lunedì 30 gennaio 2017

L'Anticristo, la sedizione e la fede. Il cliché di Lutero nei teorici odierni della "neochiesa"

Secondo alcuni autori, quando Martin Lutero nel 1510 giunse nella Roma di Giulio II, provò grande commozione e insieme profondo sdegno per uno spettacolo generale che dovette apparirgli immondo e indegno della religione cristiana. Certamente nell'Ad librum eximii Magistri Nostri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestris Prieratis acerrimi, responsio, ossia nella risposta inviata nel 1521 al teologo e domenicano italiano Ambrosio Catarino intervenuto a sostegno di Silvester Prierias nella confutazione delle 95 Tesi (esiste una traduzione italiana vedi quiqui citiamo, nella nostra traduzione, la Weimarer Ausgabe: WA), Lutero utilizza il topos, non propriamente tradizionale ma diffuso nel Medioevo e rimasto nell'immaginario occidentale, che identifica l'Anticristo con un Papa dei tempi ultimi sulla falsariga di quanto si legge in 2 Tess 2: "L'avversario, che si innalza sopra tutto quello che è chiamato Dio o che è oggetto di venerazione al punto di sedersi egli nel tempio di Dio".
L'identificazione di Leone X, e, nel proseguo della riflessione, di tutti i Papi, con l'Anticristo, costituisce la premessa di due successivi approdi della Responsio, mentre tutt'e tre i passaggi prefigurano sviluppi importanti della teologia luterana e riformata, anche per quel che concerne la dottrina della Fede e della Grazia (sulla formazione della teologia luterana vedi anche il nostro qui).

É importante soffermarsi un poco sulla premessa. Il problema di Lutero nasce dal confronto tra la situazione a lui contemporanea di Roma e della Chiesa, giudicata "un regno di peccato", e la promessa di Cristo: "Et ego dico tibi quia tu es Petrus e super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et portae inferi non prevalebunt". Naturalmente il monaco agostiniano non dubita in alcun modo delle parole del Signore ed è perciò sospinto a ritenere che, se la Chiesa visibile è "una cloaca in cui è incarcerato lo Spirito Santo" (WA, 7, 716), è perché la "petra", sulla quale si vuole fondata sin dal principio la Chiesa di Roma, è un uomo e dunque necessariamente un peccatore, e le "porte dell'inferno prevalgono quando conducono al peccato": "Stet ergo, portas inferi non prevalere adversus neque petram neque Ecclesiam. Portae autem inferi praevalent, quando in peccatum perpellunt" (WA 7, 708).
Lutero allora chiede al Catarino "di ammettere che il Papa, che egli chiam[a] pietra, e coloro che, a lui soggetti nell'amministrazione visibile [sic!], sono edificati su questa pietra e sono chiamati Chiesa, peccano e hanno in qualche modo peccato" (WA 7, 709) oppure di dimostrare il contrario, "perché altrimenti saremo liberi di rifiutare e di giudicare gli statuti, i canoni e tutte le cose del Papa in quanto si sospetterà che esse provengano da Satana piuttosto che dallo Spirito Santo" (WA, 7, 713).
In realtà per Lutero la vera "pietra" su cui Cristo edifica la "sua Chiesa" è il fondamento della congregati fidelium, dunque della comunità di coloro che hanno fede in Cristo, ed è perciò Cristo stesso - infatti la "petra certa" su cui è edificata una "ecclesia certa" (WA 7, 710) è "solamente Cristo" il quale "soltanto è certamente senza peccato e rimane fermo e con lui la sua santa Chiesa nello Spirito" (WA 7, 709).

Se il Papa, da millecinquecento anni (ma nella logica dell'Eresiarca potrebbero essere anche alcuni secoli o pochi decenni), oscura e nasconde il vero fondamento che è Cristo, la sua Chiesa, ed è questo il secondo approdo di Lutero, è necessariamente una realtà capovolta, una chiesa anticristica e una neochiesa rispetto alla vera Chiesa che nascostamente (almeno fino alla Riforma) continua a fondarsi su Cristo. La neochiesa si erge su un uomo peccatore, probabilmente il peggior peccatore - su un corpo corrotto dal peccato che si annuncia al mondo come Vicario di Cristo -, e su un luogo, Roma (WA 7, 720), e ciò in modo tale che "se luogo e persona sono necessari alla salvezza, è conseguenza che coloro che hanno e coltivano quel luogo e quella persona", e non Cristo, "sono salvi e santi".
La subordinazione dell'annuncio del Verbo a un corpo peccatore e a un luogo di peccato - della congregatio fidelium a un'apparizione storica - non è altro, per Lutero, che la configurazione concreta e ben visibile dell'inversione del rapporto tra Verbo e ragione umana la quale sta all'origine della corruzione degli ordinamenti e della loro consegna al dominio del diavolo. Di qui il senso evidente del rifiuto degli "statuti, dei canoni e di tutte le cose del papa", della "giurisdizione romana", dell'interpretazione di chi cambia il "volto" della Scrittura e trasforma la Bibbia in un'opera di maschere ("biblia scenica") affermando in tal modo il proprio dominio, quello degli "scelerata dogmata" e naturalmente quello della Chiesa romana e del suo "idolus romanus"  (WA 7, 714, 716, 720).

Dimostrato il falso fondamento della "neochiesa" romana e la sua natura anticristica, Lutero rivela alla Cristianità la vera "Chiesa di Cristo", fondata da e su Cristo. É questo il terzo approdo della Riforma che prelude alla dottrina luterana sulla giustificazione e alla distruzione dell'ordine della Chiesa e dei Sacramenti. Così la Chiesa, che non può fare a meno dei luoghi e delle persone, non può però fondarsi su un luogo o su una persona bensì soltanto sulla fede in Cristo. É l'eliminazione dell'autorità dal sistema cattolico che cessa di essere tale. La Chiesa, scrive Lutero, "non può essere vista ma soltanto creduta attraverso il segno del Verbo [per signum verbi] che non si può pronunciare se non nella chiesa con l'ausilio dello Spirito Santo [...] infatti Cristo attraverso il verbo vocale distoglie i cristiani dalle cose, dai luoghi e dai corpi e non li conduce alle cose, ai luoghi e ai corpi nei quali si trovano già per propria natura" (WA 7, 722).

Come si vede l'uomo, una volta accettata la premessa della anticristicità della Chiesa visibile, ritenuta sulla scorta della pericolosa confusione tra la persona/corpo del Papa e il suo ufficio (vedi le nostre recenti osservazioni qui), è subito chiamato ad abbandonarla per cercare la vera chiesa e la vera sequela di Cristo occultata dall'usurpatore romano, ed è quindi trascinato nella radura desolata dell'attesa e della sola fede, di un accadere apocalittico che in realtà non è più che una turpe illusione dell'anima smarrita. In questa radura senza autorità e discernimento tutto appare possibile, soprattutto il sogno dell'agognata chiesa autentica, di un luogo ormai estraneo al Cattolicesimo romano.
Questi tre passaggi o approdi rappresentano dunque le fasi necessarie e regolari di un processo che inizia con un'antica tentazione. Probabilmente, se Lutero non avesse pensato l'"Anticristo romano", sarebbe morto cattolico, ed è oggi doloroso fare previsioni sullo sviluppo spirituale di coloro che, nel campo del Tradizione od ormai oltrepassati i suoi consueti confini, si oppongono a ogni possibilità di orientarsi al luogo-Roma e alla Chiesa guidata dal corpo-Francesco nel suo ufficio petrino.

domenica 29 gennaio 2017

"Un coup de tampon" tra Ecône e Roma? Monsignor Fellay oggi ospite di una televisione francese (VIDEO)

Il canale televisivo francese TV Libertés oggi, nel contesto della trasmissione Terres de Mission, ospiterà il superiore generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Il programma verterà sulla situazione dei rapporti della Fraternità con Roma e sulla prelatura personale che è stata offerta dalle autorità romane (vedi qui).

Secondo il comunicato della stessa emittente, Monsignor Bernard Fellay sosterrebbe che "agli accordi con Roma non mancherebbe che l'apposizione del timbro - n’attendent plus qu’un coup de tampon". 

E finalmente è arrivato anche il video della trasmissione: QUI

Ora si tratta di capire in che cassetto è il timbro.

giovedì 26 gennaio 2017

La costanza del Cardinale Burke. Riproponiamo sine glossa un'intervista di Alessandro Gnocchi

Riportiamo qui di seguito l'intervista di Alessandro Gnocchi al Cardinale Raymond Leo Burke pubblicata il 14 ottobre 2014 sul quotidiano il Foglio con il titolo "La fede non si decide ai voti". 

Piace poco o nulla al mondo, il cardinale Raymond Leo Burke. E, se possibile, piace ancora meno alla chiesa che piace al mondo. D’altra parte, questo americano di sessantasei anni di Richland Center, Wisconsin, ha fatto di tutto per riuscire cattolicamente nell’intento di ustionare le coscienze cristiane troppo inclini alla tiepidezza. Partecipa alle marce per la vita, dice che non va data la comunione ai politici che sostengono leggi abortiste, denuncia il rapido progredire dell’agenda omosessualista, fa sapere a papa Francesco che la difesa dei principi non negoziabili non è una moda sottoposta agli umori dei pontefici, sostiene la messa in rito tradizionale. Recentemente ha firmato il libro collettivo “Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica”, scritto in aperta polemica con le misericordiose aperture del cardinale Walter Kasper su famiglia e comunione ai divorziati risposati. Nulla di strano, quindi, se il rimpasto curiale pensato da Bergoglio prevede che, da prefetto della Segnatura Apostolica, ora venga esiliato alla carica di cardinale patrono del Sovrano Ordine di Malta. Ma intanto, al Sinodo sulla famiglia, questo finissimo canonista figlio dell’America rurale ha assunto il ruolo di oppositore, verrebbe da dire di katechon, al cospetto della svolta attribuita, senza smentite, alla mens papale. Come recita l’antica “Bibbia poliglotta” aperta sul leggìo del suo studio alla pagina dell’Ecclesiaste, “Ogni cosa ha il suo tempo (…) c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”.

D. Cosa si vede oltre la cortina mediatica che avvolge il Sinodo? 
R. Emerge una tendenza preoccupante perché alcuni sostengono la possibilità di adottare una prassi che si discosta dalla verità della fede. Anche se dovrebbe essere evidente che non si può procedere in questo senso, molti incoraggiano per esempio pericolose aperture sulla questione della comunione concessa ai divorziati risposati. Non vedo come si possa conciliare il concetto irreformabile dell’indissolubilità del matrimonio con la possibilità di ammettere alla comunione chi vive una situazione irregolare. Qui si mette direttamente in discussione ciò che ci ha detto Nostro Signore quando insegnava che chi divorzia da sua moglie e sposa un’altra donna commette adulterio.

D. Secondo i riformatori questo insegnamento è diventato troppo duro. 
R. Dimenticano che il Signore assicura l’aiuto della grazia a coloro che sono chiamati a vivere il matrimonio. Questo non significa che non ci saranno difficoltà e sofferenze, ma che ci sarà sempre un aiuto divino per affrontarle ed essere fedeli sino alla fine.

D. Sembra che la sua sia una posizione minoritaria… 
R. Qualche giorno fa ho visto una trasmissione in cui il cardinale Kasper ha detto che si sta camminando nella direzione giusta verso le aperture. In poche parole, i 5.700.000 italiani che hanno seguito quella trasmissione, hanno ricavato l’idea che tutto il Sinodo marci su quella linea, che la Chiesa sia sul punto di mutare la sua dottrina sul matrimonio. Ma questo, semplicemente, non è possibile. Molti vescovi intervengono per dire che non si possono ammettere cambiamenti.

D. Però non emerge dal briefing quotidiano della Sala stampa vaticana. Lo ha lamentato anche il cardinale Müller. 
R. Io non so come sia concepito il briefing, ma mi pare che qualcosa non funzioni bene se l’informazione viene manipolata in modo da dare rilievo solo a una tesi invece che riportare fedelmente le varie posizioni esposte. Questo mi preoccupa molto perché un numero consistente di vescovi non accetta le idee di apertura, ma pochi lo sanno. Si parla solo della necessità che la chiesa si apra alle istanze del mondo enunciata a febbraio dal cardinale Kasper. In realtà, la sua tesi sui temi della famiglia e su una nuova disciplina per la comunione ai divorziati risposati non è nuova, è già stata discussa trent’anni fa. Poi da febbraio ha ripreso vigore ed è stata colpevolmente lasciata crescere. Ma tutto questo deve finire perché provoca un grave danno per la fede. Vescovi e sacerdoti mi dicono che ora tanti divorziati risposati chiedono di essere ammessi alla comunione poiché lo vuole Papa Francesco. In realtà, prendo atto che, invece, finora non si è espresso sulla questione.

D. Però sembra evidente che il cardinale Kasper e quanti sono sulla sua linea parlino con il sostegno del Papa.
R. Questo sì. Il Papa ha nominato il cardinale Kasper al Sinodo e ha lasciato che il dibattito proseguisse su questi binari. Ma, come ha detto un altro cardinale, il Papa non si è ancora pronunciato. Io sto aspettando un suo pronunciamento, che può essere solo in continuità con l’insegnamento dato dalla Chiesa in tutta la sua storia. Un insegnamento che non è mai mutato perché non può mutare.

D. Alcuni prelati che sostengono la dottrina tradizionale dicono che se il Papa dovesse portare dei cambiamenti li accetterebbero. Non è una contraddizione?
R. Sì, è una contraddizione, perché il Pontefice è il Vicario di Cristo sulla terra e perciò il primo servitore della verità della fede. Conoscendo l’insegnamento di Cristo, non vedo come si possa deviare da quell’insegnamento con una dichiarazione dottrinale o con una prassi pastorale che ignorino la verità.

D. L’accento posto dal Pontefice sulla misericordia come la più importante, se non l’unica, idea guida della Chiesa, non contribuisce sostenere l’illusione che si possa praticare una pastorale sganciata dalla dottrina?
R. Si diffonde l’idea che possa esistere una Chiesa misericordiosa che non rispetta la verità. Ma mi offende nel profondo l’idea che, fino a oggi, i vescovi e i sacerdoti non sarebbero stati misericordiosi. Io sono cresciuto in una zona rurale degli Stati Uniti e ricordo che, quando ero bambino, nella nostra parrocchia c’era una coppia di una fattoria vicina alla nostra che veniva in chiesa a Messa, ma non faceva mai la comunione. Crescendo, chiesi il perché a mio papà e lui, con naturalezza, mi spiegò che vivevano in una condizione irregolare e accettavano di non accedere alla comunione. Il parroco era molto gentile con loro, molto misericordioso e applicava la sua misericordia nell’operare perché la coppia tornasse a una vita consona alla fede cattolica. Senza verità non può esserci vera misericordia. I miei genitori mi hanno sempre insegnato che, se noi amiamo i peccatori, dobbiamo odiare il peccato e dobbiamo fare di tutto per strappare i peccatori dal male nel quale vivono.

D. Nel suo studio c’è una statua del Sacro Cuore, nella sua cappella, sopra l’altare, c’è un’altra immagine del Cuore di Gesù, il suo motto episcopale è “Secundum Cor Tuum”. Allora, un vescovo può tenere unite misericordia e dottrina… 
R. Sì, è presso la fonte inesauribile e incessante della verità e della carità, cioè dal glorioso trapassato Cuore di Gesù, che il sacerdote trova la sapienza e la forza di guidare il gregge secondo la verità e in carità. Il Curato di Ars definiva il sacerdote come l’amore dal Sacro Cuore di Gesù. Il sacerdote unito al Sacro Cuore non soccomberà alla tentazione di dire al gregge parole diverse da quelle di Cristo indefettibilmente trasmesseci nella Chiesa, non cadrà nella tentazione di sostituire alle parole della sana dottrina un linguaggio confuso e facilmente erroneo.

D. Ma i riformatori sostengono che la carità, per la chiesa, consista nel rincorrere il mondo. 
R. Questo è il cardine dei ragionamenti di chi vuole mutare la dottrina o la disciplina. Mi preoccupa molto. Si dice che i tempi sono tanto cambiati, che non si può più parlare di diritto naturale, dell’indissolubilità del matrimonio… Ma l’uomo non è cambiato, continua a essere come Dio l’ha voluto. Certo, il mondo si è secolarizzato, ma questo è un motivo in più per dire in modo chiaro e forte la verità. E’ nostro dovere, ma per farlo, come ha insegnato San Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae, bisogna chiamare le cose con il loro nome, non possiamo usare un linguaggio quanto meno ambiguo per piacere al mondo.

D. La chiarezza non sembra essere una priorità dei riformatori se, per esempio, non si sentono in contraddizione quando sostengono che i divorziati risposati possono accedere alla comunione a condizione di riconoscere l’indissolubilità del matrimonio. 
R. Se uno ribadisce sinceramente l’indissolubilità del matrimonio può solo rettificare lo stato irregolare nel quale si trova o astenersi dalla comunione. Non ci sono vie di mezzo.

D. Neanche quella del cosiddetto “divorzio ortodosso”? 
R. La prassi ortodossa dell’economia o del secondo o terzo matrimonio penitenziale è storicamente e attualmente molto complessa. In ogni caso, la chiesa cattolica, che sa di questa prassi da secoli, non l’ha mai adottata, in virtù delle parole del Signore ricordate nel Vangelo secondo San Matteo (19, 9). D. Non pensa che, se di dovesse concedere questa apertura, ne seguiranno tante altre? R. Certamente. Ora si dice che questo verrà concesso solo in alcuni casi. Ma chi conosce un po’ gli uomini sa che, quando si cede in un caso, si cede in tutti gli altri. Se verrà ammessa come lecita l’unione tra divorziati risposati, verranno aperte le porte a tutte le unioni che non sono secondo la legge di Dio perché sarà stato eliminato il baluardo concettuale che preserva la buona dottrina e la buona pastorale che ne discende.

D. I riformatori parlano spesso di un Gesù disposto a tollerare il peccato per poter andare incontro agli uomini. Ma era così?
R. Un Gesù simile è un’invenzione che non ha riscontro nei Vangeli. Basti pensare allo scontro con il mondo nel Vangelo di San Giovanni. Gesù è stato il più grande oppositore del suo tempo e lo è anche al tempo di oggi. Penso a quanto disse alla donna sorpresa in flagrante adulterio: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11).

D. Ammettere alla comunione i divorziati risposati mina il sacramento del matrimonio, ma anche quello dell’eucaristia. Non le sembra una deriva che tocca il cuore della chiesa?
R. Nella Prima Lettera ai Corinzi, al capitolo 11, San Paolo insegna che chi riceve l’eucaristia in stato di peccato mangia la propria condanna. Accedere all’eucaristia significa essere in comunione con Cristo, essere conformi a lui. Molti oppongono l’idea che l’eucaristia non è il sacramento dei perfetti, ma questo è un falso argomento. Nessun uomo è perfetto e l’eucaristia è il sacramento di coloro che stanno combattendo per essere perfetti, secondo quando chiede Gesù stesso: di esserlo come il Nostro Padre che è in cielo (Mt 5, 48). Anche chi combatte per raggiungere la perfezione pecca, certo, e se è in stato di peccato mortale non può comunicarsi. Per poterlo fare deve confessare il suo peccato con pentimento e con il proposito di non commetterlo più: questo vale per tutti, compresi i divorziati risposati.

D. Oggi, la partecipazione all’eucaristia non viene quasi più visto come un atto sacramentale, ma come una pratica sociale. Non significa più comunione con Dio, ma accettazione da parte di una comunità. Non sta qui la radice del problema?
R. E’ vero, si sta diffondendo sempre di più questa idea protestante. E non vale solo per i divorziati risposati. Si sente spesso dire che, in momenti particolari come la prima comunione, la cresima dei figli o in occasione dei matrimoni, anche i non cattolici possono essere ammessi all’eucaristia. Ma questo, ancora una volta, è contro la fede, è contro la verità stessa dell’eucaristia.

D. Invece che un dibattito su questi temi, che cosa dovrebbe produrre il Sinodo?
R. Il Sinodo non è un’assemblea democratica dove i vescovi si radunano per cambiare la dottrina cattolica a seconda della maggioranza. Io vorrei che diventasse l’occasione per dare il sostegno dei pastori a tutte le famiglie che intendono vivere al meglio la loro fede e la loro vocazione, per sostenere quegli uomini e quelle donne che, pur tra molte difficoltà, non vogliono staccarsi da ciò che insegna il Vangelo. Questo dovrebbe fare un Sinodo sulla famiglia, invece che perdersi in inutili discussioni su argomenti che non possono essere discussi nel tentativo di cambiare verità che non possono essere cambiate. A mio avviso, sarebbe stato meglio togliere questi temi dal tavolo perché non sono disponibili. Si parli piuttosto di come aiutare i fedeli a vivere la verità del matrimonio. Si parli della formazione dei ragazzi e dei giovani che arrivano al matrimonio senza conoscere gli elementi fondamentali della fede e poi cadono alle prime difficoltà.

D. I riformatori non pensano a quei cattolici che hanno tenuto insieme la loro famiglia anche in situazioni drammatiche rinunciando a rifarsi una vita? 
R. Tante persone che hanno fatto questa fatica mi chiedono ora se hanno sbagliato tutto. Chiedono se hanno buttato via la loro vita tra inutili sacrifici. Non è accettabile tutto questo, è un tradimento.

D. Non pensa che la crisi della morale sia legata alla crisi liturgica?
R. Certamente. Nel postconcilio si è verificata una caduta della vita di fede e della disciplina ecclesiale evidenziata specialmente dalla crisi della liturgia. La liturgia è diventata un’attività antropocentrica, ha finito per rispecchiare le idee dell’uomo invece che il diritto di Dio di essere adorato come Lui stesso chiede. Da qui, discende anche nel campo morale l’attenzione quasi esclusiva ai bisogni e ai desideri degli uomini, invece che a quanto il Creatore ha scritto nei cuori delle creature. La lex orandi è sempre legata alla lex credendi. Se l’uomo non prega bene, allora non crede bene e quindi non si comporta bene. Quando vado a celebrare la Messa tradizionale, per esempio, vedo tante belle famiglie giovani, con tanti bambini. Non credo che queste famiglie non abbiano problemi, ma è evidente che hanno più forza per affrontarli. Tutto questo vorrà pur dire qualcosa. La liturgia è l’espressione più perfetta, più completa della nostra vita in Cristo e quando tutto questo diminuisce o viene tradito ogni aspetto della vita dei fedeli viene ferito.

D. Che cosa può dire un pastore al cattolico che si sente smarrito davanti a questi venti di cambiamento? 
R. I fedeli devono prendere coraggio perché il Signore non abbandonerà mai la sua Chiesa. Pensiamo come il Signore ha placato il mare in tempesta e le sue parole ai discepoli: “Perché avete paura, gente di poca fede?” (Mt 8, 26). Se questo periodo di confusione sembra mettere a rischio la loro fede, devono solo impegnarsi con più forza in una vita veramente cattolica. Ma mi rendo conto che vivere di questi tempi dà una grande sofferenza.

D. Riesce difficile non pensare a un castigo. 
R. Questo lo penso prima di tutto per me stesso. Se io sto soffrendo adesso per la situazione della chiesa, penso che il Signore mi sta dicendo che ho bisogno di una purificazione. E penso anche che, se la sofferenza è così diffusa, ciò significa che c’è una purificazione di cui tutta la Chiesa ha bisogno. Ma ciò non dipende da un Dio che aspetta solo di punirci, dipende dai nostri peccati. Se in qualche modo abbiamo tradito la dottrina, la morale o la liturgia, segue inevitabilmente una sofferenza che ci purifica per riportarci sulla via stretta.

Fonte il Foglio 14 Ottobre 2014

martedì 24 gennaio 2017

Tra notti zelanti e demoni meridiani. Brevissima chiosa alla controreplica di Alessandro Gnocchi a don Angelo Citati

La controreplica di Alessandro Gnocchi all'articolo  con cui don Angelo Citati FSSPX ha risposto al duro attacco dello scrittore alla Fraternità Sacerdotale San Pio X (vedi qui) non si è fatta purtroppo attendere. É stata pubblicata da Riscossa Cristiana con una breve postilla fomentatrice di Paolo Deotto (vedi qui) e subito ripresa, secondo una puntualità che ultimamente non cessa di far pensare, da Radio Spada. Non si vuole qui addentrarsi nei faticosi meandri di una invettiva che serve più a spiegare l'astio apertamente sedizioso verso la Fraternità e la Chiesa cattolica che a rendere gli argomenti addotti; e neppure appare necessario soffermarsi sul lessico e la sintassi dello scritto che fanno pensare alla scrittura luterana, a calami spezzati e a calamai che volano nella notte dello zelo amaro.

Più importante è osservare che qui Gnocchi, proprio a ridosso di una feroce critica dell'opera di Monsignor Schneider e del Cardinal Burke sviluppata nella recentissima polemica, rinfaccia alla Fraternità di essersi identificata con la Tradizione quasi assumendone il monopolio. Se c’è, infatti, una ragione al mondo per pensare, non dico: l’accordo, ma almeno la possibilità dell’accordo con le autorità romane è proprio il fatto che, dopo il Summorum Pontificum, la circonferenza della Tradizione ha iniziato a eccedere abbondantemente quella della FSSPX. Diceva Machiavelli, più con la saggezza mondana del politico che con la più volte asserita virilità del giornalista, che le repubbliche si fanno con gli amici. E in questo caso l’antimachiavellismo, gesuitico o meno, non è un argomento!

Ora il "vecchio Giornalista", che si è lasciato alle spalle la Chiesa visibile "anticristica", la FSSPX e naturalmente gli istituti collaborazionisti dell'Anticristo romano (FSSP, ICRSS, Buon Pastore etc.), dovrebbe fornire ai suoi vecchi e nuovi lettori, affinché gli possano mandare lettere e doni, le coordinate precise della sua chiesa, del suo monastero, della sua grotta, della sua montagnola eremitica, o, almeno, della spoglia radura dell’attesa della Grazia senza opere (e alla lunga senza sacramenti) indicata nella sua precedente lettera “Fuori Moda”. Servirà forse a toglierli l'estrema melanconia dell'hora meridiana.

domenica 22 gennaio 2017

Chi di spada ferisce. Don Angelo Citati FSSPX risponde ad Alessandro Gnocchi

Riprendiamo e pubblichiamo volentieri la risposta apparsa nel sito ufficiale del distretto italiano della FSSPX (vedi qui) a un articolo recentemente apparso su Risposta Cristiana (vedi qui e in seguito qui) in cui Alessandro Gnocchi adotta le pericolose categorie della "neochiesa" nell'affrontare alcuni problemi fondamentali del momento presente. Con l'augurio che questo scritto possa frenare l'errore dilagante tra molti cattolici tradizionalisti.

«Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada»

Rispondendo, in un articolo apparso sul sito «Riscossa Cristiana», ad una sua lettrice che gli domanda cosa pensi di alcune questioni di attualità, tra cui la recente intervista in cui mons. Athanasius Schneider auspica una soluzione canonica per la Fraternità San Pio X, e riprendendo un suo intervento analogo sul medesimo sito del 12 maggio 2016, il 16 gennaio scorso Alessandro Gnocchi, noto giornalista e apologeta cattolico, esprime delle considerazioni dal tono fortemente critico nei confronti della Fraternità. Benché non venga da lui sollecitata una risposta da parte nostra, essendo stati chiamati in causa e con toni decisamente severi, ci sembra utile fornire il nostro punto di vista sui problemi sollevati.

Premettiamo che nutriamo una stima immensa per Alessandro Gnocchi, numerose pubblicazioni del quale sono in vendita nei nostri priorati e nelle nostre cappelle. Ma appunto la stima per questo coraggioso giornalista – e autentico cattolico in quest’epoca di crisi della fede – rende tanto più doloroso leggere oggi, dalla sua penna, righe dettate, così ci sembra, piuttosto da uno zelo amaro fuori luogo che dal profondo senso ecclesiale che lo ha sempre contraddistinto. Uno zelo, cioè, mosso senz’altro dalle migliori intenzioni e dall’amore sincero per la Chiesa di Gesù Cristo, ma che scade nel disfattismo e nel livore, un po’ come lo zelo che spinse l’apostolo Pietro a tagliare l’orecchio del servo del sommo sacerdote Malco (Gv 18,10-11) per difendere, ma intempestivamente, Nostro Signore.

Al centro delle critiche di Gnocchi è quello che nel cappello introduttivo al suo articolo viene definito «il prevedibile accordo della Fraternità San Pio X con Roma» e che invece le autorità della Fraternità sottolineano essere solo un’eventualità, e cioè quella – si noti peraltro come il termine «accordo» appartenga quasi sempre al lessico dei suoi denigratori o dei fautori di un compromesso dottrinale – di un riconoscimento canonico della Fraternità senza controparti dottrinali da parte della Santa Sede. Anzi, a dire il vero – e questo aspetto, taciuto nell’articolo, non è affatto ininfluente per esprimere un giudizio sulla questione – è proprio la Santa Sede ad aver manifestato (pur avendo appurato, dopo i colloqui dottrinali, le sostanziali divergenze) la sua intenzione di voler regolarizzare la situazione canonica della Fraternità, e non il contrario. Ciò che, in questo contesto, mons. Fellay ha risposto alle iniziative delle autorità romane, è semplicemente che, se l’inquadramento canonico profilato dalla Santa Sede dovesse davvero corrispondere – nelle parole come nei fatti – a quello che mons. Lefebvre ha sempre auspicato, e se nessuna controparte dottrinale venisse richiesta, allora la cosa si farà. In caso contrario, no. E ha aggiunto che personalmente, vista l’imprevedibilità dell’attuale Pontefice, non è assolutamente in grado di prevedere se questo avverrà realmente o no. L’unica stima che ha azzardato è che le discussioni si protrarranno ancora per diverso tempo, in quanto entrambe le parti vogliono che siano condotte senza nessuna fretta[1]. Lo scopo di questa tabella di marcia a velocità limitata è evitare ogni equivoco, mettere con chiarezza tutte le carte in tavola, permettere alle autorità vaticane di capire cosa intende realmente la Fraternità quando chiede di essere riconosciuta senza controparti dottrinali e senza modificare nulla della sua vita concreta. Questo emerge da tutte le dichiarazioni recenti, ufficiali e private, di mons. Fellay.

Una delle prime cose che colpisce nella ricostruzione dei fatti di Gnocchi è che i fatti stessi vengono presentati, nei toni come nei contenuti, in modo del tutto diverso da come essi risultano dalle fonti ufficiali. Tutto quanto fin qui descritto, infatti, secondo Gnocchi equivale tout court a voler «buttarsi nelle mani di Bergoglio e della chiesa anticristica che il vescovo di Roma rappresenta […]. Entrando in pompa magna nella neochiesa bergogliana, gli eredi di monsignor Marcel Lefebvre porterebbero processionalmente l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno»; si tratterebbe di un «abbraccio contronatura tra chi ha fatto della difesa della fede cattolica la propria ragione di vita e chi invece vede la sua missione nella distruzione della fede cattolica». Sull’inopportunità dei toni non ci attarderemo a lungo: facciamo solo notare che questo linguaggio ricorda molto di più quello dei sedevacantisti – i quali appunto in Jorge Mario Bergoglio null’altro vedono se non il rappresentante di una «neochiesa anticristica» – che quello, talvolta tagliente ma mai irrispettoso, di mons. Lefebvre, che pure Gnocchi onora di ogni sorta di elogi, e della Fraternità San Pio X, alla quale pure riconosce di rappresentare – no, si corregge subito, di «aver rappresentato una fase importante nella vita della Tradizione e quindi della Chiesa» (se ci sapesse segnalare un solo punto sul quale la Fraternità avrebbe modificato la sua critica all’orientamento conciliare e postconciliare così da non rappresentare più un punto di riferimento nella vita della Tradizione, gliene saremmo grati). No, i toni li lasceremo da parte perché senz’altro sono dovuti, in parte, anche all’inevitabile verve giornalistica. Molto di più ci meravigliano invece – e rattristano – i contenuti di queste affermazioni.

Dal momento che agli occhi di Gnocchi l’attuale condotta della Fraternità nei confronti del Pontefice regnante – non ce ne voglia se, da imperdonabili tradizionalisti quali siamo, agli epiteti anticristici preferiamo ancora l’espressione tradizionale – rappresenterebbe un tradimento della linea di mons. Lefebvre, non sarà inutile ricordare qui qual era, a questo riguardo, la posizione di mons. Lefebvre. E per evitare di «attribuire il nostro pensiero a una persona morta che non può più dire la sua», procedimento «truffaldino» e «intellettualmente misero» (sic) che Gnocchi rimprovera a mons. Schneider, lasceremo la parola a mons. Lefebvre stesso, che nella sua vita si è espresso più volte su questo argomento.

A più riprese e nell’arco di tutta la parabola ascendente della crisi nella Chiesa, mons. Lefebvre ha mantenuto i contatti con le autorità ufficiali della Chiesa, cercando di ottenere un riconoscimento canonico per la Fraternità. E questo anche nei punti più intensi della crisi.

Fin dall’inizio, nel 1970, ha considerato questa approvazione ufficiale della Chiesa addirittura come il segno sine qua non che la sua Fraternità era voluta da Dio. Questo riconoscimento arrivava in un momento in cui il Concilio si era già concluso da qualche anno, la crisi era già cominciata, documenti che mons. Lefebvre considerava contrari alla Tradizione erano già stati avallati nell’aula conciliare, Paolo VI aveva già pronunciato il noto discorso in cui celebrava la «simpatia immensa per il mondo» che aveva pervaso il Concilio, il nuovo messale era appena entrato in vigore. E arrivava peraltro da un vescovo (mons. Charrière) non di orientamento tradizionale, ma allineato alle novità conciliari (sebbene a tinte conservatrici). Eppure mons. Lefebvre non ha detto: «Non voglio buttarmi nelle mani di Charrière e di Montini. Entrando nella neochiesa montiniana, porterei l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno», bensì: «La Fraternità è un’opera di Chiesa. Quanto a me, avrei avuto in orrore l’idea di fondare qualcosa senza l’approvazione di un vescovo. Doveva essere un’opera di Chiesa»[2].

Il 6 maggio 1975 mons. Mamie, successore di mons. Charrière, con un procedimento di dubbia validità sul piano canonico, ritirò l’approvazione del suo predecessore sopprimendo così la Fraternità San Pio X. Come reagì mons. Lefebvre? Ha detto forse: «Non voglio buttarmi nelle mani di Mamie e di Montini. Rientrando nella neochiesa montiniana, porterei l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno»? No: «La risposta di mons. Lefebvre è triplice: il magnifico pellegrinaggio a Roma organizzato dall’associazione Credo alla Pentecoste di quest’anno santo e presieduto da mons. Lefebvre circondato da tutto il suo seminario, mostrando così il loro attaccamento alla Roma di sempre; poi una lettera di sottomissione al successore di Pietro, scritta ad Albano il 31 maggio, che includeva una supplica di riesame del suo processo; e infine un ricorso al tribunale della Segnatura apostolica contro la decisione di mons. Mamie, depositato il 5 giugno»[3].

Il 29 giugno 1976 Paolo VI lo sospese a divinis. Alla fine dell’omelia della prima Messa pubblica dopo la sospensione, a Lille il 29 agosto successivo, davanti a settemila persone mons. Lefebvre delineava la soluzione dei suoi dissapori con la Santa Sede non già stigmatizzandola come «l’abbraccio contronatura tra chi ha fatto della difesa della fede cattolica la propria ragione di vita e chi invece vede la sua missione nella distruzione della fede cattolica», bensì in termini da cui traluce tutt’altra ponderatezza:

«Se solo ciascun vescovo nella sua diocesi mettesse a disposizione dei fedeli cattolici legati alla Tradizione una chiesa, dicendo: “Questa chiesa è per voi”, che immensi benefici ne trarrebbero [...]! Quando si pensa che il Vescovo di Lille ha dato una chiesa ai musulmani, non vedo perché non ci potrebbe essere una chiesa per i cattolici legati alla Tradizione. E, in definitiva, la questione sarebbe risolta. Ed è quello che domanderei al Santo Padre, se accetterà di ricevermi: “Ci lasci fare, Santità, l’esperienza della Tradizione. In mezzo a tutte le esperienze che si fanno attualmente, che ci sia almeno l’esperienza di ciò che è stato fatto per venti secoli!».

E l’11 settembre successivo, ricevuto da Paolo VI, gli ripeterà la stessa supplica: «Santo Padre […], lei ha la soluzione tra le mani. Non deve fare altro che dire una sola parola ai vescovi: “Accogliete con comprensione questi gruppi di fedeli che tengono alla Tradizione, alla Messa, ai sacramenti, al catechismo di sempre; date loro dei luoghi di culto”. Questo gruppi saranno la Chiesa, vi troverete delle vocazioni, sarà la parte migliore della Chiesa. I Vescovi lo riconosceranno. Lasci il mio seminario. Mi lasci fare l’esperienza della Tradizione. Voglio senz’altro entrare in relazioni normali con la Santa Sede, attraverso una commissione che Lei potrebbe nominare, che verrebbe in seminario. Ma, evidentemente, noi conserveremo e vogliamo continuare l’esperienza della Tradizione»[4].

Gnocchi interpreta il fatto che mons. Fellay accetti di discutere con papa Francesco e saluti in termini positivi, seppure con qualche riserva, certe sue aperture verso la Fraternità, come il segno che il Superiore della Fraternità San Pio X abbia abboccato all’«esca gettata da Bergoglio» (così scriveva nell’articolo del maggio 2016). A questo genere di obiezioni mons. Lefebvre, in realtà, aveva già risposto ante litteram nel 1977: «Cosa bisogna fare nei confronti delle persone che occupano i posti di autorità? Chiuderci nella nostra resistenza come in una torre d’avorio? Oppure cercare di convincere le autorità romane? Io non ho assunto la posizione di rompere il dialogo con Roma»; e nel 1978: «Voglio mantenere questa atmosfera psicologica che permette delle relazioni facili; non mi si potrà mai accusare di aver avuto un atteggiamento insolente nei confronti del Santo Padre»[5].

Si leggano ora queste parole: «Sono in circolazione dei pamphlet contro di me. Io sarei un traditore e un Pilato perché discuto con Roma e domando al Papa: “Lasci fare la Tradizione” […]. Il solo scopo dei miei tentativi a Roma è di cercare di abbattere il muro che ci rinchiude e far sì che migliaia di anime si salvino perché avranno la grazia della vera Messa, dei veri sacramenti, del vero catechismo e della vera Bibbia. È per questo che vado a Roma e non esito a recarmici ogni volta che mi si domanda di andarci […]. Se fossimo almeno tollerati, sarebbe già un notevole vantaggio; molti sacerdoti tornerebbero alla Messa, molti fedeli verrebbero alla Tradizione». Si direbbero le parole di mons. Fellay per difendersi dalle accuse degli esponenti della cosiddetta «resistenza» di oggi: e invece sono parole di mons. Lefebvre[6] contro la «resistenza» di allora (1979).

Il 18 novembre 1978, appena un mese dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, mons. Lefebvre si recò in udienza da lui a perorare la stessa causa. Nel corso degli anni successivi del suo pontificato ha continuato ad operare nella stessa direzione. Non ha detto: «Non voglio buttarmi nelle mani di Wojtyla. Entrando nella neochiesa wojtyliana, porterei l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno», bensì: «Oggi noi dobbiamo pregare in modo del tutto speciale per il nostro riconoscimento ufficiale, perché potete immaginare come saremmo numerosi qui, se non fossimo più perseguitati da certi membri della santa Chiesa: non cinquemila, seimila, ma ventimila, cinquantamila persone approfitterebbero delle grazie che Dio ci concede, mentre ora esse sono assetate, perdono la fede, sono smarrite, abbandonate. Così noi dobbiamo pensare a tutte quelle anime e quindi desiderare che cessino le persecuzioni ingiuste di cui siamo oggetto»[7].

Finanche nel 1987, cioè un anno dopo lo scandalo di Assisi, arrivò a proporre alla Santa Sede un progetto di riconoscimento canonico sul modello dell’Ordinariato militare istituito dal Papa poco tempo prima. A Ecône fece suonare il Te Deum in occasione della visita del cardinal Gagnon, e in una lettera al Papa del 20 febbraio 1988, lungi dal definire l’idea di un riconoscimento canonico della Fraternità come quella di un «abbraccio contronatura tra chi ha fatto della difesa della fede cattolica la propria ragione di vita e chi invece vede la sua missione nella distruzione della fede cattolica», riassumeva invece ancora una volta la sua posizione in questi termini: «Saremmo felicissimi di riallacciare relazioni normali con la Santa Sede, ma senza cambiare una virgola di quello che siamo; perché è così che siamo sicuri di rimanere figli di Dio e della Chiesa romana»[8]. Il 5 maggio 1988 appose la sua firma al celebre protocollo d’accordo propostogli dal cardinale Ratzinger, che poi tuttavia, essendo state disattese alcune delle condizioni che mons. Lefebvre considerava imprescindibili (segnatamente quella di avere un vescovo interno alla Fraternità), fu annullato.

Ma, ancora nel giugno 1989, dunque un anno dopo le consacrazioni episcopali e il tentativo fallito di riconoscimento canonico, rivolgendosi a dei diaconi nel ritiro di preparazione all’ordinazione sacerdotale, si esprimeva in questi termini: «Penso che in ogni caso noi abbiamo bisogno di un legame con Roma. È a Roma che si trova la successione di Pietro, la successione degli apostoli, dell’apostolo Pietro, del primato di Pietro e della Chiesa; se si taglia questo legame, si è davvero come una barca abbandonata ai quattro venti, senza più sapere a quale luogo e a quale persona siamo legati. Io penso che è possibile vedere nella persona che succede a tutti i Papi precedenti il successore di san Pietro, dal momento che occupa la Sede ed è stato ricevuto come Vescovo di Roma a San Giovanni in Laterano (ed è il Vescovo di Roma che è successore di Pietro), ed è riconosciuto come successore di Pietro da tutti i vescovi del mondo. Bene, cosa volete, si può pensare che è veramente il successore di Pietro! E in questo senso noi ci leghiamo a lui e, attraverso di lui, a tutti i suoi predecessori, ontologicamente, se così posso dire. Dopo di che, le sue azioni, ciò che fa, ciò che pensa, le idee che diffonde, questo è un’altra cosa, certamente. È una grande sofferenza per la Chiesa cattolica, per noi, che ci vediamo costretti a constatare una cosa simile. Ma penso che sia la soluzione che corrisponde alla realtà»[9].

Un’antologia di testi di mons. Lefebvre, pubblicata nel 2010 e curata proprio da Alessandro Gnocchi e dal compianto Mario Palmaro, contiene, in conclusione, un insieme di citazioni in cui Monsignore risponde alla domanda: «Come considerare il ritorno ad una situazione normale?». Le sue risposte manifestano una volta di più il suo profondo attaccamento alla Chiesa e conservano tutta la loro attualità:

«Quando si tratta del futuro, sappiamo che appartiene a Dio e che è, dunque, difficile fare delle previsioni […]. Tuttavia è nostro dovere fare di tutto per conservare il rispetto della gerarchia e saper distinguere fra l’istituzione divina, alla quale dobbiamo rimanere attaccati, e gli errori che dei cattivi suoi membri possono professare. Dobbiamo fare tutto il possibile per illuminarli e convertirli con le nostre preghiere e con un esempio di dolcezza e fermezza […].

«Avremo rispetto e anche affetto per tutti i sacerdoti, sforzandoci di ridare loro la vera nozione del sacerdozio e del Sacrificio della Messa, di accoglierli per dei ritiri, di predicare nelle parrocchie. E così, in virtù della verità e della Tradizione, scompariranno i pregiudizi contro di noi, almeno da parte degli animi ben disposti, e il nostro futuro inserimento ufficiale sarà grandemente facilitato. Evitiamo gli anatemi, le ingiurie, le volgarità, evitiamo le polemiche sterili; preghiamo, santifichiamoci, santifichiamo le anime che verranno a noi sempre più numerose, nella misura in cui troveranno da noi ciò di cui hanno sete, la grazia di un vero sacerdote, di un pastore di anime, pieno di zelo, forte nella fede, paziente, misericordioso e assetato della salvezza delle anime e della gloria di Gesù Cristo. Noi non lavoriamo contro nessuno, né persone né istituzioni. Lavoriamo per costruire, non per distruggere: per continuare quello che la Chiesa ha sempre fatto e per nessun’altra ragione […].

«Per questo mi è sempre sembrato, appoggiandomi alla sana e fedele Tradizione della Chiesa, che fosse mio dovere andare a Roma, protestare e fare tutto il possibile perché un giorno essa possa ritornare alla Tradizione. Alcuni membri della Fraternità, purtroppo, hanno creduto che non bisognasse più andare a Roma, che non si dovessero avere più contatti con coloro che si spingono nell’errore, e bisognasse dunque abbandonare tutti quelli che hanno adottato il Concilio Vaticano II e le sue riforme. Per questo, siccome la Fraternità continuava ad avere dei contatti con Roma e con il Papa, hanno preferito lasciare la Fraternità. Questo però non è mai stato ciò che la Fraternità ha fatto, né l’esempio che io ho creduto dover dare; al contrario! Non ho mai cessato di andare a Roma e continuo ad andarci […].

«Come poter sperare, allora, di fare ritornare la Chiesa alla sua santa Tradizione? È il Papa, infatti, che deve operare questo ritorno. È lui che ne ha la responsabilità e se oggi si lascia trascinare negli errori del Vaticano II, non è certo un motivo per abbandonarlo. Al contrario, dobbiamo dirigere tutti i nostri sforzi per farlo riflettere sulla gravità della situazione; farlo ritornare alla Tradizione e chiedergli di fare ritornare la Chiesa sulla via che essa ha percorso durante venti secoli.

«Alcuni mi diranno senz’altro, come coloro che lasciano la Fraternità per questo motivo, che è inutile, che è tempo perso. Questo perché non hanno fiducia in Dio. Egli può tutto. Umanamente parlando, è vero, la situazione è scoraggiante, ma Dio può tutto e la preghiera può ottenere tutto. Per questo dobbiamo pregare ancora di più per il Papa; perché Dio lo illumini e gli apra gli occhi in modo da vedere i disastri che si moltiplicano nella Chiesa. Così i seminari si riempiranno, sul modello di quelli tradizionali, per formare sacerdoti che celebrino la vera Messa, cantino la gloria di Dio, come Gesù Cristo ha fatto sulla croce, e perpetuino il sacrificio della croce. Per questo continuo ad andare a Roma, cari amici: ed è questo lo scopo della Fraternità San Pio X»[10].

A queste citazioni val poco rispondere con tutte le altre in cui mons. Lefebvre accusa con veemenza (ma sempre con rispetto verso l’autorità) gli errori del Concilio e dei Papi postconciliari. Queste altre citazioni non farebbero altro che confermare, appunto perché si iscrivono nello stesso arco temporale, che mons. Lefebvre non vedeva alcuna contraddizione tra il fatto di criticare le deviazioni della crisi nella Chiesa e, al tempo stesso, andare a Roma per discutere di un’eventuale regolarizzazione canonica della Fraternità. Di lui, però, si tesse l’elogio; se la stessa linea, invece, viene portata avanti dai suoi successori, questo diventa motivo di scandalo?

Né più fondata è l’obiezione, formulata da Gnocchi già nel maggio del 2016, che «ora la questione è ben diversa», in quanto «dal “Buonasera” del 13 marzo 2013, i fatti dicono che qualcosa è cambiato e non si può non vedere la duplicità della figura di Bergoglio: da un lato, recalcitrante capo quasi invisibile di una Chiesa cattolica ridotta sulla soglia dell’ultimo respiro e, dall’altro, il trionfale e visibilissimo condottiero dell’anticristica neochiesa della Casa Comune». Da questa constatazione emergerebbe che sbaglia radicalmente chi ritiene che, tra Francesco e gli altri Papi postconciliari, «la gravità della situazione sia solo mutata di grado».

Ora noi diciamo che, in realtà, la situazione è senz’altro peggiorata, e anche molto, ma gli errori di fondo che determinano questo stato di cose sono sempre gli stessi: quelli che mons. Lefebvre rimproverava al Concilio. In Gaudium et spes c’è già, in nuce, il pontificato di Francesco. Anzi, per certi versi Francesco si può considerare il più conciliare dei Papi che abbiamo avuto fino ad ora. Là dove i suoi predecessori hanno applicato il Concilio quasi sempre con qualche misura restrittiva e con dei correttivi in senso tradizionale (specialmente Benedetto XVI), Francesco invece lo applica, perlomeno nei suoi punti più innovativi, in modo integrale e devastante. E questo, in un certo senso, lo riconosce anche Gnocchi, almeno implicitamente, quando, minimizzando la speranza rappresentata dai cardinali che si sono levati per protestare contro Amoris lætitia, afferma che da loro gli «piacerebbe sapere se, una volta rimessa in forma Amoris laetitia, la Chiesa tornerebbe a essere pura e immacolata, così come vorrei sapere cosa hanno fatto per fermare e combattere insieme al loro gregge lo sfacelo dottrinale e liturgico di cui Amoris laetitia è solo un’appendice e, già che ci siamo, se tutto si può riaccomodare applicando correttamente il Vaticano II e la riforma liturgica». Non condividiamo, certo, il giudizio disfattista sull’azione di questi coraggiosi prìncipi della Chiesa che stanno levando la loro voce contro lo sfacelo della dottrina sull’indissolubilità del matrimonio. Ci sembra, al contrario, che ciò che stanno facendo abbia una straordinaria portata storica: è la prima volta nel postconcilio, dopo l’«intervento Ottaviani» del 1969, che dei cardinali si levano pubblicamente per protestare contro un errore favorito dal Papa. E in questo senso è un evento storico, che merita il nostro plauso e il nostro incoraggiamento[11].

Ma su una cosa siamo d’accordo con Gnocchi: la loro analisi teologica ha anche un limite, che consiste appunto nel non vedere se non questo errore, mentre gli errori, più profondi, che ne sono alla radice e che rimontano al Concilio Vaticano II (e dei quali Amoris lætitia, come osserva giustamente Gnocchi, costituisce solo «un’appendice»), non vengono menzionati. Dire questo, però, significa presupporre che Francesco si inserisca appunto nella linea dell’ultimo Concilio e che la sua rivoluzione, in realtà, non sia la «sua», ma proprio quella del Concilio Vaticano II, portata però alle sue estreme conseguenze. Se, invece, Gnocchi considera la rivoluzione di papa Francesco come un evento del tutto nuovo, che non muta la situazione solo di grado, bensì in modo sostanziale, non è contraddittorio poi deplorare il fatto che questi cardinali denuncino solo gli errori di papa Francesco e non quelli dei suoi predecessori?

Tra le voci che si sono levate contro questa rivoluzione nella Chiesa, inoltre, c’è anche quella di un vescovo, il Vescovo ausiliare di Astana (Kazakistan), mons. Athanasius Schneider, che da mesi non perde occasione per manifestare il suo dissenso – in pubblico come in privato – contro la rivoluzione in atto nella Chiesa, e anzi da diversi anni porta avanti anche un certo discorso critico sul Concilio Vaticano II, cosa che dovrebbe destare tutto il nostro interesse e incoraggiamento. Anche a questo coraggioso successore degli apostoli, però, purtroppo Gnocchi non risparmia attacchi ingenerosi. L’argomentazione di questo «emissario di Roma» è a suo avviso «intellettualmente misera», «potenzialmente distruttiva», nonché «censurabile e truffaldina», e questo solo perché, nell’esprimere il suo auspicio che il riconoscimento canonico della Fraternità vada in porto, mons. Schneider dichiara che secondo lui mons. Lefebvre avrebbe approvato il progetto di regolarizzazione canonica, e perché invita, d’altra parte, a non mancare di senso soprannaturale. Ciò che, a nostro avviso, Gnocchi non ha colto in queste parole, è che mancherebbe di senso soprannaturale non chi non condividesse la posizione di mons. Schneider (non sembra che quest’uomo così umile si sia mai arrogato una presunta infallibilità nelle proprie opinioni), bensì chi assumesse, a questo riguardo, una posizione di tendenza scismatica e settaria. Quale sarebbe questa posizione priva di senso soprannaturale? Per capirlo dobbiamo distinguere tra due giudizi distinti da portare in questa materia.

Il primo giudizio è di ordine speculativo e consiste nell’affermare il principio che deve guidare la nostra condotta in questo ambito, come hanno fatto i tre Vescovi della Fraternità San Pio X nella loro Dichiarazione congiunta del 27 giugno 2013: «Questo amore per la Chiesa spiega la regola che mons. Lefebvre ha sempre osservato: seguire la Provvidenza in tutte le circostanze, senza mai permettersi di anticiparla. Noi intendiamo fare la stessa cosa, sia nel caso in cui Roma ritorni presto alla Tradizione e alla fede di sempre – il che ristabilirà l’ordine nella Chiesa – sia nel caso in cui ci riconosca esplicitamente il diritto di professare integralmente la fede e di rigettare gli errori ad essa contrari, con il diritto e il dovere di opporci pubblicamente agli errori e ai fautori di questi errori, chiunque essi siano – il che permetterà un inizio del ristabilimento dell’ordine» (n. 11). Si tratta di una posizione teorica, che non prende in considerazione le circostanze accidentali di questo o quel frangente storico, ma si pone ad un livello superiore, sul piano dei princìpi.

Il secondo giudizio è di ordine pratico e consiste nella risposta alla domanda: ciò che viene proposto dalla Santa Sede in questo preciso frangente storico, sotto il pontificato di tale o talaltro Papa, corrisponde a ciò che mons. Lefebvre ha sempre richiesto, a questo diritto esplicitamente riconosciuto «di professare integralmente la fede e di rigettare gli errori ad essa contrari, con il diritto e il dovere di opporci pubblicamente agli errori e ai fautori di questi errori, chiunque essi siano»? Si tratta, in questo caso, non di una posizione teorica, ma un giudizio concreto, relativo alle circostanze contingenti, ma che dà per acquisito il giudizio speculativo di cui sopra e si preoccupa solo di determinare se detto giudizio trova, hic et nunc, realmente applicazione.

Chi ha e chi invece manca di senso soprannaturale? A nostro avviso mons. Schneider non voleva dire nient’altro che chi non condividesse il primo dei due giudizi (quello speculativo), cioè chi dicesse: «Anche se il Papa le concede esplicitamente il diritto di professare integralmente la fede e di rigettare gli errori ad essa contrari, senza modificare in nulla le sue posizioni teoriche e la sua prassi, la Fraternità deve rifiutare questo riconoscimento ufficiale, perché è meglio per lei in ogni caso stare alla larga dalla neochiesa bergogliana», mancherebbe di senso soprannaturale. E ha perfettamente ragione. Da parte nostra, possiamo solo aggiungere che chi ragionasse in questi termini esprimerebbe una posizione non solo priva di senso soprannaturale, ma appunto per questo incompatibile con quella della Fraternità San Pio X, una posizione di tendenza scismatica e settaria che mons. Lefebvre ha sempre fatto di tutto per tenere lontana dal suo entourage.

Il secondo giudizio, invece, quello pratico, non ha carattere apodittico. Si iscrive nell’ordine prudenziale ed ammette per ciò stesso una pluralità di posizioni. In altri termini, alla domanda: «Ciò che l’attuale Papa propone alla Fraternità San Pio X corrisponde realmente a ciò che mons. Lefebvre richiedeva per il suo riconoscimento canonico?», potrebbero rispondere – e di fatto rispondono – in modo diverso anche persone che condividono lo stesso giudizio speculativo. È appunto in questa, entro certi limiti, legittima pluralità che si iscrivono, a nostro avviso, le dichiarazioni di mons. Schneider. Tutto ciò che lui, con molto garbo, dice, è che secondo lui ciò che la Congregazione per la dottrina della fede sta proponendo in questo momento a mons. Fellay corrisponde esattamente agli auspici di mons. Lefebvre. Si può, se si preferisce, non essere d’accordo con lui (la pluralità vale in entrambi i sensi), però lo si dovrebbe argomentare con elementi concreti, ad esempio citando quali punti di questa proposta (ma tutti quelli che ne parlano, tra l’altro, la conoscono anche solo un po’?) non corrisponderebbero alle condizioni poste da mons. Lefebvre, e non certo insultando questo coraggioso Vescovo che, giocandosi con tutta evidenza ogni possibilità di carriera, ha dichiarato a più riprese (tanto in privato alle autorità romane quanto pubblicamente ai media) che la Fraternità è un’opera del tutto cattolica, che la sua soppressione fu ingiusta, che le sue posizioni sono perfettamente cattoliche, che mons. Fellay è un vescovo cattolico esemplare e che, appunto per queste ragioni, alla Fraternità uno statuto canonico ufficiale spetta di diritto[12]? Ecco cosa significa, secondo noi, avere senso soprannaturale.

Caro Alessandro, le tante pubblicazioni della sua carriera di giornalista e apologeta mostrano che lei ce l’ha, eccome, il senso soprannaturale. Perciò le perdoniamo volentieri questi ultimi articoli intempestivi, nei quali, come dicevamo all’inizio, ci ricorda l’apostolo Pietro che, nel suo zelo per la difesa di Nostro Signore Gesù Cristo, si spinse troppo oltre e dovette essere corretto. Ma il paragone le fa onore: sa bene come l’apostolo abbia poi saputo correggere questa intemperanza e continuato la buona battaglia. D’altronde, i tempi amari in cui viviamo, nella società come nella Chiesa, rendono senz’altro umanamente comprensibile un certo inasprimento dei toni ed invitano quindi ad un esercizio copioso della misericordia (quella vera, s’intende: non quella di Amoris lætitia). Ma non escludono neppure la correzione fraterna. Certo, siamo ben consapevoli di non portare sulle spalle un «fardello non nostro: la salvezza della sua fede e delle sua anima». Di queste sarà, in ultima analisi, ciascuno di noi personalmente responsabile di fronte a Cristo giudice. Ma che, in quanto sacerdoti, quanto meno ci sforziamo di dare qualche consiglio sulla condotta da tenere nella crisi che imperversa nella Chiesa, questo senz’altro non le apparirà temerario. E quello che daremmo a lei – se ha piacere di sentirlo – è semplicemente lo stesso che Nostro Signore diede appunto al suo impetuoso discepolo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Gv 18,11).

don Angelo Citati FSSPX

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[1] Cfr. il Comunicato della Casa generalizia della FSSPX a seguito dell’udienza concessa da papa Francesco a mons. Fellay il 1° aprile 2016: «Alla fine dell’incontro è stato deciso che gli scambi in corso proseguiranno. Non si è parlato direttamente dello statuto canonico della Fraternità; papa Francesco e mons. Fellay considerano che bisogna proseguire in questi scambi senza precipitazione».

[2] Fideliter, n. 59, p. 66, citato in mons. B. Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre. Une vie, Clovis, Etampes 2002, p. 459.

[3] Mons. B. Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre. Une vie, Clovis, Etampes 2002, p. 509.

[4] Ib., p. 520.

[5] Ib., p. 535.

[6] Ib., pp. 535-536.

[7] Omelia a Ecône, 27 giugno 1980, citato in mons. M. Lefebvre, Santità e sacerdozio, Marietti, Genova-Milano 2010, p. 400. torna su [8] Citato in mons. B. Tissier de Mallerais, ib., Etampes 2002, p. 661.

[9] Citato da don M. Simoulin FSSPX, in Le Seignadou, ottobre 2016.

[10] Mons. M. Lefebvre, Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Tradizione perenne e futuro della Chiesa, a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Sugarco Edizioni, Milano 2010, pp. 230-232.

[11] Nel 1986, in occasione dello scandalo di Assisi, mons. Lefebvre scrisse a otto cardinali – che avevano certo una visione ancora tradizionale, ma avevano anche accettato le riforme del Concilio – pregandoli di levare la loro voce contro quello che definì uno «scandalo incalcolabile». Non sarebbe oggi, quindi, il primo a rallegrarsi che, stavolta di loro iniziativa, dei cardinali, che pure accettano le riforme conciliari, si levano per protestare contro un nuovo, incalcolabile scandalo?

[12] Cfr. tra le altre la sua intervista del 3 febbraio 2016 al sito Rorate Cœli.

Genio del Cattolicesimo e tristi teorici della neochiesa e di altre eresie. Una citazione del Cardinale Newman sulla Chiesa di sempre

Il romanzo di John Henry Newman Loss and Gain (it.: Perdita e guadagno, Jaca Book, Milano 1996), uscito nel 1848, tre anni dopo la conversione del suo autore alla Chiesa cattolica, ripercorre in forma letteraria, grazie al protagonista, Charles Reding e ai suoi amici, la ricerca religiosa e intellettuale che aveva avvicinato Newman e i suoi amici del Movimento di Oxford ai dogmi e alle forme liturgiche cattoliche. 
Sullo sfondo di questo dibattito, che vide confrontarsi, nel romanzo come nella vita, le vecchie dottrine della Chiesa d'Inghilterra con i semper eadem della Chiesa dei Padri, non mancano profonde riflessioni sulla Chiesa stessa e sull'insopprimibile importanza del Papato per il sistema cattolico. Queste osservazioni sono tanto più interessanti perché i giovani studenti di Oxford godevano di una fortunata prospettiva teologica che, in parte senza loro reale merito, li costringeva a guardare al Concilio di Trento, e quindi al loro stesso futuro in cui si sarebbero profilati più in là il Concilio Vaticano I e il dogma dell'infallibilità, con gli occhi della Chiesa antica e di quella medievale.
É questo il caso della breve conversazione che riportiamo di seguito. In essa il Papa appare il titolare di una auctoritas tra altre auctoritates alle quali egli stesso è tenuto - qui in particolare l'autorità del suo cerimoniere. 
La prospettiva di Newman e degli infallibilisti moderati risultò vittoriosa al Concilio Vaticano I, ma l'interpretazione del dogma che di fatto finì per prevalere fu quella che oggi diremmo sovranista (vedi qui le nostre riflessioni). Molte delle difficoltà attuali derivano proprio dal fatto che, contro la stessa Tradizione della Chiesa, la auctoritas del Pontefice ha finito per dissolversi in una sola potestas suppostamente infallibile e perciò capace di fagocitare ogni distinzione tra autorità e potestà, tra amministrazione e magistero, tra magistero ordinario e magistero infallibile nella Chiesa. Bisogna constatare che, dopo il 1870, alcuni Papi assecondarono questa tendenza ripetendo ineccepibilmente i contenuti della Tradizione più su un fondamento potestativo e volontario, "sovrano" appunto, che autoritativo  e dichiarativo, e che i fedeli si abituarono facilmente a questa potestà liberandosi di ogni dovere di discernimento. Tutto andò apparentemente bene fino al Concilio Vaticano II, quando si decise di cambiare disco e musica.
Lo spettacolo presente, che prende avvio dalla polemica su un eventuale accordo tra la FSSPX e le autorità romane e finisce per condizionare la comprensione di ciò che è la Chiesa, è fortemente condizionato da questo sviluppo eterogeneo. Da una parte si registra infatti la tendenza a sussumere tutta la Chiesa e il Cattolicesimo sotto la costante volontà e sovranità di un Papa dalle concezioni personali del tutto stravaganti, e a dichiarare "non cattolico" tutto il non sussumibile, e dall'altra, in base allo stesso principio e alla constatazione delle opinioni personali del Papa e dei suoi discorsi eterodossi, si proclama per coerenza la completa falsità di quell'istanza trascinando rovinosamente anche l'auctoritas di dichiarare infallibilmente la verità di fede - un'autorità senza la quale non c'è sistema cattolico (così ancora Newman!) e alla quale, in maniera del tutto cattolica, si sono sempre rivolti i superiori della FSSPX, da Monsignor Marcel Lefebvre a Monsignor Bernard Fellay (vedi qui). 
Mentre al primo orientamento appartengono la componente progressista che vede in Francesco il congiungimento del sistema cattolico con le sorti progressive della storia in cui risiederebbe la verità ultima dell'uomo, e la componente conservatrice devota al dogma, un po' prussiano e un po' positivista, del comando sovrano, al secondo orientamento deve essere assegnato il sedevacantismo e, ultimamente, quella pericolosa forma di donatismo ecclesiologico che tende a vedere nella Chiesa visibile guidata da Francesco una nuova Chiesa, un apocrifo della vera Chiesa di Cristo, occultatasi in qualche Tibet spirituale o montagnola ortodossa, una "neochiesa" (Monsignor Williamson) e infine, secondo un collaudato e sempre efficace paradigma luterano, una "chiesa anticristica". Il breve dialogo di Loss and gain apre invece uno scorcio sulla Chiesa visibile che in definitiva, sotto le piaghe e le ferite dolorose infertele dall'orgoglio e dall'ignoranza di un clero infedele, è la Chiesa di sempre.

"Oh, è il genio della Chiesa cattolica", disse White, "lo capirà meglio col tempo. Nessuno è padrone di se stesso; neppure il Papa può fare quello che vuole; pranza per conto suo, e parla secondo i precedenti".
"Certo", disse Charlotte, "infatti è infallibile".
"Anzi, se fa degli errori durante le funzioni", continuò White, "è tenuto a metterli per iscritto e a confessarli, per tema che diventino precedenti".
"E durante le funzioni è tenuto a fare quello che gli ordina il cerimoniere, anche se lui non la pensa così", disse Willis.

(John Henry Newmman, Perdita e guadagno, Jaca Book, Milano 1996, p. 89)


martedì 17 gennaio 2017

Se Diogene cita Socrate contro Platone. Su un uso falso di citare Monsignor Lefebvre

Negli ultimi tempi è capitato soventemente di leggere lunghe citazioni dalle opere di Monsignor Lefebvre a riprova, nelle intenzioni dei compilatori di articoli e post, della sua oggettiva contrarietà a un accordo con le autorità romane.
La redazione del sito Riscossa Cristiana  ha recentemente fatto ricorso a questo espediente nel rispondere a un'affermazione recente di Monsignor Athanasius Schneider (vedi qui). Il coraggioso vescovo kazako in una recente intervista, dopo avere fatto la diagnosi della malattia grave che minaccia la Chiesa, ha infatti affermato di essere "convinto che nelle attuali circostanze Monsignor Lefebvre avrebbe accettato la proposta canonica di una prelatura personale senza esitazione". Benché questa dichiarazione sia evidentemente dominata da una visione soprannaturale e dall'esigenza di fare fronte comune all'eresia che si diffonde ogni giorno nel corpo della Chiesa, la redazione di RC vi sospetta la "cattiva abitudine di fare parlare i morti", e cerca di fare prevalere la realtà sulle ipotesi riportando un'omelia pronunciata a Lille nel 1976 da Monsignor Lefebvre.

Davvero l'omelia di Lille è un testo rappresentativo del pensiero di Monsignor Lefebvre e c'è da essere riconoscenti, almeno per questo, alla redazione di Riscossa Cristiana per averlo proposto ai lettori. In esso si toccano molti problemi ancora attuali, le responsabilità dei testi del Concilio Vaticano II nella genesi della profonda crisi della Chiesa, la perversione della dottrina, la corruzione della liturgia e delle formule sacramentali, l'affermazione di un vastissimo ceto eterodosso nella gerarchia ecclesiastica e la persecuzione del clero e del popolo cattolico.

Ciò che, tuttavia, alla fine proprio non si comprende è la pretesa contraddizione tra questo testo, le intenzioni di Monsignor Lefebvre, a quel tempo appena colpito dalla ingiusta sospensione a divinis da parte di Paolo VI, e gli auspici di Monsignor Schneider. Non si capisce, in sintesi, perché l'omelia parli contro la possibilità di un accordo. Monsignor Lefebvre, infatti, dopo avere descritto in tutta franchezza lo scempio della Chiesa cattolica, fa esattamente ciò che Riscossa Cristiana esclude, e si rivolge a Roma non per chiedere l'improbabile immediata riparazione di tutto ciò che è stato distrutto come prezzo della composizione dei rapporti tra la Fraternità e Roma, ma, nonostante la pena canonica appena comminatagli, conclude con parole, il cui significato, per urgenza di polemica o per semplice distrazione, non sembra essere stato considerato dalla Redazione di Riscossa Cristiana. Così afferma infatti Monsignor Lefebvre nella bella omelia di Lille:
Mi sembra di dovere concludere solo dicendo che dobbiamo veramente pregare, tutti insieme, affinché il buon Dio ci dia i mezzi per risolvere questi problemi. E pensare che sarebbe così semplice. Se solo ciascun vescovo nella sua diocesi mettesse a disposizione dei fedeli cattolici legati alla Tradizione una chiesa, che immensi benefici ne trarrebbero [...]! Quando si pensa che molti vescovi oggi non esitano a concedere chiese ai gruppi religiosi più disparati, non vedo perché non potrebbe esserci una chiesa per i cattolici fedeli alla Tradizione. Così tutto sarebbe risolto [!]. Sarebbe quello che domanderei al Papa, se il Papa mi ricevesse: "Santo Padre, ci lasci fare l'esperienza della Tradizione".
Il testo riportato da RC rappresenta una traduzione abbastanza libera dell'originale francese (vedi qui). Per esempio Monsignor Lefebvre appare assai più concreto e realista quando, diversamente dalla versione italiana, afferma che "quand on pense que l'Évêque de Lille a donné une église aux musulmans je ne vois pas pourquoi il n'y aurait pas une église pour les catholiques de la Tradition". Più perplessi lascia l'omissione dell'ultima frase dell'omelia:
Laissez-nous faire, Trés Saint Père, l'experience de la Tradition. Au milieu de toutes les experiences qu'on fait actuellment qu'il y ait au moins l'expérience de ce qui a été fait pendant vingt siècles! 
ossia
Santo Padre, ci lasci  fare l'esperienza della Tradizione. Che in mezzo a tutte le esperienze che si fanno attualmente ci sia almeno l'esperienza di ciò che è stato fatto durante venti secoli!
Non è facile dire dove si trovasse la Redazione di Riscossa Cristiana nel 1976 (anche se ciascuno può farsi un'idea). Certamente tutto il tenore dell'ultima parte dell'omelia e, in particolare, quest'ultimo detto dell'Arcivescovo colpevolmente omesso denunciano, se messi soltanto a confronto con il commento introduttivo della Redazione,  una grave incomprensione del pensiero e delle intenzioni del compianto Arcivescovo, e mettono allo scoperto la scorrettezza che è stata appena ingenerosamente imputata ad altri, quella di "far parlare i morti".

É, invece, del tutto evidente che Monsignor Lefebvre ha una retta comprensione del Papato e della sua autorità, e che non cede alla tentazione di trarre conseguenze in merito all'autorità di Paolo VI che pure nel 1976 ha già incontrato Atenagora I, pronunciato il famoso discorso di fronte alle Nazioni Unite, abrogato l'Indice, continuato rovinosamente il Concilio Vaticano II, "abrogato" il Messale di San Pio V e la Liturgia antica. Il fondatore della FSSPX non ha mai cessato di denunciare l'errore e l'eresia nella Chiesa e, al contempo, ha conservato la consapevolezza cattolica che tale missione dovesse essere comunque orientata a Roma. Ciò che, nel 1976, a Lille, con uno sbalorditivo realismo e con senso perfettamente cattolico Monsignor Lefebvre chiedeva a Paolo VI era "che in mezzo a tutte le esperienze che si fanno attualmente ci sia almeno l'esperienza di ciò che è stato fatto durante venti secoli!". Si chiedeva la libertà della Tradizione, come momento concreto della libertas Ecclesiae, in mezzo alla Babele di tutte le altre "esperienze", e ciò fino al punto di rivendicare di fronte all'empio vescovo di Lille la par condicio con i musulmani. Tale e tanto profondo dovette essere il giudizio doloroso di Monsignor Lefebvre sulla disastrosa situazione della Chiesa!  Non diversamente nel 1988, all'indomani dell'empietà di Assisi, il nostro grande Arcivescovo si rivolse a Giovanni Paolo II  e in perfetta coerenza si rivolge Monsignor Fellay a Francesco, nonostante la attuale desolazione del Tempio.

I Diogene, che dalla botte in cui hanno deciso di cacciarsi e di pensare la Chiesa e la Tradizione cattolica, continuano a citare sediziosamente Socrate contro Platone e il bene comune della sua e nostra Repubblica, sono purtroppo entrati in una dimensione apocalittica nella quale la riduzione esplicita di un Papa all'Anticristo e di Roma alla sede dell'Anticristo distrugge, almeno nelle loro menti, definitivamente il Papato secondo uno schema che fa pensare alla terribile Responsio di Lutero ad Ambrosio Catarino (una lettura imprescindibile per constatare l'analogia tra la disposizione attuale di alcuni cattolici e quella di Lutero vedi qui).  Dopo l'apocalisse non c'è storia.

Su questi aspetti si dovrà ritornare soprattutto in considerazione del veemente articolo di Alessandro Gnocchi sulla FSSPX che oggi compare su Riscossa Cristiana dando seguito al posizionamento della Redazione. Basti qui ribadire quel che si è appena scritto in merito a un recente attacco ai superiori legittimi della Fraternità (vedi qui), che chiunque si rivolta all'autorità legittima, deve assumersi la responsabilità della possibilità della propria iniquità (2 Tess 2) oltre che quella della propria più autentica e profonda giustizia (così la clausula Petri in At 5, 29). In fondo è tutta questione di discernimento.




sabato 7 gennaio 2017

Don Pierpaolo e la fronda. Considerazioni di inizio d'anno sulla situazione della FSSPX in Italia

Come noto, il primo di gennaio, con comunicato letto dai pulpiti delle Cappelle e subito pubblicato nel sito istituzionale della Fraternità Sacerdotale San Pio X (vedi qui) don Marco Nély dava notizia di essere stato nominato dal superiore della stessa Fraternità Monsignor Fellay responsabile ad tempus del governo del Distretto italiano. Contestualmente don Nély annunciava che con la medesima decisione il Superiore generale della FSSPX aveva "deciso di sollevare don Petrucci dall'incarico di superiore, secondo le norme di Diritto canonico".
La decisione non è priva motivazione giacché si legge che essa è stata imposta dalla constatazione, anche in seguito a "una visita canonica effettuata nel 2015", delle "difficoltà della gestione del distretto, difficoltà che si protraevano da tempo creando tensioni tra la maggior parte dei confratelli". Nè è priva dell'indicazione del fine che essa persegue ossia del "bene comune del Distretto".

Poiché in quest'ultimi giorni si sono avanzate, anche in maniera assai polemica, molte ipotesi e illazioni, bisogna qui, dunque, convenire sull'evidenza che un'indicazione delle ragioni dell'intervento di Monsignor Fellay esiste e che, a non voler cavillare e sospettare dissimulazioni, è abbastanza circostanziata: la difficoltà nella gestione del distretto e le tensioni tra i confratelli cagionate da questa difficoltà. Ciò che forse resta velato è il fondo dei problemi di gestione, il fatto stesso che è così qualificato, benché ciò non possa autorizzare dubbi sulla avvedutezza del provvedimento. Tali dubbi sarebbero già tali da fare ritenere una disposizione critica e potenzialmente conflittuale nei confronti dell'autorità superiore.

Sempre restando nell'ambito della considerazione delle motivazioni dell'atto assunto da Monsignor Fellay, è importante il passaggio in cui il comunicato precisa che "tale decisione non vuole mettere minimamente in dubbio la rettitudine e lo zelo di don Pierpaolo durante gli anni del suo incarico". In questo modo il giudizio di Monsignor Fellay sul nostro sacerdote esclude, senza possibilità di equivoco, ogni motivazione di natura morale e coincide sostanzialmente con quello dei molti che l'hanno conosciuto bene e lo stimano. Ci riferiamo soprattutto, a tal proposito, a quanto è stato scritto con equilibrio e sincera commozione da Cristiano Lugli per Chiesa e postconcilio (vedi qui). Anche la testimonianza del Professor Massimo Viglione (vedi qui), che è consueto collaboratore di Radio Spada ed è stato più volte relatore a conferenze e convegni organizzati negli ultimi anni dal Distretto italiano della FSSPX, merita giusta considerazione per la sincerità e la penetrazione psicologica di alcune circostanze della vita di don Pierpaolo ad Albano. Peccato però che nello scritto di Viglione non manchino la convinzione, evidentemente condivisa da molti fedeli, di un'ingiustizia subita dal sacerdote e lo spreco di espressioni come "esilio", "segno dei tempi", "punizione" [testo modificato: si veda la risposta al Professor Viglione qui sotto].

Ma perché un atto motivato dell'autorità legittima dovrebbe essere considerato senz'altro ingiusto senza che prima si renda puntualmente conto della irrazionalità e infondatezza delle motivazioni addotte? Autorità legittima e giustizia si appartengono e ineriscono al medesimo sistema. La giustizia, secondo una definizione che ha resistito al vaglio dei millenni ed è stata fatta propria dal diritto della Chiesa, sta nell'assegnare a ciascuno il proprio. Tale assegnazione spetta all'autorità legittima; così Dio crea il mondo e assegna provvidenzialmente ogni creatura al proprio elemento e ordinamento, secondo il proprio fine, e, analogamente, secondo quel che scrive San Tommaso d'Aquino nel De regimine principum,  il principe che fonda la città, lo fa in maniera tale che a ogni parte possano essere assegnati il culto, una professione o un mestiere. L'atto di assegnazione, pur assistito dalla grazia di stato, non è certamente infallibile, ma in assenza di argomenti oggettivi opposti considerati con prudenza, andrebbe accettato per il bene comune e il contenimento di tutta la comunità. Di ciò parla, in fondo, il comunicato di don Nély, e, sotto questo aspetto, la nuova assegnazione di don Pierpaolo appare, fino a prova contraria, un atto di giustizia che aumenta non soltanto il bene della comunità ma persino quello del diretto destinatario. Questo andrebbe creduto con la fiducia che è dovuta a Monsignor Fellay, anche in base al senso fondamentale di ciò che San Paolo afferma in Rom 13.

Ciò che nega la giustizia, l'elemento ingiusto, è l'opposizione all'assegnazione di ciò che è proprio a ciascuno. Mentre la giustizia favorisce il contenimento delle passioni e delle forze distruttive e disgreganti, non soltanto nell'individuo ma anche nei corpi politici e sociali, l'ingiustizia fomenta la stasi, la ribellione, lo sfaldamento, la distruzione e la finale dissoluzione di quell'individuo o di quei corpi. In questa prospettiva il discorso cristiano sulla giustizia degli ordinamenti e su ciò che la minaccia in ogni momento, si intreccia, soprattutto se si ha per oggetto la Chiesa o membra di questo stesso Corpo come la FSSPX, con il tema dell'iniquità e di ciò che le si oppone (2 Tess 2). Chiunque si rivolta all'autorità legittima, deve assumersi la responsabilità della possibilità della propria iniquità oltre che quella della propria più autentica e profonda giustizia (così la clausula Petri in At 5, 29). Il che non è cosa da poco e mette in luce la gravità di ciò che sta accadendo nel Distretto italiano.

Il Professor Viglione nella sua testimonianza menziona anche un Appello a Monsignor Fellay e ai Superiori della Fraternità  [testo modificato: si veda la risposta al Professor Viglione qui sotto].  A prima vista si tratta di un atto collettivo di solidarietà e di riconoscenza a don Pierpaolo per il suo apostolato e per le opere da lui realizzate. Vi è però, quasi si trattasse di una conseguenza logica, adombrata l'ingiustizia dell'intervento di Fellay al punto di affermare che potrebbe minare la "fiducia da parte nostra nelle autorità della Fraternità", qualora non venisse ritirato. La "filiale supplica" è stata fatta girare alcuni giorni prima della pubblicazione del comunicato del 1 gennaio che in qualche modo sembra rimediare a quest'iniziativa alquanto improvvida. La natura dell'appello è evidentemente sediziosa, non soltanto perché mira a un attacco all'autorità legittima minacciando in maniera perfettamente giacobina la fine della fiducia da parte dei firmatari, ma anche per le modalità a dir poco carbonare con cui è stato fatto circolare. É bastata una breve indagine per constatare che il documento è stato portato a conoscenza di un ristretto e selezionato numero di fedeli italiani della FSSPX e che nei Priorati e nelle Cappelle del Distretto, soprattutto nel Nord d'Italia, gran parte delle persone, e probabilmente degli stessi sacerdoti, è stata tenuta all'oscuro, e ciò benché l'appello sia gabellato come "supplica dei fedeli del Distretto italiano della FSSPX" e gli estensori dello stesso dichiarino e facciano dichiarare ai sottoscrittori (Difficile est satyram non scribere!)  di essere "sicuri di rappresentare l'opinione della stragrande maggioranza dei fedeli della FSSPX in Italia". Che la supplica più che essere un attestato di stima e di riconoscenza a un sacerdote destinato a nuova missione, sia il primo atto semipubblico di fronda e di ribellione all'autorità legittima nella Fraternità e alla sua giustizia, è evidente. Ed é perciò in gioco l'unità, il bene comune e il contenimento della nostra comunità.

La fronda e l'orgoglio che la nutre, nascono, a ben vedere, nel Tradizionalismo, soprattutto da alcuni habitus mentali divenuti col tempo quasi normativi e irriflessi. C'è innanzitutto la disperazione, che durante il Pontificato di Francesco sta raggiungendo comprensibilmente il proprio acme, della restaurazione dell'ortodossia cattolica e delle antiche forme del culto. Le vie di uscita da questo stato d'animo sono molte. Il sedevacantismo, la teorizzazione dell'esistenza di una "chiesa del Concilio" o, con un termine di conio williamsoniano, di una "neochiesa" che usurperebbe in diverso modo la vera Chiesa cattolica, celatasi non si sa bene dove,  persino la fuga improbabile verso le chiese ortodosse e le forme orientali del culto, accompagnata, si suppone, dalla convinzione che la Chiesa di Roma abbia esaurito il proprio compito storico. In particolare il gruppo di Radio Spada, con una sorta di manifesto programmatico, ha inaugurato la realizzazione di una Vendée sans fase della Tradizione cattolica fatta di "oscuri scantinati", di "capannoni mutati in decorosissime cappelle", di "umide chiesuole private di provincia", di "barocchi sottoscala", di luoghi in cui "Dio ci ha concesso la grazia e la fortuna di scendere" e nei quali "contiamo di rimanere ancora a lungo" (vedi qui e la nostra critica qui ). Non è qui irrilevante osservare che negli ultimi anni la collaborazione tra noti rappresentanti del gruppo di Radio Spada e il Distretto italiano della Fraternità è stata pressoché continuativa.

L'altro habitus che spinge alla fronda è di natura più politica, non essenzialmente proprio del fedele tradizionalista, ma di un certo tipo di fedele italiano che è giunto alla Tradizione cattolica tramite la militanza politica in formazioni fasciste o neofasciste. Per questo fedele, memore della fine del Fascismo e della sua mitizzazione repubblichina, la coppia concettuale fedeltà/tradimento è un parametro conoscitivo assoluto di tutta la realtà e costitutivo dei gruppi umani. La Fraternità esiste perché alcuni Papi hanno tradito e Monsignor Lefebvre non ha tradito, la cappella, come la sezione di partito o il gruppetto di riferimento, è una cellula di non-traditori. Ciò implica tipi di solidarietà e di omogeneità estranei alla semplice appartenenza al Cattolicesimo e al comune sentire cattolico cui conseguono comportamenti poco comprensibili al fedele tradizionale normale - saluti legionari, camice nere, libere interpretazioni degli atti devozionali: c'è gente che prende la comunione con le braccia conserte sulla schiena, mentre, in passato, qualcuno persino si irrigidiva sull'attenti durante l'Elevazione giudicando la genuflessione alcunché di vagamente femmineo. Per chi fonda ogni comportamento sulla propria opposizione a un tradimento sentito imminente, ogni cambiamento diventa sospetto e, subito dopo, il tradimento inconsciamente auspicato come occasione di crisi salutare e di ricompattamento del nucleo originario in seguito alle inevitabili epurazioni. Forza Nuova è il movimento politico che in tempi recenti è riuscito meglio a razionalizzare questo habitus, senza però rinunciarvi, e a recepire, dando adito, in perfetta continuità col Fascismo, a una specie di erastianismo di partito e dell'anima, la fede cattolica come parte del proprio programma statalista, "nazionalista" e "rivoluzionario". Ancora una volta non è irrilevante osservare che negli ultimi anni la presenza di militanti di Forza Nuova nei Priorati, soprattutto quello di Albano, e nelle Cappelle della FSSPX è stata massiccia e non sempre del tutto discreta.

Nella prossimità di un accordo tra Fraternità Sacerdotale San Pio X e Santa Sede cui lo stesso Monsignor Athanasius Schneider ha fatto riferimento in una recentissima e interessante intervista (vedi qui), l'affermazione della Vendée sans fase e l'individuazione del traditore creano la solidarietà e l'unione della fronda. Gli uni accorrono perché l'accordo potrebbe chiudere il gioco della Vandea e rendere più facile l'accesso delle chiese ai fedeli della Tradizione cattolica, gli altri perché l'accordo potrebbe con l'aiuto della Provvidenza porre fine alla tragedia politica del tradimento. E allora bisogna affrettarsi a trovare un nuovo traditore, e chi se non Monsignor Fellay, colui che sta facendo l'accordo? La criminalizzazione con cui la fronda sta attaccando il Cardinale Burke, Monsignor Schneider e i restanti prelati ortodossi che da tempo invitano la Fraternità a contribuire a un fronte comune contro l'eresia all'interno delle mura giuridiche del Diritto canonico, avvalla la necessità psicologica del tradimento: "Se i tuoi amici sono degli impostori, tu sei un traditore! E noi fondiamo una nuova comunità!".

Qualcuno ha visto la ragione recondita della nuova assegnazione di don Pierpaolo, che tuttavia, tra infinite e aspre polemiche, all'inizio del Giubileo ringraziò pubblicamente il Papa per avere concesso la giurisdizione di confessare ai Sacerdoti della Fraternità, nella sua presunta contrarietà all'accordo. Al termine di queste considerazioni si può invece concludere, se proprio si vuole guardare oltre le motivazioni riportate con puntualità dal Comunicato, che, date le circostanze, a determinare il provvedimento, più che la contrarietà all'accordo possa essere stata la oggettiva inidoneità di don Pierpaolo a governare questa eventuale importante fase della vita della Fraternità in Italia. Ma, infondo, una simile speculazione è meno importante e forse anche sconveniente e oziosa. Fondamentale è invece l'aver indicato come la vicenda di don Petrucci sia stata l'occasione per un dilagante movimento di mettersi alla prova e di assecondare un primo colpo al legittimo Superiore della FSSPX e all'armonia e alla giustizia di questa importante parte della Chiesa in tempi di iniquità.

A.S.