lunedì 21 novembre 2016

La fine dell'Università. Avvedute considerazioni di Roger Scruton sull'utilità e il danno dell'accademia per la nostra società


Il grande giurista spagnolo Álvaro d'Ors sostiene che l'Università si regge sulla costante osservanza del principio secondo cui "pregunta quién puede, responde quién sabe". A ben vedere la crisi del sapere universitario in Italia e in Occidente sta proprio nell'avere corrotto in vari modi questo equilibrio per cui chi ha tutta l'autorità non deve avere alcun potere e chi ha tutto il potere non ha alcuna autorità. I politici che salgono in cattedra dinnanzi a professori compiaciutamente abdicatari o i professori che intraprendono disinvoltamente la carriera politica dimenticandosi del proprio status appartengono alla cronaca di tutti giorni e completano oggi un'opera di distruzione della tradizione del sapere iniziata con la rivolta studentesca ossia con la sedizione di un potere di domandare che iniziò a disprezzare programmaticamente le risposte. A mo' di riflessione sulla condizione attuale dell'accademia e sulle eventuali vie d'uscita o di congedo proponiamo qui di seguito, nella traduzione di Matteo Luini, un interessantissimo saggio di Rogen Scruton sulla Fine dell'Università (qui la versione originale in inglese)

Le università esistono per fornire agli studenti le conoscenze, le abilità e la cultura che li preparerà per la vita, nel frattempo aumentando il capitale intellettuale dal quale dipendiamo tutti. Evidentemente i due obiettivi sono distinti. L'uno riguarda la crescita dell'individuo, l'altro il nostro comune bisogno di conoscenza. Ma sono anche connessi, così che il danno fatto ad uno è anche danno procurato all'altro. Questo è ciò che vediamo ora che le nostre università si rivoltano sempre più contro la cultura che le ha create, togliendola ai giovani.

Gli anni passati all'università si legano ai riti di iniziazione studiati dagli antropologi vittoriani nei quali coloro che sono nati in una tribù si assumono il fardello di perpetuarla. Mi pare che, qualora si perda di vista ciò, ci sia il pericolo di sganciare l'università dal suo obiettivo morale e sociale, che è quello di gestire sia una base di conoscenze sia la cultura che permette di comprenderne il senso.

Questa finalità è stata centrale per la tradizione educativa che ha creato la civiltà occidentale. La paideia greca guardava alla coltivazione della cittadinanza come al cuore del curriculum. La pratica religiosa e l'educazione morale rimasero parte fondamentale degli studi universitari per tutto il Medioevo e l'ideale rinascimentale del virtuoso [in italiano nel testo] fu l'ispirazione per il curriculum emergente degli studia humaniores. L' università che emerse dall'illuminismo non allentò le redini morali ma vide lo studio come un modo di vita disciplinato, le cui regole e procedure lo astraevano dalla quotidianità. Forniva comunque agli affari quotidiani la prospettiva a lungo termine senza la quale nessuna attività umana ha davvero senso. Perfino la movimentata vita studentesca delle università tedesche durante il XIX secolo, quando il duello divenne parte della cultura accademica, era contenuta entro codici formali di comportamento e nel ristretto ambito intimità universitario, essendo mirata a creare quella peculiare sintesi di disciplina morale, conoscenza fattuale e competenza culturale che i tedeschi chiamano Bildung.

Durante il corso del XIX secolo, comunque, le università sperimentarono un rapido cambiamento nella loro percezione presso il pubblico. Il declino della vita religiosa, la crescita della classe media desiderosa di status sociale e potere politico, e l'aumento delle conoscenze e abilità richieste da un'economia industriale premettero sulle università affinché cambiassero il proprio curriculum, il reclutamento di studenti ed insegnanti, e la loro relazione alla cultura circostante. Nuove università vennero fondate in Gran Bretagna ed in America, una di esse, l’University College of London, dal 1826, con un curriculum esplicitamente secolare, progettato per creare menti scientifiche che avrebbero spazzato via le ragnatele teologiche nelle quali tutti gli insegnamenti universitari erano fino allora costretti.

Nonostante questi cambiamenti, che forzarono le istituzioni educative ad adottare una nuova coscienza della loro missione, l'università mantenne il suo ruolo di guardiano dell'alta cultura. Era un luogo dove pensiero speculativo, ricerca critica, e lo studio di lingue e libri importanti venivano tutti mantenuti in un'atmosfera isolatamente studiosa. Quando il Cardinal Newman scrisse nel 1852 The idea of an University, lo fece largamente per supportare il vecchio concetto di università come un luogo a parte, un'impostazione quasi monastica opposta alla mentalità utilitarista della nuova società manifatturiera. Per Newman, l'università esisteva per formare i caratteri di coloro che vi andavano. Immergendo gli studenti in un ambiente unito, e imprimendo in essi l'ideale di una mente educata, aiutava a trasformare grezzi esseri umani in gentiluomini.

Questa, diceva Newman implicitamente, è la vera funzione sociale dell'università. Entro le mura del college si fornisce all'adolescente una visione dei fini della vita; ed egli riceve dall'università l'unica cosa che il mondo non dà, cioè una comprensione del valore intrinseco delle cose. E questo è il motivo per cui l'università è così importante in un epoca di commerci e industrie, quando la tentazione utilitarista ci assedia da ogni lato, e quando siamo nel pericolo di rendere materiale ogni scopo - in altre parole, come disse Newman, nel pericolo di lasciare che i mezzi fagocitino i fini.

Molto è cambiato dai tempi di Newman. Affermare che le università producono gentiluomini è più che vagamente ridicolo in un'epoca nella quale la maggior parte dei discenti sono donne. L'università ideale di Newman era modellata su quelle reali di Oxford, Cambridge, e sul Trinity College di Dublino, che all'epoca ammettevano solo uomini, non permettevano ai professori residenti di sposarsi, ed erano gestite come istituzioni quasi religiose entro la Chiesa d’Inghilterra. I loro studenti venivano presi principalmente da scuole private, ed il loro curriculum era solidamente basato su greco, latino, teologia e matematica. La vita privata di costoro ruotava attorno al college, dove sia i docenti che gli studenti risiedevano e dove cenavano ogni sera nel salone, avvolti nelle loro vesti accademiche.

Solo una piccola parte di studenti delle università dei tempi di Newman vedevano lo studio come il vero scopo di essere all'alma mater. Alcuni erano là per giocare a rugby o a canottaggio; alcuni stavano ingannando il tempo in attesa di ereditare un titolo; altri sarebbero stati reclutati nell'esercito, e nel frattempo facevano il diavolo a quattro coi loro compagni. Quasi tutti erano membri di una elite sociale che utilizzava questo metodo unico per perpetuarsi, coprendo il proprio potere con una patina di alta cultura. Ed in questo ambiente protetto e meraviglioso si poteva prendere la cultura seriamente. Con denaro in banca e tempo libero non era così difficile voltare la schiena all'impostazione utilitaristica.

L'università attuale differisce da quella di Newman in quasi ogni aspetto. Recluta da ogni strato della società, è aperta sia a uomini che a donne, e spesso è finanziata e servita dallo stato. Poco e nulla rimane della peculiare vita quotidiana che aveva dato forma all'anima di Newman, ed il curriculum è incentrato non su materie sublimi e senza scopo come il greco antico, dove spira una visione di una vita oltre il commercio, ma su scienze, discipline vocazionali, e sugli oramai onnipresenti business studies, attraverso i quali si suppone che gli studenti imparino le vie del mondo.

Inoltre, le università si sono espanse fino ad offrire i loro servizi ad una porzione sempre crescente della popolazione, e quindi assorbendo un sempre maggiore ammontare del budget nazionale. Nello stato del Massacchusetts, l'educazione universitaria fa più profitti di qualunque industria. C'è almeno un ateneo in ogni città principale inglese o americana, ed un'università statale americana può avere anche più di 50.000 studenti. L'educazione superiore viene fornita come diritto a tutti coloro che passano l’esame di baccalaureat in Francia o il tedesco Festtellungprufung, e sembra che i politici europei non considerino la riforma dell'educazione completa fino a quando ogni bambino non diventi un laureato, a tempo debito. L'università non si incarica più di creare una elite sociale, ma, all’opposto, di assicurarsi che le elite siano una cosa del passato.

Sotto la pretesa di fornire uno "scopo oltre lo scopo", potrebbero dire i suoi critici, l'università descritta da Newman era fatta per proteggere i privilegi di una classe superiore e nel mettere ostacoli all'avanzata dei suoi concorrenti. Insegnava abilità futili, che erano stimate precisamente per la loro futilità, dato che questo le rendeva una medaglia di affiliazione che solo pochi potevano permettersi. Non faceva avanzare la conoscenza, invece esisteva per salvaguardare i miti sacri: erigeva un muro incantato protettivo attorno alla religione, ai valori sociali ed alla cultura elevata del passato, e fingeva che le abilità recondite richieste per godere di questa magia, ad esempio latino e greco, fossero la forma più alta di conoscenza. In breve, l'università newmaniana era uno strumento che perpetuava una classe oziosa. La cultura che trasmetteva non era proprietà di tutta la comunità ma un mero strumento ideologico, attraverso il quale il potere ed i privilegi dell'ordine esistente venivano affermati con l'aura della legittimità.

Ora all'opposto abbiamo università dedicate alla crescita della conoscenza, che non sono meramente non-elitiste ma apertamente anti-elitiste nella loro struttura sociale. Non fanno alcuna discriminazione basandosi sulla religione, sesso, razza o classe. Sono luoghi di ricerca aperta, luoghi senza dogmatismo, il cui scopo è di far avanzare il sapere attraverso uno spirito di libera ricerca. Questo spirito viene comunicato agli studenti, che hanno la più ampia gamma di scelta possibile nei curricula  e quindi di acquisire conoscenze che non sono solamente solide ma anche estremamente utili nella loro vita futura: gestione aziendale ad esempio, direzione alberghiera, o relazioni internazionali. In breve, le università si sono evolute da club socialmente esclusivi, dedicati allo studio di preziose futilità, a centri di addestramento socialmente inclusivi, dedicati alla propagazione di abilità necessarie. E la cultura che forniscono non è quella di una elite privilegiata ma è tipica di una "cultura inclusiva" che tutti possono acquisire e godere.

Detto ciò, comunque, un visitatore di una università americana contemporanea è più probabile che venga colpito dalle molteplici censure piuttosto che dall'atmosfera di libera ricerca. E' vero che gli americani vivono in una società tollerante. Ma colà crescono anche dei vigili guardiani, intenti a notare e a estirpare i primi segni di "pregiudizio" tra i giovani. E questi guardiani hanno una tendenza innata a gravitare attorno alle università, dove la stessa libertà dei curricula e l'apertura alle innovazioni forniscono loro un'opportunità per esercitare la loro passione censoria. Libri sono inseriti o tolti dalle bibliografie sulla base della loro conformità politica; codici di linguaggio e servizi di consulenza controllano le espressioni ed il pensiero; i corsi sono costruiti in modo da instillare la conformità ideologica; gli studenti sono spesso penalizzati per aver tratto delle conclusioni eretiche circa le questioni più scottanti del giorno. In aree sensibili, quali la razza, il sesso, e quella cosa misteriosa chiamata "genere", la censura è apertamente diretta non solo agli studenti ma anche verso un qualsiasi insegnante, anche se imparziale e scrupoloso, che giunga alle conclusioni sbagliate.

Naturalmente, la cultura occidentale rimane l'oggetto primario degli studi umanistici. Tuttavia, l'obiettivo non è quello di instillare quella cultura ma di ripudiarla, esaminarla e trovare tutti i modi in cui pecca contro la visione egualitarista del mondo. La teoria dell'ideologia marxista, o qualche discendente femminista post-strutturalista o foucauldiana della medesima, verrà evocata a riprova del fatto che le preziose conquiste della nostra cultura devono il loro status al potere che parla attraverso di loro, e che quindi non hanno alcun valore intrinseco. Per metterla in altro modo: il vecchio curriculum, che Newman vedeva come un fine in sé stesso, è stato retrocesso a mezzo. Ci viene detto che quel vecchio curriculum esisteva per mantenere le gerarchie e le distinzioni, le forme di esclusione e di dominazione che avevano perpetuato una elite di governo. Gli studi umanistici ora hanno l'obiettivo di provare questo, di mostrare il modo in cui attraverso le sue immagini, storie e credenze, attraverso le sue opere d'arte musicali ed il suo linguaggio, la cultura dell' occidente non ha un significato più profondo del potere che serviva a perpetuare. In questo modo l'intera idea della nostro retaggio culturale inteso come una sfera autonoma di sapere morale, il quale richiede apprendimento, studio, ed immersione affinché possa essere migliorato e mantenuto, viene buttata al vento. L'università, invece di trasmettere cultura, esiste per demolirla, per rimuovere la sua "aura", e per lasciare lo studente, dopo quattro anni di dissipazione intellettuale, con la visione che tutto va bene e nulla importa.

Sorge pertanto l'impressione che, al di fuori delle scienze pure, non ci sia alcun corpo di conoscenze solido, e nulla da imparare se non attitudini dottrinali. In The Closing of the American Mind, Allan Bloom si lamentava del languido relativismo che ha infettato le facoltà umanistiche, quel credo, condiviso da studenti e professori, che non ci sono valori universali, e che si studino semplicemente per curiosità i lavori che sono giunti fino a noi. Se rimaniamo indifferenti alla sfida morale che ci lanciano, è perché crediamo che non esista più una cosa come una sfida morale

.Le osservazioni di Bloom sono corrette, ma non sono tutta la verità. Il relativismo morale spiana la via ad un nuovo tipo di assolutismo. Il curriculum emergente negli studi umanistici è in effetti molto più censurato in materie cruciali di quello che mira a rimpiazzare. Non è più permesso credere che ci siano reali ed insite differenze tra le persone. Tutte le distinzioni sono "costrutti sociali" e pertanto modificabili. E l'obiettivo dei curricula di studio è quello di smontarle, di rimpiazzare le distinzioni con l'eguaglianza in ogni sfera dove la distinzione è stata parte della cultura tramandata. Gli studenti devono credere che in situazioni cruciali, in particolare in quelle materie che toccano il sesso, la razza, i ruoli, le classi, il raffinamento culturale, la civilizzazione occidentale è solo uno strumento ideologico arbitrario, e non certamente (come la sua stessa immagine suggerisce) un deposito di reale sapienza morale. Inoltre, devono accettare che l'obiettivo della loro educazione non è quello di ereditare una cultura ma quello di metterla in dubbio, e se possibile di rimpiazzarla con un nuovo approccio "multiculturale" che non fa distinzioni tra le molte forme di vita dalle quali gli studenti si trovano circondati.

Dubitare di queste posizioni vuol dire commettere il più grave peccato di eresia e minacciare la comunità di cui ha bisogno la moderna università. Questa infatti cerca di rivolgersi a tutti gli studenti indipendentemente da religione, sesso, razza, o retroterra culturale, anche indipendentemente dalle abilità. E' in larga misura una creazione statale ed è totalmente impegnata ad essere ciò che una società dovrebbe essere secondo lo stato: ossia una società senza distinzioni. Pertanto dipende dalla credenza nell'uguaglianza tanto quanto l'università di Newman dipendeva dalla credenza in Dio. Il suo scopo è quello di creare un microcosmo della società futura, esattamente come il college del Cardinale Newman era un microcosmo del mondo dei gentiluomini. E dato che la nostra cultura ereditata è un sistema di distinzioni, in opposizione all'uguaglianza in ogni ambito dove il gusto, il giudizio, e il discernimento sono all'opera, l'università moderna non ha altra scelta se non quella di porsi all'opposto della cultura occidentale.

Di conseguenza, nonostante la loro innata aspirazione all'appartenenza, nelle università viene detto ai giovani che essi vengono dal nulla e appartengono a niente: che tutte le preesistenti forme di appartenenza sono vuote ed inesistenti. Viene loro offerto un rito di passaggio nel nulla culturale, perché questo è l'unico modo per raggiungere l'obiettivo egualitario. Gli vengono dati, al posto delle vecchie credenze di una civiltà basata sul giudizio e sulla distinzione, i nuovi convincimenti di una società basata sull'uguaglianza e l'inclusione; viene loro detto che il giudizio di altri stili di vita è un crimine. Se l'obiettivo fosse solo quello di sostituire un sistema di credenze con un altro, si sarebbe aperti al dibattito razionale. Ma qui lo scopo è quello di sostituire una comunità con un'altra.

Ma qual è l'alternativa? Se le università non diffondono la cultura che una volte era loro affidata, dove possono andarla a cercare i giovani? Alcuni pensieri in risposta alla questione si possono trarre da un'esperienza che per me iniziò nel 1979. Gli scritti di Foucault, Deluze e Bourdieu stavano iniziando a smuovere le acque all'Università di Londra dove insegnavo. Ai miei studenti veniva detto sempre che non esisteva il sapere nell'area umanistica, e che le università esistono non per giustificare la cultura come una forma di conoscenza ma per smascherarla come una forma di potere.

In risposta mi chiesi che cosa e perché stessi esattamente cercando di insegnare. Avvicinando gli studenti ai grandi lavori della filosofia, della letteratura, ed agli studiosi che avevo assorbito a scuola ed all'università, sentivo di fornir loro il quadro di riferimento, i ragionamenti, i paradigmi di allusioni e analisi, attraverso i quali comprendere il loro mondo. Stavo offrendo loro appartenenza ad una cultura, non come corpo dottrinale ma come una conversazione continuativa. E questo, sentivo, era una forma di reale conoscenza: non conoscenza di fatti e teorie, ma conoscenza di cosa sentire, come relazionarsi, ed a chi appartenere. Tuttavia questo corpo di conoscenza, come lo pensavo io, veniva scartato quale ideologia borghese o, nell'espressione di Foucault, come episteme, il savoir accumulato di una determinata classe.

Un giorno mi arrivò un invito, oralmente, ad intervenire ad un seminario clandestino a Praga. Accettai, e, di conseguenza, venni messo in contatto con persone per le quali il perseguimento di cultura e conoscenze non era un lusso superfluo ma una necessità. Null'altro poteva fornire loro ciò che cercavano, cioè una via di fuga dal mondo di bugie in cui vivevano. E, poiché discutevano fra loro l'eredità culturale dell’Occidente, venivano segnati come eretici, e rischiavano così la prigione semplicemente per incontrarsi come facevano. Per una sorta di ironia, forse il maggior risultato del partito comunista fu quello di convincere le persone che la distinzione platonica tra conoscenza ed opinione è valida, e che l'opinione ideologica non è solamente distinta dalla conoscenza ma nemica della conoscenza, una malattia inserita nel cervello umano che lo rende incapace di distinguere le idee vere dalle false. Tale era la malattia diffusa dal Partito. Ed era diffusa anche da Foucault. Perché fu costui ad insegnare ai miei colleghi a valutare ogni idea, ogni posizione, ogni istituzione, convenzione o tradizione in base alla "dominazione" che essa maschera. Verità e falsità non avevano nessun reale significato nel mondo di Foucault, tutto ciò che contava era il potere.

Questi temi sono stati portati in superficie bruscamente, per i cechi e gli slovacchi, dal lavoro di Vaclav Havel The Power of the Powerless (1978), che stimolava i propri compatrioti a "vivere nella verità". Ma come potevano farlo, se non riuscivano a distinguere il vero dal falso? E come potevano distinguere il vero dal falso senza il beneficio di una vera cultura ed un vero sapere? Per questo la ricerca di quelle cose era diventata urgente. Ed il prezzo di quella ricerca era alto: indagini, arresti, privazione di diritti e privilegi ordinari, ed una vita ai margini della società. Quando qualche cosa ha un alto prezzo morale, solo persone determinate la perseguiranno. Ho pertanto trovato, nei seminari clandestini, un corpo studentesco unico: persone dedicate alla conoscenza, come la intendevo io, e consapevoli della facilità e del pericolo di sostituire il sapere alle semplici opinioni. Inoltre, stavano cercando la conoscenza nel posto nel quale è più necessaria ed al contempo più difficile da trovare: filosofia, storia, arte, letteratura, in posti dove l'unica nostra guida è l' intuizione dei critici e non il metodo scientifico. E ciò che era più interessante per me era il forte desiderio in tutti i miei discenti di acquisire ciò che gli era stato tramandato. Erano cresciuti in un mondo dove ogni tipo di appartenenza, a parte quella al partito e al governo, era o marginalizzata o denunciata come reato. Capivano istintivamente che un’eredità culturale è preziosa, esattamente perché offre un rito di passaggio in ciò che si è realmente e la comunanza di sentimenti che è propria.

Un'altra caratteristica dei seminari clandestini era che le loro risorse intellettuali erano rare. Gli studiosi in Occidente sono obbligati a pubblicare articoli e libri se vogliono progredire nella loro carriera, e negli anni dopo la seconda guerra mondiale questo ha portato ad una proliferazione di letteratura che, se non sempre di secondo grado dal punto di vista intellettuale, è stata quasi invariabilmente senza meriti letterari: pedante, carica di note a piè di pagina, senza immaginazione o stile retorico, tanto effimera nel contenuto quanto imprescindibile. Il peso di questa pseudo-letteratura opprime sia gli insegnanti che gli studenti delle facoltà umanistiche, ed ora è totalmente impossibile scoprire i classici che sono sepolti sotto di essa.

A volte penso che il più grande servizio alla nostra cultura sia quello reso dalla persona che appiccò il fuoco alla Biblioteca di Alessandria, facendo in modo così che nulla di quel corpus letterario sopravvivesse, se non quei lavori considerati talmente preziosi che ciascuna persona colta ne aveva una copia in casa. I comunisti fecero qualcosa di simile alla vita intellettuale in Cecoslovacchia, impedendo la pubblicazione di qualunque cosa; venivano pubblicati quei lavori considerati così preziosi per i quali la gente era preparata a stamparli in pericolosi samizdat. Questi ultimi venivano passati di mano in mano e letti con profondo interesse da persone per le quali il sapere, non l'avanzamento di carriera, era l' obiettivo. Ciò era davvero rinfrescante, dopo la vita passata tra riviste accademiche e note a piè di pagina!

Naturalmente, le circostanze proprie dei seminari clandestini erano inusuali e nessuno vorrebbe riproporle oggi. Comunque, durante i dieci anni di lavoro assieme ad altri per trasformare questi gruppi di lettura privati in un' università (clandestina ma) strutturata, ho imparato due verità molto importanti. La prima: un'eredità culturale è in realtà un corpo di conoscenze e non una raccolta di opinioni, conoscenza del cuore umano e della visione di lungo termine di una comunità umana. La seconda è che questo sapere può essere insegnato, e questo certamente non richiede un grande investimento, certamente non i 50.000 $ annui per studente richiesti da una università della Ivy League. Richiede una manciata di libri che hanno superato la prova del tempo e che sono apprezzati da tutti coloro che li studiano veramente. Richiede insegnanti competenti e studenti desiderosi di acquisire quella conoscenza. E richiede il continuo tentativo di esprimere ciò che si è appreso, o in temi o in incontri faccia a faccia con gli studiosi. Tutto il resto - amministrazione, tecnologie informatiche, sale conferenze, biblioteche, risorse extracurriculari - sono, al confronto, un lusso insignificante.

Quando le istituzioni sono irrimediabilmente corrotte, come lo erano le università sotto il bolscevismo, occorre ricominciare, anche se il costo dovesse essere alto come nell'Europa conquistata dai sovietici. Per noi il costo non è così alto. Il dono più prezioso della nostra civiltà, e che è stato più fortemente minacciato durante il ventesimo secolo, è la libertà di associazione. Questo diritto esiste tuttora, e in nessun luogo più che in America, e per questo il fatto che non possiamo più affidare la nostra alta cultura alle università importa meno. Il destino di Yale ed Harvard desta indubbiamente la preoccupazione generale; ma ci sono anche posti come il St. John College di Annapolis oppure lo Hillsdale College in Michigan, dove persone che credono ancora nel vecchio curriculum sono pronte a insegnarlo. Ci sono gruppi di lettura privati, corsi online, associazioni di studiosi, gruppi di pressione e serie di conferenze pubbliche. Ci sono istituzioni come lo Intercollegiate Studies Institute, che offre un servizio di soccorso agli studenti schiacciati dal politicamente corretto. Ci sono riviste come questa, che servono come punto focale per delle discussioni che, dopotutto, non hanno bisogno di una università per aver luogo. Mi sembra che ci siamo lasciati intimidire dall'idea che le università hanno biblioteche, laboratori, professori e sostanziali finanziamenti, per cui devono essere anche indispensabili ricettacoli di sapere. Questo è vero nelle scienze. Ma non è più vero nelle materie umanistiche.

Però la via in avanti non è così chiara come i difensori del vecchio curriculum vorrebbero che fosse. Programmi sui Grandi Libri, mappe della nostra eredità culturale, lo studio comparato dell'arte, della musica e dell'architettura occidentale: tutte queste sono scelte ovvie. Ma perché? Cos'è che distingue questi programmi dai corsi sulla musica pop, sui fumetti, e sugli studi sul "genere", che li rimpiazzano così facilmente? Dire che il curriculum tradizionale contiene conoscenza vera e non distrazioni effimere è solo un temporeggiare. Perché non sappiamo in che cosa consista realmente il sapere. Lo sentiamo, certamente, come i miei studenti cecoslovacchi lo sentivano. Sentiamo il richiamo di una cultura che è nostra, e vogliamo dire che, nel rispondere a questa chiamata, stiamo lasciando il mondo delle opinioni ed entrando nel mondo della conoscenza. Ma perché?

Oggi si versa tra risposte banali (come quando Matthew Arnolds ci dice, in Culture and Anarchy, che un'alta cultura consiste del "meglio che è stato pensato e detto") e qualche versione della posizione illuminista secondo cui la conoscenza culturale comporta far trascendere il particolare nell'universale, rimpiazzando le nostre ristrette lealtà e comunità immaginarie con qualche ideale cosmopolita. E da questa posizione illuminista il passo è breve verso il curriculum multiculturale ed egualitario che sposa l'universale umano solo perché ogni cosa relativa ad una vera eredità intellettuale è stata estirpata da esso. Fino a quando non troviamo qualcosa di meglio di questi due approcci, sospetto che non sfuggiremo alla morsa delle università, né ci sentiremo abbastanza fiduciosi per iniziare ex novo senza di loro.

martedì 1 novembre 2016

Lutero, Francesco e gli altri. Alcune note a margine dell'incontro di Lund

Quella di Lutero fu un’eresia medioevale che, nonostante le pretese dei suoi nemici e di chi si rifà ancora al suo nome, non sopravvisse al suo tempo. Se si vogliono tracciare le coordinate che individuano la posizione teologica di Lutero bisogna ripercorrere da un canto gli sviluppi della tarda scolastica verso la concezione nominalistica rispetto agli universali – verso l’opinione secondo cui la realtà è costituita assolutamente dalla volontà divina e non può essere indagata se non convenzionalmente dall’uomo: le essenze non sono che nomina per chiamare cose di cui l’uomo non può ultimamente conoscere la ragione – e dall’altro le tappe della reazione anticuriale in Francia e, soprattutto, in Germania, quando, per soddisfare le pretese di dominio di Ludovico il Bavaro, teologi e filosofi come Guglielmo da Ockham e Marsilio da Padova teorizzarono la perfetta autonomia del potere temporale dal potere spirituale del Papa. Mentre il nominalismo contribuiva a disgiungere l’incerta conoscenza umana e il diritto naturale, che su di essa si fonda, dalla lex aeterna, il pensiero politico anticuriale fondava su quella disgiunzione, secondo un modello non meno volontaristico, l’autonomia del potere terreno. Secondo un’allegoria fisiologica diffusa a quel tempo la Chiesa, come latesta, pensava, e il Principe, a mo’ del cuore, voleva e dava propulsione e vita al proprio regno in tutta indipendenza dalla funzione spirituale della Chiesa.

Lutero prima della propria ordinazione sacerdotale aveva meditato l’Expositio canonis missae di Gabriel Biel (1408-1495) nella quale questo autore, che fu teologo e predicatore a Erfurt e a Magonza, uomo pio e apologeta del dovere di subordinazione al Pontefice, interpreta le parole del Te igitur ("Una cum famulo tuo Papa nostro N. et antiste nostro N. et rege nostro") affermando sì, con Ockham e la lezione anticuriale, che il Papa e il re sono ciascuno princeps nel proprio ambito, ma aggiungendo che i due poteri, pur reciprocamente autonomi, sono luci nel firmamento della Chiesa - intesa qui agostinianamente quest'ultima più come universale congegatio fidelium che come potere organizzato giuridicamente. Proprio l'unità superiore che sovrasta e raccoglie in sé le potestà, spirituale e terrena, giustifica i loro reciproci doveri - così il regno deve prestare assistenza alla potestà spirituale e questa, secondo un modello antico ricorrente nei Padri, è obbligata alla preghiera per il regno. Come si vede il rigido dualismo della politica di Ockham è conciliato da Biel con una visione che, da un lato, si lascia ricondurre all'equilibrio già individuato a più riprese da San Tommaso d’Aquino nei suoi scritti, e, dall'altro, opera una rilevante variazione di significato all'interno di quello stesso equilibrio. Infatti il teologo tedesco non soltanto ristabilisce un rapporto di reciprocità, anche se non di subordinazione, tra i due poteri, bensì riassegna al potere terreno uno scopo trascendente che è mediato dalla appartenenza alla universale comunità dei fedeli e si traduce nel campeggiare della luce naturale nel firmamento della Chiesa. Ma è sul concetto stesso di Chiesa, in quanto elemento dell'unità soteriologica che si compie nell'imperium spirituale e si spezza nella discessio dei regni da esso, che Biel, per restare fedele allo schema di Ockham, deve prendere congedo dall'Aquinate - mentre infatti quest'ultimo indica, proprio nel senso della continuità dell'Imperium romanum, la Chiesa romana con a capo il Papa come struttura in cui si realizza l’auctoritas e l'attuazione catechontica della fede e rispetto alla quale può avvenire la discessio dei regni, per Biel ecclesia è l'agostiniana comunità dei santi orientata al compimento della civitas dei, la congregatio fidelium di cui sono parti tanto il potere spirituale quanto i regni terreni, e dalla quale entrambi possono secedere.

La Expositio canonis missae nel tentativo di neutralizzare in un'unità superiore la contrapposizione tra regni e Chiesa romana insinua in realtà un preoccupante elemento di instabilità nel momento in cui sullo sfondo del firmamento della Chiesa, che è totalità e mediazione di entrambi i poteri, riconosce al potere spirituale il diritto, "supernaturaliter et specialiter" conferito da Cristo, di comunicare la grazia attraverso i sacramenti e la cura delle anime e, di conseguenza, di esercitare lo ius excomunicandi. La rappresentazione esteticamente armoniosa del firmamento di Biel appare così contenere i presupposti della propria catastrofe - perché, se si accetta l'idea che la Chiesa romana è unica mediatrice in terra della grazia e della fede in Cristo, allora tutta la realtà universale della congregatio fidelium è qui riassunta nella cattolicità romana, e se, invece, si sostiene che la mediazione è tutta nel firmamento, il potere spirituale non può che ridursi a segno esteriore e relativo di una comunione in Cristo la quale lo sovrasta e lo comprende infinitamente - e diventare, se si vuole rimanere nell'immagine di Biel, una stella quasi spenta. Mentre la prima attribuzione di significato porta evidentemente all'equilibrio sostenuto da San Tommaso e, in fondo, alla stessa concezione di Biel che immaginava ancora il rapporto fra congregatio fidelium e Chiesa romana alla stregua di un'unità dialettica, la seconda allude invece a una svolta radicale e a una rottura con la Tradizione.

Proprio all'interno dei problemi posti dalle tesi di Biel bisogna cercare l'inizio del pensiero teologico, ecclesiologico e politico di Martin Lutero. Il possibile significato antiromano dell'Expositio dovette rivelarsi a Lutero durante la disputa sulle indulgenze, laddove la distinzione tra congregatio fidelium e potere spirituale può costituire un argomento per negare l’autorità del Pontefice e della gerarchia ecclesiastica quanto alla interpretazione delle Sacre Scritture e alla remissione dei peccati.

Notoriamente la lettura antiromana dell’Expositio di Biel fu la via eletta da Lutero che negò al Papa ogni giurisdizione sulle anime (il potere delle chiavi) che non fosse legata al diritto canonico. Ogni successiva posizione teologica e politica di Lutero può essere compresa nel contesto della riduzione della mediazione della grazia al cielo della universale congregatio fidelium retto da Cristo. Così finalmente poté affermare, dissolvendo la Cristianità medioevale, l’immediatezza del potere dei principi a Cristo (“unmittelbar zu Gott”), ridefinire, in base alla stessa immediatezza applicata all’individuo, in senso soggettivo il concetto di fede, sostenere coerentemente la natura meramente amministrativa dell’istituzione ecclesiastica cui naturaliter era assegnato a capo il principe, indicare la lettura della Scrittura all’interno delle mura di quella stessa istituzione come grande sacramento rispetto al quale dissolvono ben cinque sacramenti e altri due sono conservati in maniera instabile: il battesimo come segno esterno di una conversione in fondo già avvenuta per opera di Cristo (di qui la difficoltà protestante ad accettare il battesimo degli infanti nonostante l’insegnamento esplicito di Lutero) e l’eucarestia come sacramento della misericordia rispetto al quale la confessione dovette apparire uno scandaloso pleonasmo inventato dal Papa per conoscere i peccati dei cristiani (l’idea di una cena della misericordia non è infrequente nella teologia “cattolica” odierna).

Non ci sono motivi per dubitare che l’Unmittelbarkeit del rapporto tra individuo e Dio si iscriva ancora, per Lutero e i fautori della rivoluzione protestante, in un sistema della trascendenza di Dio. Tale immediatezza può ancora essere letta, soprattutto per quanto riguarda il teologo di Erfurt, secondo le categorie della mistica eckhartiana, impoverita però quest’ultima della auctoritas della Chiesa che aspettava e giudicava con giusto discernimento le parole del mistico di ritorno dalla sua unione immediata con la Trinità (o pretesa tale). Tuttavia proprio la negazione di una giurisdizione sulla fede e la fatale inclinazione a ridurre quest’ultima all’esperienza individuale introdusse una instabilità che si risolse, approssimativamente nel giro di un secolo, in una comprensione soggettiva – in senso letterale perché il soggetto si muta in orizzonte ultimo del cristianesimo – e trascendentale (non trascendente) della fede. Ha così origine il pensiero moderno, trascendentale e non trascendente, come comprensione dell’uomo, del mondo e di Dio essenzialmente distinta dalla teologia di Lutero che è ancora medioevale pur nel grave errore professato.

Non è un caso che la congregatio fidelium convocata da Cristo ossia la stessa “chiesa universale”, che Lutero e i primi fautori della Riforma pongono a fondamento trascendente del mondo morale, si ripresenti nei secoli in versioni che corrispondono allo sviluppo filosofico dell’io e della ragione umana autonoma, dell’Unmittelbarkeit dell’uomo a se stesso, e che possono essere riassunte nei singoli passaggi rappresentanti, a ben vedere, le scansioni della filosofia e della giurisprudenza moderna: veritas lex naturalis, veritas lex rationalis, veritas noumenon, veritas spiritus, veritas jus, veritas factum e, infine, veritas ipsa voluntas. Tra l’idea ancora agostiniana e medioevale per la quale veritas divina lux - e alla quale i mistici renani, gli scolastici nominalisti del XIV secolo e lo stesso Lutero non sono estranei – e l’asserzione assolutizzante secondo cui veritas lex naturalis si apre un abisso che coincide con la stessa inconciliabilità tra trascendenza di Dio e dominio trascendentale della ragione. Secondo percorsi complessi, che rasentano il paradosso borgesiano, levatrice di questo salto abissale verso il pensiero moderno fu proprio la seconda scolastica ultimamente impegnata nella battaglia post-tridentina contro le tesi di Lutero. In particolare nell’opera di Francisco de Vitoria, gli anni della cui vita terrena coincidono pressappoco con quelli dell’inventore del servum arbitrium, ma già nei commenti alla Summa di San Tommaso stilati dal Cardinal Caetano e da Domingo de Soto e più tardi nella scolastica suareziana, la lex naturalis tende a neutralizzarsi, a porsi in una condizione di relativa autonomia rispetto al radicamento trinitario in cui San Tommaso l’aveva riconosciuta. Emerge così la lex naturalis come sistema del diritto internazionale nell’epoca delle scoperte geografiche e del disfacimento della Cristianità medioevale causato dalla stessa eresia luterana. Non può stupire il fatto che la fondazione della Società delle Nazioni e quindi delle Nazioni Unite sia stata accompagnata da un continuato revival delle dottrine vitoriane, e che la statua di de Vitoria, e non quella di Lutero, sia collocata dinnanzi alla sede dell’Onu a New York. Come in campo riformato la congregatio fidelium, nella quale si attua irrazionalmente la fede in Cristo, degrada vieppiù, per la sua instabilità, in un regno morale dove la ragione (la grande “puttana” contro la quale inveisce Lutero) riprende dominio nella forma del razionalismo più radicale, in campo post-tridentino la “chiesa universale” si estende ai confini esterni della lex naturalis equivocamente disgiunta dalla partecipazione alla lex aeterna che esige l’atto sovrannaturale di assenso della fede: ancora razionalismo. Nell’etiam si Deus non daretur del protestante Ugo Grozio, la cui venerazione per de Vitoria è provata, confluiscono in un unico fiume, quello del pensiero moderno, le due correnti, e si annunciano le fasi successive che sfociano nel mare apertamente anticristiano della veritas ipsa voluntas. La lettura evolutiva, formalizzata in tempi recenti dal professor Plinio Corrêa de Oliveira e ripresa da più autori, secondo la quale non vi sarebbe alcuna soluzione di continuità tra Lutero e la Rivoluzione francese è, almeno in parte, fuorviante, e vela gli inizi cinquecenteschi della profonda crisi moderna della Chiesa cattolica e del mondo.

Mentre il fiume del pensiero moderno, con la sua sostanza razionalistica, immanentistica e trascendentalista, è divenuto per lo più la dottrina ufficiale delle facoltà teologiche protestanti soprattutto in Germania dove il nome di Lutero è stato il marchio di fabbrica per diffondere, di volta in volta, sotto le false spoglie di Dio, le scansioni dell’io, della ragione illuminista, del noumeno kantiano, del sentimento religioso di Schleiermacher, dello spirito hegeliano e del soggetto dell’etica mondiale delle più recenti scuole teologiche, è continuato a scorrere in maniera carsica nella teologia cattolica insinuandosi nei dubia e nelle soluzioni dei commentatori moderni (gesuiti e non) di San Tommaso e attraverso una mai assopita accondiscendenza verso uno stile cartesiano che si manifesta nella sistematicità dei trattati di teologia ed emerge in maniera preoccupante con la codificazione del Diritto canonico cui fa pendant l’infallibilismo ovvero una lettura sovranista che si è impossessata del dogma dell’infallibilità sfigurando terribilmente il papato e facendone una funzione della veritas ipsa voluntas. Durante il Concilio Vaticano II il fiume esce da ogni canale sotterraneo e confluisce, sotto il sole, nel bacino della dichiarazione Nostra Aetate sulle “relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane” nella quale l’impostazione neutralizzante di de Vitoria e del razionalismo successivo è sostanza evidente sia delle premesse:

Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino; 

come delle conclusioni:

Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne promanano.

L’indifferenza compulsiva con cui nel post-concilio le case editrici cattoliche ufficiali e accreditate presero a pubblicare nelle stesse collane le opere di de Lubac, Theilard de Chardin, Rahner, Küng, Marxsen, Vorgrimler, Lehmann, Metz, Tillich, Schillebeeks, Auer, Häring, Käsemann, Schnackenburg, Schoonenberg, Schweizer, Bultmann, Bonhoeffer, Gogarten, Hulsbosch, testimonia il sorgere di una “nuova patristica” (così all’incirca si espresse Cornelio Fabro) i cui preamboli non sono né luterani né cattolici ma semplicemente razionalistici e moderni. Anche la riforma liturgica, che è di sovente attribuita alla piaggeria conciliare verso i protestanti, sembra piuttosto corrispondere, in maniera assai più profonda e grave, come è stato puntualmente dimostrato dal padre oratoriano canadese Jonathan Robinson nel suo libro The Mass and Modernity (Ignatius Press, San Francisco 2005; it.: Messa e modernità, Cantagalli, Siena 2010), alle esigenze acquisite alla gerarchia cattolica di un pensiero dell’immanenza e dell’io trascendentale.

Nella prospettiva, fin qui delineata, dell’emergenza di un pensiero moderno che ha sin dall’inizio del suo apparire catturato sia la teologia protestante che quella cattolica, e che, seguendo percorsi talora differenti talora di reciproca seppur celata influenza, ha finito per imporsi egualmente in entrambi i campi nella seconda metà del secolo XIX, ci si chiede se veramente l’incontro a Lund tra Francesco e gli esponenti mondiali delle chiese luterane per la celebrazione del cinquecentesimo anniversario della Riforma possa essere criticato come un cedimento della Chiesa cattolica alle tesi luterane originarie sulla fede in Cristo o se piuttosto non si tratti di un convegno di cultori dell’io trascendentale e delle sue possibilità esistenziali (diritti dell’uomo, solidarietà ed etica mondiale) assisi attorno a un monaco medioevale che per zelo amaro e infinita melanconia distrusse la gloriosa chiesa medioevale. La seconda ipotesi, che appare più probabile, è persino più cupa della prima e richiede un più faticoso approfondimento da parte dei cattolici fedeli alla Tradizione.

A.S.