic!] e le conferenze episcopali e le congregazioni della curia romana», perché «quella barca ha fatto naufragio ed è colata a picco [sic!]». E, come si legge più oltre, «di certo, sappiamo che l’autorità papale, già minata, ha ricevuto con questo pontificato un colpo mortale». Come Lutero nella Predica del 29 giugno 1522 su Mt 16, 13-19, il Vaticanista si assume l’autorità di pronunciare la sentenza di annientamento della Chiesa come «l’abbiamo intesa e vissuta finora» e di revocare così le parole di Cristo in Mt 16, 18: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa». Si dirà che siamo di fronte a un’iperbole o a una provocazione giornalistica, ma tale è il significato dell’articolo per chi legge, e d’altronde è lo stesso Valli che dichiara di avere abbandonato la finzione distopica dei suoi scritti precedenti. E tutto ciò è aggravato dall’esplicito riferimento al rovinoso naufragio della “barca”. L’immagine della “barca” di Pietro che cola a picco non ha bisogno di mediazioni culturali, si diffonde tra i fedeli smarriti e spaventati con il suo potere simbolico, come certi spettri che entrano in circolazione appena che se ne faccia il nome.

Ecco, dunque il punto zero in cui, tuttavia, «la Chiesa, che è di Cristo, non può finire». È il momento della nascita della nuova comunità “evangelica” di riferimento, il momento del secondo elemento di fattispecie del neotradizionalismo. Anche qui l’analogia con la visione luterana non può essere trascurata. Già in Lutero e, poi, in molti esegeti luterani e protestanti, c’è l’idea che, dopo la morte di Pietro, il potere delle chiavi sia passato non a un successore di Pietro, ma all’intera comunità che detiene così un illimitato potere di riforma della costituzione della Chiesa per volontà di Cristo stesso e nello Spirito Santo. Si possono confrontare con questo modello alcune affermazioni di Valli, a ridosso dell’annientamento della Chiesa “come l’abbiamo intesa e vissuta finora” e della sua gerarchia. È la nuova comunità nascente sotto l’impulso dello Spirito Santo, lontano dal primo esperimento fallito:
La Chiesa che rinasce, sostenuta dallo Spirito, è un miracolo di fede: spes contra spem, segno di contraddizione totale nel rapporto col mondo. Una Chiesa, mi scuso per il termine, un po’ guerrigliera, perché non inquadrata, spesso non visibile. C’è, ma si vede poco o per nulla, e nemmeno vuol farsi vedere. Tiene accesa la fiammella in modi che sono allo stesso tempo antichi e nuovi. Coniuga la Tradizione con l’inventiva che nasce dall’amore. Guarda con sconforto ai documenti ufficiali, alle linee e ai piani pastorali. Anzi, ignora tutto ciò perché sa che da lì può venire, ormai, solo un attentato alla fede. Poiché ha sete di Verità, va direttamente alla fonte dell’acqua che dà la vita e si riunisce attorno ai pochissimi pastori rimasti. A loro volta nascosti e perseguitati.

Nella nuova comunità teorizzata da Valli dobbiamo «lasciare tutto ciò che conoscevamo ed entrare in una dimensione nuova, all’insegna della piccolezza, del nascondimento e della persecuzione». Non è evidentemente più la Chiesa cattolica, la “societas permixta” agostiniana, ma la comunità della purezza neotradizionalista contrapposta alla Babilonia romana. La Chiesa qui è tanto spirituale, “invisibile”, “piccola” e “nascosta” che, nonostante le premesse, sembra poter fare a meno non soltanto del Vicario di Cristo sulla terra, ma anche del Verbo incarnato, dell’Incarnazione. E, non senza qualche preoccupazione, c’è da chiedersi da dove realmente proceda lo “spirito” che la sospinge.


Il terzo elemento della fattispecie è meno accentuato che, per es., nella predicazione “triaria” del Professor Massimo Viglione, alla cui sfera di influenza culturale d’altronde Valli non si è sottratto, anche se si può facilmente constatare che non manca la dimensione apocalittica. Apparentemente è assente la politica come “grande sacramento” di liberazione, almeno per ora. Ciò nondimeno si deve osservare che Valli accenna a una possibilità militante della comunità nascosta: «Ho smesso di essere cattolico “regolare” e sono diventato “guerrigliero”». La conformazione esterna di questa “guerrilla” non è ancora definita, anche se è destino delle comunità religiose pure, senza apparato e gerarchia, cercare in una struttura politica mondana ciò a cui, per essere “più spirituali”, hanno rinunciato.


Andrea Sandri

domenica 4 luglio 2021

L'enigma Viganò. Una breve risposta a Maria Guarini

Poiché un breve articolo di Maria Guarini a proposito di un terzo scritto di Roberto de Mattei sulla questione di Monsignor Viganò (qui, qui) sembra rispondere anche ad alcune considerazioni recentemente espresse in questo sito (vedi qui), appare opportuno formulare qui di seguito qualche osservazione. 

Innanzitutto si constata con soddisfazione che l’Autrice ammette l’emergere, nei discorsi di Monsignor Viganò, di alcuni connotati di ciò che è stato definito “neotradizionalismo” ossia di un fenomeno che si allontana essenzialmente dal movimento di fedeltà alla Tradizione cattolica in Italia e nel mondo nel corso di cinquant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II e dalla approvazione del Nuovo Messale Romano da parte di Paolo VI. Scrive infatti significativamente Maria Guarini:

Ora non nego che certe accentuazioni di Mons. Viganò sulla politica vadano mitigate e che esse non debbano mai prendere il sopravvento sull'insegnamento e sulla parenesi. Così come non nego che altrettanto mitigate debbano essere certe espressioni nei confronti del papa.

Resta tuttavia problematica l’affermazione secondo cui «l’Arcivescovo Viganò rifugg[e] dalle tribune di qualunque genere», se soltanto si considera che Monsignor Viganò ha inviato, in maniera del tutto irrituale per un vescovo cattolico, più messaggi personali al presidente dei Triarii, Massimo Viglione, affinché li rendesse noti sulla sua pagina Facebook, e che ha partecipato al Festival di Filosofia di Venezia del 30 maggio 2021 (si veda qui il contesto), facendo precedere questa sua adesione da un messaggio pubblico di incoraggiamento alla Confederazione dei Triarii, ente esponenziale delle tendenze “neotradizionaliste” in Italia e co-organizzatrice dello stesso evento. 

Certamente queste collaborazioni non consentono da sole di affermare che Monsignor Viganò sia attualmente inserito in una associazione od organizzazione ben definita. Ma Maria Guarini nel sostenere che si assiste, accanto al tentativo di delegittimare l’Arcivescovo, «al tentativo di normalizzarlo da parte del resto del mondo della Tradizione che lo vede a capo di un fantomatico fronte organizzato “di resistenza antimodernista e antimondialista” che non esiste», dimentica di riferire che questa affermazione è stata fatta energicamente da don Curzio Nitoglia durante un'intervista su Visione TV nella quale il Sacerdote (anch'egli presente al Convegno di Venezia e a molte trasmissioni di Triarii TV) sembra fare intendere di rappresentare in qualche modo Monsignor Viganò “diffamato da Roberto de Mattei”. Non si può evitare di pensare che l’Arcivescovo, come ha prontamente smentito le dichiarazioni di de Mattei sul suo “doppio” o “ghost writer”, avrebbe potuto con altrettanta solerzia e molto opportunamente smentire don Curzio che lo descrive come “il capo” di una “associazione” denominata “Resistenza antimodernista e antimondialista”.

Rimane da osservare che quello che Guarini chiama “il tentativo di normalizzare” Monsignor Viganò non è altro che l’auspicio che egli possa uscire dal proprio enigma e scendere in questa “valle di lacrime” per divenire concretamente un vescovo della Tradizione cattolica in mezzo a un concreto popolo cattolico, lontano dalla tentazione neotradizionalista. Poiché la Chiesa ha una costituzione divinamente rivelata, una Pietra posta da Cristo senza la quale il Cattolicesimo non sarebbe più che un sistema di pensiero a disposizione degli interpreti e delle ermeneutiche di destra e sinistra come qualsiasi hegelismo, e ha dislocazioni nelle quali è legittimamente attuata ogni missione (il canonista Hans Barion, un severo critico dell'ultimo Concilio, si spingeva a parlare di "Ordnung e Ortung" della Chiesa), il succedersi in rete, da spazio “remoto”, dei messaggi di Monsignor Viganò quasi rivolti a una "diocesi universale", mentre contemporaneamente dichiara che «chi presiede la Chiesa è marionetta nelle mani del burattinaio», non può che destare preoccupazioni.  (A. S.)