martedì 21 febbraio 2017

Søren Kierkegaard e l'eccellenza del celibato. Un saggio attualissimo di Cornelio Fabro

Ciò che spinse il padre stimmatino Cornelio Fabro, uno dei teologi italiani più rinomati e al contempo fedeli alla Tradizione nel secolo XX, a divenire uno dei massimi esperti internazionali di Søren Kierkegaard e ad apprendere la lingua danese per poterlo leggere e conoscere fin nelle sfumature del suo pensiero, fu probabilmente la convinzione che il grande filosofo danese avesse più di ogni altro suo contemporaneo compreso che la perfetta trascendenza di Dio creatore, trinitario e personale, doveva considerarsi il vero discrimine tra il Cristianesimo e i sistemi romantici, soprattutto quello di Hegel, che predicavano del nome di "dio" il soggetto trascendentale, di volta in volta l'io dell'uomo o lo stato sovrano. 
Proprio Hegel, seguendo e sviluppando il pensiero politico di Lutero all'interno dell'idealismo, aveva posto nel grembo dello stato - ossia della "realtà dell'idea etica" con cui "Dio fa ingresso nella storia" - famiglia e matrimonio come istituzioni contemporaneamente superate e conservate dallo stato stesso. In questo modo, insieme alla religione e alla Chiesa, matrimonio e famiglia erano consegnati alla storia e all'immanenza assoluta dello stato in cui esse trovavano la propria costante dimensione trascendentale, il proprio "dio" e creatore. 
Per queste ragioni il  matrimonio dei pastori - e non solo il loro - non poteva che apparire a Kierkegaard altro se non un  ulteriore vincolo nell'asservimento del clero a una prospettiva esclusivamente mondana nella quale ogni predicazione e sacramento erano destinati a divenire segni dell'etica statale. 
In questo preciso contesto il celibato del clero apparve a Kierkegaard non soltanto elemento fondamentale della perfetta imitazione di Cristo, ma anche principio di rottura e di rifiuto della chiesa di stato e di ogni trascendentalismo e immanentismo teologico. Il perfetto amore e servizio sacerdotale reso a Dio porta necessariamente al celibato, e ciò avviene soltanto se Dio è trascendente e trinitario, soltanto se è il Dio cristiano. Di qui uno dei percorsi fondamentali dell'orientamento oggettivo del pensiero di Søren Kierkegaard al Cattolicesimo romano testimoniato da tanti passaggi della sua opera ricordati puntualmente da Cornelio Fabro.
I motivi dell'invettiva del Socrate di Copenhagen contro Lutero possono apparire a un primo sguardo meno evidenti. In realtà se di considera che Lutero, eliminando dal proprio sistema la Chiesa cattolica e il Papato, emancipa l'uomo da ogni autorità universale per assegnargli subito dopo il decisore statale soggettivamente unmittelbar zu Gott (si veda i nostri precedenti interventi qui e qui) sotto il cui dominio è posta la chiesa nazionale, la secolarizzazione del clero, il matrimonio come strumento di questa secolarizzazione, la famiglia e la vita famigliare, si comprende la continuità dei due fronti: Lutero ed Hegel. Ritornare al Cristianesimo significa - oltre a prendere congedo da Hegel e dal suo Stato etico, di cui Kierkegaard fu più radicale contraddittore di Nietzsche, Bauer, Stirner, Marx e di tutta la congrega filosofica che seppe abbattere lo Stato ma non uscire dalla prigione dell'io trascendentale - risalire alle fonti antiche e medioevali della Fede per qui trovare il senso della trascendenza di Dio e della perfetta imitazione di Cristo nelle opere dei Padri e dei grandi Dottori della Chiesa. Qui ci sono gli esempi di Sant'Antonio Abate e di San Benedetto, di Sant'Agostino e di San Tommaso e qui il celibato appare nuovamente la forma perfetta di dedizione a Dio.
La ricostruzione del pensiero di Lutero tramite i Diari di Kierkegaard intrapresa da Fabro è senz'altro attualizzante. "Qui conviene - egli scrive nel saggio che qui proponiamo - allegare la testimonianza dello scrittore religioso più tormentato e profondo del secolo scorso, Søren Kierkegaard, il quale, specialmente nei Diari  della maturità, ha fatto la diagnosi più cruda e realista della decadenza religiosa del cristianesimo nel mondo moderno". E attualissimo appare oggi il pensiero di Kierkegaard restituitoci dal teologo italiano perché dall'idea di celibato, del celibato di Cristo e poi di ogni suo imitatore sacerdotale, discendono, come immagini successive di una medesima verità, l'impeccabilità del Corpo Mistico, la Verginità di Maria e di Giuseppe, il matrimonio cristiano, la castità matrimoniale, la castità come autentica condizione di libertà di ogni cristiano, il senso e il bene del celibato di ogni uomo o donna non sposati. 
Mentre lo stato sembra avere compiuto la propria storia, l'individuo è minacciato da una più terribile immanenza e da un più spesso e impenetrabile oblio di Dio, da un oblio che si impone nel nome di un "cristianesimo secondario" (Amerio) e di una "cristianità" (Kierkegaard) in cui matrimonio, famiglia e procreazione sono costituiti dalla mera fattibilità soggettiva resa possibile dalla tecnica. Le promesse di questo nuovo mondo sono caratterizzate da un confort più grande di quello che potevano garantire il principe luterano o lo stato etico di Hegel in cambio dell'abbandono della Fede in Cristo. La "Cristianità", che si traduce in molte parti del rassicurante magistero ordinario dell'attuale Pontefice, ossia di un perfetto figlio del suo tempo, e non soltanto nel capitolo VIII di Amoris Laetitia, è oggi più radicalmente opposta al "Cristianesimo" (Kierkegaard) nel quale celibato, verginità, matrimonio e castità cristiana continuano a essere riposti come l'immagine stessa del nostro Divino Salvatore. Se si guarda in fondo a queste cose, ci si accorge con sgomento che ne va della libertà della Chiesa e della salvezza dell'anima cristiana.


Søren Kierkegaard e l'eccellenza del celibato


Qui conviene allegare la testimonianza dello scrittore religioso più tormentato e profondo del secolo scorso, Søren Kierkegaard, il quale, specialmente nei Diari  della maturità, ha fatto la diagnosi più cruda e realista della decadenza religiosa del cristianesimo nel mondo moderno (1) A suo avviso il pastore, nel protestantesimo con moglie e figli, è il primo responsabile della degenerazione del cristianesimo, perché da una parte si trova legato al governo da cui dipende per la prebenda (Levebröd) e dall’altra parte è solidale con la «cristianità stabilita» che si è adagiata al mondo, ingolfata negli interessi di questa vita: perciò il pastore non è colui che si trova allo sbaraglio, in alto mare (n. 1903) (2), nell’impegno assoluto per l’Assoluto. 

Essere e fare il pastore è diventato allora nel protestantesimo una semplice sistemazione economica (Naeringsvej) per vivere nel cantuccio di un presbiterio al sicuro dai rischi della vita. Perciò i pastori sono incapaci della vera religiosità (n. 893); vivono come una élite, isolati dal popolo (n. 1519), ed escludono i poveretti dalle consolazioni del cristianesimo (n. 1971); non sono più i padri spirituali delle anime (n. 2055), ma predicano «oggettivamente» il cristianesimo (n. 2849), vivendo per proprio conto nell’eudemonismo (n. 2931), ingolfati nelle faccende di famiglia e nelle cose del mondo. Questa è la più grande distanza possibile dal cristianesimo (n. 2686). Nell’ultima polemica scatenata nel 1855 contro Mynster, che era il capo e simbolo della cristianità stabilita, Kierkegaard tacciò i pastori di «cannibali» (n. 3312), «animali» (n. 3316)…, che impediscono agli altri di entrare nel Regno dei cieli (n. 3173).

A suo avviso, il pastore nel protestantesimo è uno «spostato», l’esistenza del pastore è dal punto di vista cristiano una cosa fuori posto: «Questo non lo intendo soltanto nel senso che tutta la sua vita non si può dire davvero una imitazione di Cristo. No, io ho di mira specialmente il fatto che egli è un impiegato governativo. Quale controsenso allora il predicare un regno che “non è di questo mondo” e che a nessun costo vuole essere di questo mondo?! (Gv. 18, 26). E il fatto che egli sia impiegato governativo è causa di una confusione così fondamentale e influisce così profondamente» (n. 3296). E nel testo seguente il pastore è indicato come «il più infelice di tutti gli esseri», malgrado l’opinione comune in contrario: «Spesso si sente dire che essere pastore, specialmente pastore di campagna, deve essere la più piacevole delle esistenze. D’altra parte si sente spesso questo grido: che i pastori sono gli uomini più irreligiosi, ipocriti, ecc.: dunque, allora, i più infelici. Il mio parere è che quello che noi intendiamo per pastore è il più infelice di tutti gli esseri. Perché, che cosa è un pastore? Un pastore è un uomo, completamente alla stregua di tutti noi bravi uomini (ma neanche di più), il quale ora, per essersi obbligato con giuramento a un ideale così alto come è il nuovo Testamento, mette tutta la sua vita nella autocontraddizione più penosa; egli porta cioè per tutta la vita una coscienza gravata, non di qualcosa di passato ma di una realtà presente e continua, dalla quale neppure la morte lo può liberare e che egli poi alla morte prende con sé per la resa dei conti» (n. 3297). Poco prima infatti aveva accusato i pastori di essere i responsabili del quietismo pratico e della rinuncia alla imitazione di Cristo nella cristianità, «…dove tutti sono cristiani, dove esistono mille pastori giurati dai quali, al massimo per tre quarti d’ora la domenica, i fedeli imparano che il cristianesimo è rinuncia alle cose terrene» (n. 3295).

Di qui procede anche il giudizio drastico di Kierkegaard su Lutero e sul suo matrimonio, che alle volte egli blandamente interpreta come una protesta contro le esagerazioni dell’ascesi monastica e che perciò approva come «atto di risveglio» e come gesto simbolico di sfida all’ordine stabilito (n. 2601), ma poi e più spesso lo accusa come responsabile della confusione in cui la Riforma ha precipitato l’uomo. Lutero infatti ha ridotto il cristianesimo a eudemonismo, rifiutando l’imitazione di Cristo e combattendo il concetto di verginità (n. 2914), e così ha riportato il cristianesimo al giudaismo (n. 3102). Lutero neppure capisce quello che poteva essere il significato del suo gesto: «Invece di questo, Lutero si mette a capo di tutto quel brulicame di uomini prolifici, di questi stalloni i quali, fidandosi di Lutero, credono che faccia parte del vero cristianesimo lo sposarsi» (n. 2932).

Non sorprende allora che alla fine il giudizio di Kierkegaard su Lutero e sulla «svolta antropologica» da lui prodotta nel protestantesimo, diventi nettamente negativo e quello sul cattolicesimo invece nettamente positivo. Egli infatti fa l’elogio del clero celibe e del cattolicesimo, che esige dai suoi preti il celibato come garanzia dell’autenticità della loro missione e della trascendenza e libertà del cristianesimo. Il celibato infatti costituisce l’ideale nella vita dello spirito ed è necessario nei punti critici per la storia del genere umano (n. 1105), specialmente quando si tratta di far riaccettare il cristianesimo (n. 1534). Quando il non sposarsi sarà inteso in senso giusto, la religione avrà sempre bisogno di uomini celibi, specialmente ai nostri tempi, e questo spinge Kierkegaard ad auspicare nientemeno il ristabilimento degli antichi Ordini religiosi «…per avere ancora dei preti, ossia uomini che attendano unicamente alla predicazione» (n. 1638). E a questo punto, poiché a Kierkegaard non faceva certamente difetto la logica, egli si appella direttamente al cattolicesimo, il quale «…vide giustamente che conveniva che il clero appartenesse il meno possibile a questo mondo. Per questo favorì il celibato, la povertà, l’ascesi, ecc. Questo è perfettamente giusto, fatto apposta per levare al medio [cioè l’intermediario fra l’uomo e Dio] l’egoismo». Ed ecco allora, conclude, perché «… noi protestanti abbiamo un clero completamente mondanizzato: funzionari, persone di rango, uomini con moglie e bambini, schiavi come mai nessun altro di tutte le chiacchiere della mondanità» (n. 3084). Di qui anche il grido di risveglio: «Indietro al chiostro, da cui evase Lutero!» (nn. 2885, 2917), e il riconoscimento che «il chiostro era assai meglio della cristianità attuale» (n. 2819) e che il cattolicesimo ha sempre qualche cristiano «in carattere» (n. 2867).

Ecco perché Kierkegaard denunzia alla fine che il mondo ha vinto in Lutero in quanto si è assunto il programma di «rendere la vita più facile» e di «togliere i pesi» (n. 1737). Che cosa ha fatto in sostanza il protestantesimo, abolendo il chiostro, se non buttarsi in braccio alla mondanità e alla politica (nn. 1596, 2948)? Mentre i cattolici pregano la Vergine madre di Dio (n. 93), il protestantesimo non ha forse messo sul trono la donna terrena (n. 2889)? E non ha abolito la canonizzazione cattolica degli asceti e dei martiri per canonizzare i titolari della corporazione dei filistei (n. 2367)? In sostanza, il protestantesimo ha ribassato sull’esigenza cristiana e non mostra più che il cristianesimo è l’assoluto (n. 2973) e il «paradosso» che dà scandalo (n. 2975): perciò il protestantesimo, è eudemonismo dal principio alla fine eliminando l’ascesi, il celibato, il martirio (n. 2932). E si è giunti al punto, osserva amaramente Kierkegaard con uno stile degno di san Pier Damiani, che nel protestantesimo la religiosità si identifica con la propagazione della specie, con il matrimonio (n. 3186). Lutero pretendeva che era impossibile vivere casti fuori del matrimonio ma perché? perché gli uomini erano diventati così dissoluti e sensuali. Ma la Riforma diventa allora una cosa curiosa, specialmente quando si deve strombazzare ai quattro venti il gran progresso cristiano che si dice essa sia. Essa invece si rivela sempre più una concessione fatta alla libidine o alla sensualità. Non stupisce allora che nel protestantesimo si sia giunti al punto di considerare l’uomo celibe come un oggetto di ridicolo, alla stregua di uno stivale spaiato, cioè qualcosa che sbaglia la sua destinazione quando non è abbinato a un altro (n. 3226). Ecco perché la dottrina di Lutero non è la dottrina di Cristo: Lutero ha alterato il cristianesimo alterando la dottrina del martirio e combattendo la verginità (n. 2914).

Tutto questo significa per Kierkegaard che il celibato dà il criterio assoluto, quando sia ‑ come deve essere secondo l’ascetica cristiana ‑ proposito di purificazione dello spirito da ogni aderenza al mondo, segno della trascendenza esistenziale del cristianesimo (n. 3227). E nota in margine: «Tutti quelli che in verità hanno insegnato gli ideali, hanno anche elogiato il celibato. Sposarsi è rendere il proprio rapporto all’ideale così difficile, che ordinariamente equivale all’abbandono dell’ideale» (n. 3241). E i testi si potrebbero ancora moltiplicare facilmente. Essi costituiscono un esempio unico e singolare forse in tutto il cristianesimo dell’Ottocento, in un’epoca in cui nella stessa Germania cattolica fermentavano aspri movimenti contro il celibato (3).

Certamente a questo approfondimento singolare e beatificante della capacità elevante del celibato molto contribuì il suo rapporto con Regina, ma soprattutto le sue letture della letteratura cristiana antica e dei Padri sia apostolici sia posteriori, in particolare sant’Agostino, le cui opere figurano nella sua biblioteca. Un ampio testo del 1854-1855, che porta il titolo Celibato, svolge il pensiero che «Dio vuole il celibato, perché vuole essere amato», così che «ogni volta che si attua il celibato per amore di Dio, ci si conforma al pensiero di Dio». E conclude: «Mi viene quasi da rabbrividire quando penso a quanto avanti mi sono trovato su questa via, e come in modo quasi miracoloso sono stato fermato e spinto indietro allo stato celibe: come anche, comprendendo me stesso, ma comprendendomi come un’eccezione, ho saputo nascondere il mio segreto per i contemporanei, finché ora dopo tanto cammino vedo come la Provvidenza ancora mi ha assistito e vuole ottenere da tutto questo qualche risultato concreto. Infinita maestà, anche se Tu non fossi amore, anche se Tu fossi fredda nella tua infinita maestosità, io però non potrei fare a meno di amarti, ho bisogno di qualcosa di maestoso per amare. Quello di cui altri si sono lamentati, cioè di non aver trovato l’amore in questo mondo, sentendo perciò il bisogno di amare Te, perché Tu sei l’amore (ciò che io concedo in pieno), vorrei proclamarlo anche nei riguardi del maestoso. C’era e c’è nell’anima mia un bisogno della maestà, di una maestà che mai mi sentirò stanco o tediato di adorare» (n. 3189). Quindi «…il cristianesimo tiene fermo per il celibato, e io non farò come Lutero (me ne guarderò bene!), non dirò come lui che sembra che Paolo non vada d’accordo con Cristo. Non dirò: Cristo sia messo in disparte; è Paolo l’uomo che ci vuole!» (n. 3193). Anche questa sua crescente e fiammante apologia del celibato rivela la sua tendenza cattolicizzante (4), come oggi i ritorni di fiamma e le aperte condiscendenze al sacerdozio uxorato che serpeggiano nella Chiesa rivelano l’allentamento crescente e preoccupante della tensione esistenziale per la donazione infinita dell’anima nel suo impeto di ascesa al suo Dio.

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(1) Le citazioni rimandano ai numeri di S. Kierkegaard, Diario, cur. C.Fabro, Bur, Milano.

(2) In questa diagnosi pessimistica del clero danese concordava, benché avesse rifiutato di riconoscere in pubblico il buon diritto della critica di Kierkegaard, lo stesso vescovo Mynster, come ora si può rilevare dagli Atti delle sue visite pastorali, recentemente pubblicati: J.P. Mynsters Visitatsbörger 1835-1853, a cura di B. Kornerup, Copenhagen 1937, due volumi. Cfr. a questo proposito il nostro studio: L'attività oratoria dottrinale e pastorale di un vescovo luterano dell'Ottocento: J.P. Mynster, in corso di pubblicazione [Sarebbe comparso in "Ricerche di storia sociale e religiosa", giugno-luglio 1973].

(3) Contro di essi insorse il grande spirito di J.A. Möhler, ben conosciuto da Kierkegaard.

(4) S. Geismar, Sören Kierkegaard. Seine Lebensentwicklung und seine Persönlichkeit, Gütersloh, Gottinga 1929, pp. 585 s., sembra collegare questa difesa del celibato alla lettura di Schopenhauer. In realtà le due posizioni hanno fondamenti profondamente diversi: nell'ateo e anticristiano èSchopenhauer il pessimismo, in Kierkegaard è l'elevatezza dell'ideale cristiano secondo l'esempio di Cristo e dei Santi a esigere il celibato. Inoltre si può osservare che Kierkegaard si accosta a Schopenhauer soltanto nell'ultimo scorcio della vita, tra il 1854 e il 1855.

Fonte: Cornelio Fabro, L'avventura della teologia progressista, Milano 1974, Rusconi, pp. 265-271.

lunedì 13 febbraio 2017

Francesco chiede giuramento di fedeltà ai Cardinali del Consiglio per le Riforme. Qualcosa è accaduto o sta per accadere

Riprendiamo qui di seguito la notizia pubblicata oggi dal sito americano Life Site News (vedi quisecondo cui i dieci Cardinali del Consiglio delle riforme avrebbero prestato giuramento a Francesco. Il vaticanista Nick Donnely ha commentato sulla sua pagina Facebook: "Il giuramento di fedeltà prestato dal Consiglio dei Cardinali fa pensare che qualcosa sia accaduto o stia per accadere". Vedi qui anche traduzione e commento curati da Chiesa e Postconcilio. 


ROME, February 13, 2017 – In an odd note without explanation placed on the Vatican's daily press briefing today, the Council of Cardinals, a group of 10 Cardinals which Pope Francis has delegated to work with him on reform, has pledged allegiance to the Pope.

“In relation to recent events, the Council of Cardinals pledges its full support for the Pope’s work, assuring him at the same time of its adhesion and loyalty to the figure of the Pope and to his Magisterium,” said the note. The statement comes in the wake of two public expressions of dissatisfaction or concern with Pope Francis that hit the streets of Rome in the last week. The first was a poster campaign which saw dozens of large posters plastered around the city. They noted Francis’ dismantling congregations, removing priests and more, and asked in conclusion, “Where is your mercy?” The second was a satirical version of the Vatican newspaper L’Osservatore Romano painting the Pope as answering the dubia with ‘yes and no’ to each question. Cardinal Marc Ouellet, prefect of the Congregation for Bishops, last week criticized the poster campaign as a "work of the devil." However, the Cardinal was criticized for his condemnation of the public expression of the faithful given that he has direct access to the Pope, whereas the laity do not. Responding to his criticism of the poster campaign, blogger Hilary White, LifeSite’s former Rome correspondent, said: “Really? They’re not the methods we’re supposed to use? What would your eminence suggest? Dubia, perhaps? Formally submitted by the lawful authority and in accordance with the requirements of Canon Law? How’s that working out?” The Council of Cardinals' statement of allegiance would seem to suggest that public campaigns are more effective at reaching the Pope than the many official complaints of Cardinals, Bishops, priests, and faithful.

The members of the Council of Cardinals are: Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, SDB, Archbishop of Tegucigalpa, Honduras (coordinator) Marcello Semeraro, Bishop of Albano, Italy (Secretary) Giuseppe Bertello, President of the Pontifical Commission for the Vatican City State Francisco Javier Errázuriz Ossa, Archbishop-Emeritus of Santigo de Chile Oswald Gracias, Archbishop of Bombay, India Reinhard Marx, Archbishop of Munich and Freising, Germany Laurent Monsengwo Pasinya, Archbishop of Kinshasa, Congo Seán Patrick O'Malley OFM Cap, Archbishop of Boston, USA George Pell, Prefect of the Secretariat for the Economy, Vatican Pietro Parolin, Secretary of State, Vatican

domenica 12 febbraio 2017

Tra libelli infedeli e pastori ancora cattolici. Le prime voci sulla tragedia in corso nella Chiesa

Nelle ultime ore si stanno succedendo notizie gravi attorno a un'interpretazione autentica dell'Amoris Laetitia finalmente formulata dal Papa, sulla già avvenuta "correzione fraterna" del Papa da parte dei Cardinali fedeli all'ortodossia cattolica, sulle dimissioni del Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede e persino sul comportamento conseguente del Cardinale Burke. A tutti ciò si aggiungono le voci sulla possibilità che Francesco ammetta i protestanti all'intercomunione. Riportiamo qui di seguito la nota equilibrata di Chiesa e Postconcilio.

Gran sommovimento nell'orbe cattolico nel quale i venti della rivoluzione bergogliana soffiano sempre più impetuosi.
Due notizie al volo, ancora in attesa di conferma. Il vaticanista Nick Donnelly su twitter, rilanciato dal blog Vox Cantoris (qui), riporta voci dalle "sacre" mura secondo cui il cardinale Müller si sarebbe dimesso e sarebbe già avvenuta, per il momento in privato, la "correzione fraterna", in ragione della mancata risposta del papa ai Dubia (qui). Quest'ultima notizia coinciderebbe con quanto a suo tempo dichiarato dal cardinale Burke ed è in linea con lo stile ecclesiale dei quattro cardinali, rispettoso chiaro ed essenziale, ma estraneo ai clamori mediatici. Inoltre, da un twit di Edward Pentin, altro noto vaticanista: la posizione del Papa attuale è favorevole ad ammettere l'intercomunione con i protestanti, in alcuni casi (ma di fatto alcuni casi già vanificano i principi): "Cardinal Kasper: allowing intercommunion with Protestants in some cases is "the position of the current Pope".
Di questa preoccupante deriva, come pure dei rischi di una ulteriore manomissione della Liturgia abbiamo parlato qui e qui. Per chi volesse approfondire la tematica all'origine dei Dubia: archivio articoli sull'Amoris laetitia.

Preoccupante anche, vedi nel commento odierno di Chiesa e Postconcilio (qui) e di RadioSpada (qui), la recentissima pubblicazione di un libello del Cardinal Coccopalmerio su Il capitolo ottavo dell'Esortazione Apostolica Amoris Laetitia (Libreria Editrice Vaticana) che costituirebbe già una risposta indiretta di Francesco ai Dubia dei quattro Cardinali nel senso della possibilità dell'accesso alla Santa Comunione al di fuori delle condizioni di Familiaris Consortio nr. 84 (sul punto invece, una per tutte, la posizione cattolica di Monsignor Vitus Huonder (qui)).

Inutile sottolineare che, se questo quadro si dovesse confermare, i problemi ai quali oggi bastano alcune risposte, si riproporrebbero in un nuovo contesto, assai più grave del precedente. Tali variazioni, benché disposte al di fuori delle forme dell'infallibilità, riguarderebbero comunque la Fede e si risolverebbero ultimamente in un'aperta esortazione alla profanazione del Corpo eucaristico e del Corpo Mistico di Nostro Signore Gesù Cristo.

venerdì 10 febbraio 2017

Il nominalismo del Vescovo di Roma e la tragedia della fede

"E' evidente che una fede nominalista e una preghiera informale sono le vesti calzanti di una coscienza autonoma. É la coscienza che crede e prega secondo la propria esperienza del 'Cristo', e, secondo le stesse parole del Vescovo di Roma, noi dobbiamo incitare il soggetto della coscienza autonoma 'a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene'. Che si tratti qui dello stesso Cristo che disse a Pietro 'Pietro tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa" (Mt 16,16), è lecito e doveroso dubitare".
Dopo più di tre anni ciò che si paventava nell'articolo che qui riproponiamo, sembra essere diventato la sostanza e il senso di un intero Pontificato e del suo Magistero ordinario. 

Il nominalismo del Vescovo di Roma e la tragedia della fede

Uno dei passaggi più difficoltosi dell'intervista rilasciata da papa Francesco a Eugenio Scalfari e apparsa su la Repubblica il primo di ottobre riguarda l'affermazione della autonomia della coscienza:

Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?

«Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene».

Lei, Santità, l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa.

«E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo».


Queste affermazioni la cui mera enunciazione sembra contraddire il magistero precedente dei Sommi Pontefici, trovano il loro sistema nell'omelia di Santa Marta del 17 ottobre. In essa si sottolineano due aspetti:

- La contrapposizione di un cristianesimo infecondo dei dogmi e dei precetti(liquidato come "ideologia") a un cristianesimo autentico della sequela di Cristo:

“La fede passa, per così dire, per un alambicco e diventa ideologia. E l’ideologia non convoca. Nelle ideologie non c’è Gesù: la sua tenerezza, amore, mitezza. E le ideologie sono rigide, sempre. Di ogni segno: rigide. E quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero, di questo... E per questo Gesù dice loro: ‘Voi avete portato via la chiave della conoscenza’. La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni”.
- La conseguente contrapposizione tra chi "dice le preghiere" e chi "prega":

“La chiave che apre la porta alla fede è la preghiera ... Quando un cristiano non prega, succede questo. E la sua testimonianza è una testimonianza superba ... è un superbo, è un orgoglioso, è un sicuro di se stesso. Non è umile. Cerca la propria promozione... quando un cristiano prega, non si allontana dalla fede, parla con Gesù ... dico pregare, non dico dire preghiere, perché questi dottori della legge dicevano tante preghiere” ... Una cosa è pregare e un’altra cosa è dire preghiere... Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù. E quando un profeta o un buon cristiano li rimprovera, fanno lo stesso che hanno fatto con Gesù: ‘Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile – questi ideologici sono ostili – e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie – sono insidiosi – per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca’. Non sono trasparenti. Eh, poverini, sono gente sporcata dalla superbia. Chiediamo al Signore la grazia, primo: non smettere di pregare, per non perdere la fede, rimanere umili. E così non diventeremo chiusi, che chiudono la strada al Signore”.


Il primo aspetto ribadisce la posizione antimetafisica di Bergoglio: non sono le oggettivazioni del Credo a costituire oggetto della fede, anzi esse sono "ideologia" proprio perchè oscurano la vera esperienza di Cristo da parte del soggetto. Tra l'uomo e la fede viene meno l'intelletto e della fede non si può dire "quaerens intellectum". Gli oggetti della fede non sono più che nomina.

Il secondo aspetto sembra legarsi strettamente al primo. Se la fede è esperienza di Cristo - debellatrice dei dogmi sulla fede e sull'ordine morale -, la preghiera deve differenziarsi radicalmente dal "dire preghiere". "Dire preghiere" è infatti osservanza delle forme di preghiera in maniera tale che la lex orandi sia costantemente in armonia con la lex credendi della Chiesa cattolica e che la preghiera della Chiesa, che è Corpo Mistico di Nostro Signore Gesù Cristo, sia la preghiera di ognuno. Pregare, come credere, diventa per Bergoglio un'inconoscibile sequela di Cristo, mentre il deposito della fede un ostacolo: un'ideologia.

Il ribaltamento di prospettiva è evidente. Orgoglioso è chi crede gli oggetti della fede e chi "dice preghiere" con la Chiesa, mentre umile è chi si impegna rimuovere il deposito della fede e così "apre la Chiesa" e prega informalmente. In altri termini umile, cristiano, cattolico (e l'universalità? la romanità? l'apostolicità?) è colui che crede e prega senza la Chiesa.

In particolare il ricorso polemico da parte di Bergoglio alle ammonizioni di Gesù Cristo ai farisei non sembra condivisibile, giacchè Cristo non chiedeva ai farisei di fondare una chiesa extra ecclesiam, ma una perfetta coerenza con i precetti (pienamente conoscibili, tramandati e tramandabili!) della Chiesa (ancora il vecchio Israele). Certamente Nostro Signore Gesù Cristo non fondò una Chiesa (il nuovo Israele) informale, liberale e antiliturgica.

È evidente che una fede nominalista e una preghiera informale sono le vesti calzanti di una coscienza autonoma. È la coscienza che crede e prega secondo la propria esperienza del "Cristo" e, secondo le stesse parole del Vescovo di Roma, noi dobbiamo incitare il soggetto della coscienza autonoma "a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene". Che si tratti qui dello stesso "Cristo" che disse a Pietro "Pietro tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa" (Mt 16, 16), è lecito e doveroso dubitare.

Se questa fede nominalista e questa preghiera informale costituiscono il programma del Vescovo di Roma, sono da aspettarsi conseguenza catastrofiche per la fede e per la liturgia. I presagi di ciò non sono sino ad oggi mancati.

mercoledì 8 febbraio 2017

Ritorna la Messa ambrosiana antica a Lecco. Una conferenza di don Marino Neri come vademecum

A Lecco domenica 12 febbraio, dopo decenni di silenzio, riprende la celebrazione della Santa Messa secondo il Rito ambrosiano tradizionale.
Per ora la Liturgia sarà celebrata ogni seconda domenica del mese, alle ore 17,30, nella antica Chiesa di Santa Marta, in via Mascari nel centro della città lariana.
Non c'è bisogno di sottolineare l'importanza dell'evento se non osservando che ogni Messa antica celebrata con stabilità riporta tra le comunità le forme ortodosse della lex orandi e con esse l'ortodossia del Credo cattolico in un tempo di errore e di eresia diffusi. La riconoscenza va incessantemente a Benedetto XVI che riconobbe con il Motu proprio Summorum Pontificum la costanza delle forme liturgiche antiche.

Riportiamo qui di seguito il testo di una interessantissima conferenza di Don Marino Neri che potrà servire da utile introduzione al Rito ambrosiano antico.

Il Rito romano e la tradizione liturgica della Chiesa milanese

Per iniziare, bisogna dire che il rito ambrosiano non l’ha inventato sant’Ambrogio: frase a effetto, questa, per dire che il complesso cerimoniale che appartiene alla comunità cristiana di Mediolanum precede l’elezione di Ambrogio sulla cattedra milanese nel 374. Del resto, se consideriamo i cataloghi episcopali, possiamo collocare attorno alla prima metà del III secolo il costituirsi di una stabile gerarchia ecclesiastica che la tradizione locale fa scaturire dal vescovo Anatalo (o Anatalone). «La Chiesa […] che viene affidata ad Ambrogio è dunque una comunità già dotata dei suoi spazi cultuali, con aspetti di disciplina rituale pienamente consolidati e alcuni testi che ai tempi di Ambrogio appaiono ormai stabilmente legati a specifici giorni dell’anno. L’Ambrosianum mysterium non nasce pertanto con Ambrogio e affonda le proprie radici nella vicenda ecclesiale che precedette Ambrogio stesso». Se svariate sono state – e sono ancor oggi – le ipotesi circa le origini storiche del rito ambrosiano, in questa sede, fatte le dovute valutazioni di sintesi, esporremo quella che a nostro parere (e non solo nostro) appare essere la congettura più esaustiva. Se tralasciamo teorie ormai sorpassate per l’avanzare degli studi come quella che riteneva la liturgia ambrosiana derivata da quella efesina; o che la identificava con la liturgia romana prima di papa Damaso (366-384); o ancora, quella che ebbe maggior credito, che le usanze cultuali milanesi del sec. IV andavano ricondotte all’uso gallicano tout court; tutto ciò premesso, oggi due sembrano essere le direttrici fondamentali:
  1. esso ha un’origine prettamente orientale (Duchesne, Alzati, Cattaneo);
  2. esso affonda le proprie radici nel rito romano (Ceriani, Battifol, Jungmann, Triacca).
Circa quest’ultima valutazione, appare assai interessante, se non addirittura dirimente nei termini, quanto Ambrogio stesso afferma, in un’opera ormai riconosciuta come ambrosiana – il De sacramentis - in sacr. 3, 5 a proposito di alcuni riti post-battesimali (si riferisce alla lavanda dei piedi che il vescovo milanese compiva nei confronti dei battezzati una volta risaliti dal fonte):
Non ignoramus quod ecclesia Romana hanc consuetudinem non habeat, cuius typum in omnibus sequimur et formam. […] In omnibus cupio sequi ecclesiam Romanam, sed tamen et nos hominis sensum habemus. Ideo quod alibi rectius servatur et nos rectius custodimus.
Questa testimonianza di prima mano afferma due cose fondamentali: la prima è che Ambrogio recepisce con ossequio la tradizione romana, entro la quale implicitamente intende collocare la ritualità della sua chiesa locale; l’altra è che egli non elimina stolidamente tutto ciò che romano non è, ma viene incontro a quella che è una tradizione locale (precedente e/o a lui contemporanea) che – egli afferma - ha tuttavia buone ragioni spirituali per mantenersi, “inculturando” in qualche modo il rito romano, pur nella preservazione dei suoi elementi costitutivi. Certamente non mancano tratti orientali in ambito cerimoniale, come p. es. i melismi del canto, il canto dei salmi con antiphonae che servivano da responsorio per i fedeli, oltre che gallicani, come p. es. alcuni elementi eucologici o il complesso sistema delle antifone nella Messa.
Dunque se non è Ambrogio a “creare” il rito che si chiama “ambrosiano”, egli certamente lo promuove massimamente, sempre più obbediente cum grano salis, a quella che egli indica come regola da osservarsi, cioè la liturgia romana. Se molto apportò Ambrogio al rito, tuttavia a noi restano pochissime testimonianze dirette della sua mano nella liturgia se si escludono gli inni certamente ambrosiani e poco altro. Comunque sia, l’impulso e l’opera liturgico-pastorale di Ambrogio fu tale che, almeno a partire dall’età di Gregorio Magno la chiesa di Milano è detta “ambrosiana” e, quantomeno dall’età carolingia, con questa qualifica viene identificata la sua liturgia. È infatti a far data da una lettera del febbraio 881 scritta da papa Giovanni VIII (872-882), che la chiesa milanese è chiamata col termine di Ambrosiana ecclesia, benché il riferimento a sant’Ambrogio comparisse già in un’epistola vergata dalla cancelleria papale di Gregorio I attorno al settembre dell’anno 600, quando  dopo la morte del vescovo Costanzo, viene acclamato pastore il diacono Adeodato. In essa compaiono due locuzioni significative, che ormai senza dubbio identificano i presuli milanesi non come successori del protovescovo Anatalone, bensì di sant’Ambrogio. In un locus Gregorio squalifica il preteso successore di Costanzo, indicato dal re longobardo Agilulfo, come vicarius sancti Ambrosii indignus, mentre chiama i chierici milanesi sancto Ambrosio servientibus clericis.
Spenderò ancora alcune parole, seppur in sintesi estrema, circa l’opera di Ambrogio, a partire dalle fonti di prima mano – cioè le opere ambrosiane – anche perché tutto quanto noi sappiamo del rito così come è giunto fino a noi è presente in testimoni che non risalgono indietro oltre l’età carolingia. Ad Ambrogio è da ascriversi l’uso di portare a Milano la celebrazione quotidiana dell’Eucarestia, innovando rispetto alla ratio communis di celebrare unicamente una Messa solo in giorno di domenica o di adunanze festive, lasciando gli altri giorni all’ufficiatura salmica e innodica. Di questo fatto assai importante riporto due testimonianze molto chiare:
Stabat ad aram Dei pudoris hostia, victima castitatis, nunc capiti dexteram sacerdotis inponens, precem poscens, nunc iustae impatiens morae ac summum altari subiecta verticem: “Num melius” – inquit – “maforte me quam altare velabit, quod sanctificat ipsa velamina? Plus talis decet flammeus, in quo caput omnium Christus cotidie consecratur”.
Hunc panem dedit apostolis, ut dividerent populo credentium, et hodieque dat nobiscum, quem ipse sacerdos cotidie consecrat suis verbis.
L’usanza quotidiana della Messa rispetto a quella ebdomadaria, dopo la metà del secolo, va introducendosi anche in altre grandi Chiesa metropolitane come p. es. Roma, Gerusalemme, Costantinopoli. È per di più in Ambrogio la prima attestazione dell’uso, nella chiesa milanese, del canone romano, la regola di consacrazione più antica propria dei riti latini. Riporto per esteso il lungo, ma interessante passo del De sacramentis (4, 21-27):
21. Dicit sacerdos: Fac nobis, inquit, hanc oblationem scriptam, rationabilem, acceptabilem, quod est figura corporis et sanguinis domini nostri Iesu Christi. Qui pridie quam pateretur, in sanctis manibus suis accepit panem, respexit ad caelum, ad te, sancte pater omnipotens aeterne Deus, gratias agens benedixit, fregit, fractumque apostolis et discipulis suis tradidit dicens: accipite et edite ex hoc omnes; hoc est enim corpus meum, quod pro multis confringetur. - Adverte! –
22. Similiter etiam calicem, postquam cenatum est, pridie quam pateretur, accepit, respexit ad caelum, ad te, sancte pater omnipotens aeterne Deus gratias agens benedixit, apostolis et discipulis suis tradidit dicens: accipite et bibite ex hoc omnes; hic est enim sanguis meus. Vide: illa omnia verba evangelistae sunt usque ad “accipite”, sive corpus sive sanguinem. Inde verba sunt Christi: “accipite et bibite ex hoc omnes; hic est enim sanguis meus”.
23. Et vide singula: “Qui pridie”, inquit, “quam pateretur, in sanctis manibus suis accepit panem”. Antequam consecretur, panis est; ubi autem verba Christi accesserint, corpus est Christi. Denique audi dicentem: “Accipite et edite ex hoc omnes: hoc est enim corpus meum”. Et ante verba Christi calix est vini et aquae plenus; ubi verba Christi operata fuerint, ibi sanguis efficitur, qui plebem redemit. Ergo videte, quantis generibus potens est sermo Christi universa convertere. […]
26. Deinde quantum sit sacramentum cognosce. Vide quid dicat: quotiescumque hoc feceritis, totiens commemorationem mei facietis donec iterum adveniam.
27. Et sacerdos dicit: Ergo memores gloriosissimae eius passionis et ab inferis resurrectionis et in caelum ascensionis offerimus tibi hanc inmaculatam hostiam, rationabilem hostiam, incruentam hostiam, hunc panem sanctum et calicem vitae aeternae. Et petimus et precamur, uti hanc oblationem suscipias in sublime altare tuum per manus angelorum tuorum, sicut suscipere dignatus es munera pueri tui iusti Abel et sacrificium patriarchae nostri Abrahae et quod tibi obtulit summus sacerdos Melchisedech.
Da ultimo, solo fugacemente, cito un riferimento ambrosiano in cui si segnala un fatto importante di “teologia liturgica”, diremmo oggi:
Non enim omnes vident alta mysteriorum quia operiuntur a levitis ne videant qui videre non debent, et sumant qui servare non possunt.
Faccio notare solo tre cose:
  1. L’altare è chiaramente “orientato ad Deum” (verisimilmente la facciata della chiesa era orientata a est), se si ritiene che a un certo punto bisogni nascondere qualcosa al popolo, altrimenti l’atto sarebbe controproducente ovvero inutile; 
  2. quanto di più santo accade nella Messa è velato, dai diaconi o da tendaggi che coprivano il presbiterio: questo accade per i normali fedeli così come per gli eretici o pagani verso i quali sembra essere rivolto questo provvedimento; 
  3. d’altro canto, la partecipazione dei fedeli cattolici non appare per nulla essere pregiudicata da questo atto di “velamento” né è scambiata – come si sente dire da qualche tempo a questa parte – con un banale “vedere”, per di più ideologicamente spacciato come antico o di età patristica: talora, il non vedere con gli occhi fisici acuisce una vista spirituale ancora più efficace e ricettiva.
Da questi pochi tratti – e si potrebbe continuare p. es. circa l’ordinamento delle letture, i riti battesimali e gli altri riti della Chiesa milanese – non solo comprendiamo quanto il rito ambrosiano si inserisca pienamente nella tradizione romana, ma anche quanto esso debba ad Ambrogio stesso in ordine all’inserimento del genius loci in quel medesimo filone, senza stravolgimenti o adulterazioni, ma attraverso un rispettoso processo di integrazione e di prudente valorizzazione. Cosa che è qua e là ancora rintracciabile da parte degli studiosi nella liturgia che nel corso dei secoli è venuta codificandosi fino ai giorni nostri. Ne è un esempio il canone, di cui ho sinteticamente reso ragione: non certo di mano ambrosiana (probabilmente una traduzione dal greco di età damasiana), e pur tuttavia conservato con una certa “fedeltà all’originale” da quel rito che da Ambrogio prende il nome, di contro a ulteriori mutamenti (sebbene di lieve entità) apportati nella sua redazione romana. È insomma tra le righe che è possibile evidenziare il sottile fil rouge che caratterizza fino a oggi la Chiesa milanese: ed è l’imponente figura di Ambrogio che, a partire dal rito romano, suggellerà con la sua autorità molte parti dell’antico rito romano/milanese, sottraendole a ulteriori evoluzioni (che in molte parti il rito romano ha subito) e consegnandole così alla storia come propriamente ambrosiane! Risulta pertanto importante notare, in questa sede, l’ascendenza del rito milanese rispetto al romano e la loro progressiva diversificazione senza mai perdersi di vista. Le differenze si andranno accentuando a partire soprattutto dal pontificato di papa Gregorio Magno (590-604).
In sintesi estrema, va detto che la liturgia ambrosiana – specie il rito della Messa di cui ci occupiamo – ha delle sue caratteristiche primordiali che emergono lungo la storia e sono ancor oggi evidenti:
  1. La profonda matrice antiariana che accompagnerà l’eucologia contro l’eresia del IV secolo, ma anche contro i suoi epigoni longobardi fino almeno all’VIII secolo, ma anche oltre. Questo comporta una spiccata fioritura di tematiche teologiche relative all’umanità di Cristo, quali la sua Incarnazione, la sua nascita verginale, la sua Passione, oltre che la conseguente venerazione per sua Madre Maria SS.: in questo senso, non è difficile ravvisare simili tematiche nella liturgia bizantina. A questo si aggiunga uno stile delle orazioni molto diverso dalla brevitas e dalla gravitas romane: evoluzioni concettuali e stilistiche contraddistinguono le antiche orazioni ambrosiane e le avvicinano in parte a quelle gallicane e ispaniche;
  2. l’innegabile matrice orientale antica: del resto è possibile ipotizzare che il primo nucleo di cristianesimo a Milano sia provenuto proprio dall’Oriente, come del resto i primissimi pastori Anatalone, Calimero, Mona, Mirocle. Questo in parte giustifica i tratti di una liturgia molto ricca di antifone su modello di quelle orientali (si contano p. es. sei antifone variabili all’interno del rito della Messa, oltre ad altri canti mobili: ingressa, ant. ante Evangelium - solo in feste particolari -, ant. post Evangeliumoffertorium, confractoriumtransitorium), assieme ad alcuni evidenti lasciti come p. es. la posizione della professione di fede (Credo) dopo l’Offertorio, determinati moduli del canto, la distribuzione di certe pericopi evangeliche, specie nelle domeniche di Quaresima, le benedizioni ante lectionem dei ministri, ecc.;
  3. contaminatio rituale ed eucologica da parte di altri riti: oltre a quello orientale, di cui si è detto, anche quello gallicano, ispanico, africano, dovuto se non altro a un fatto: che Mediolanum, fin dall’età celtica e poi gallica, è luogo di passaggio, di scambio commerciale e ideologico, avamposto e centro di potere militare e/o civile, e dunque, nell’era cristiana, anche fucina di incontro e di interscambio tra differenti famiglie rituali. Cito solo, a mo’ di esempio, questo relitto della liturgia gallicana mantenutosi fino ai giorni nostri, che fa vedere la permeabilità del rito ambrosiano a influssi esogeni: e mi riferisco a due formulari di Canone o prex eucharistica assegnati per la feria V in Coena Domini e per il sabbatum Sanctumcontrassegnati nei messali moderni dalla dicitura Canon huius Missae e che evidenziano una struttura assai arcaica e piuttosto differente dal Canone romano, così come lo stesso Ambrogio ce lo ha attestato nel De sacramentis.
Citando parole del noto liturgista Achille Maria Triacca, che ha dedicato notevoli capitoli della sua attività di ricerca proprio all’argomento in questione, possiamo distinguere tre fasi della formazione e codificazione del rito ambrosiano: «La prima redazione risale al sec. IV-V… La seconda redazione… ha il suo apogeo nel sec. VII… La terza redazione è quella carolingia (IX-X) che… attesta una progressiva romanizzazione coatta, ma anche un più duraturo “cristallizzarsi” della liturgia ambrosiana». Se la fioritura del VII secolo ha dato grande impulso alla riflessione sui riti e all’amplificazione innodica ed eucologica dei medesimi, la riforma carolingia, nella sua opera di romanizzazione a vari livelli, non solo liturgica, ha contribuito a dare coscienza maggiore di sé al rito, portandolo appunto a quell’ “ambrosianità” fieramente conscia di sé e dei suoi tratti specifici che ancora oggi permane. Testimone di quest’ultima fondamentale fase dell’evoluzione del rito è un’opera posteriore all’epoca carolingia, che è tuttavia il vero e proprio collettore di tutte le fasi precedenti e che, seppur con qualche necessario distinguo, consegnerà la liturgia ambrosiana alle epoche successive fino a giungere al 1962, ed è Beroldo.
Egli è vissuto a Milano nella prima metà del secolo XII e ci ha lasciato, tra le altre opere, un Ordo et caerimoniae Ecclesiae Ambrosianae Mediolanensis, scritto poco dopo la morte dell’arcivescovo Ulrico da Corte (28 maggio 1126). Esso costituisce, in certo senso, il momento conclusivo del lungo processo di assestamento disciplinare della Chiesa ambrosiana finora per sommi capi descritto, ed è fonte basilare per la conoscenza della liturgia milanese quanto alle dignità della cattedrale, alle cerimonie del mattutino, del vespro, della messa, e, generalmente, delle vigilie delle feste e delle feste minori e maggiori. Beroldo descrive sempre le celebrazioni cardinalizie, dunque nella loro forma più solenne e completa. Con l’Alzati, si può pertanto affermare iuxto iure che «la forma organica assunta da questo libro nella sistemazione carolingia, e di fatto in quel contesto affermatasi, non sarebbe più stata smentita nei suoi lineamenti fondamentali, trasmettendosi con una singolare stabilità, si può dire fino agli anni del concilio Vaticano II».

Nonostante alterne vicende e il susseguirsi in terra milanese di vari dominati, il rito ambrosiano si mantenne pertanto saldo fino ai giorni nostri, grazie anche alla mano potente e all’intelligenza di studiosi e di pastori specie del secondo millennio dell’era cristiana, quali gli arcivescovi Francesco da Parma (1296-1308), Francesco II Piccolpasso (1435-1443), Carlo Borromeo (1560-1584), Federico Borromeo (1595-1631), Giuseppe Pozzobonelli (1744-1783), la cui edizione del Messale - confluita nel cosiddetto Missale Ambrosianum Duplex – sarà l’antesignano dell’edizione tipica pubblicata dal card. Andrea Ferrari (1894-1921). L’ultimo importante avvenimento nella storia del rito ambrosiano è la pubblicazione del Messale ambrosiano duplex, nel 1913, su lavoro e studio di mons. Antonio Ceriani, per l’opera redazionale di Achille Ratti (successore del Ceriani come Prefetto dell’Ambrosiana, poi card. Arcivescovo e quindi papa Pio XI) e mons. Marco Magistretti. Le ultime edizioni iuxta typicam dei libri liturgici ambrosiani, Missale compreso, è quella che porta l’imprimatur del b. card. Alfredo Ildefonso Schuster (1929-1954), tenendo conto sempre che la semplificazione delle rubriche secondo il Motu proprio Rubricarum instructum (25 giugno 1960) del Sommo Pontefice Giovanni XXIII è stata operata sotto l’episcopato del card. Giovanni Battista Montini (1954-1963), poi Paolo VI (1963-1978).

Concludendo: la liturgia ambrosiana, nell’ambito dei riti latini, sembra trarre origine dal rito romano, pur con influssi orientali e di altri riti occidentali; si radica e si arricchisce con l’opera di Ambrogio; si stabilizza in età carolingia; giunge quindi attraverso i secoli fino a noi nella sua forma pura. Forma che – per i sopraddetti motivi storico-liturgici che ho fin’ora esposto – non deve in alcun modo essere ostacolata, impedita o vietata: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto» (P.P. Benedetto XVI, Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione della lettera motu proprio data Summorum Pontificum, 2007). E se questo si applica a tutte le varietà del rito romano, compresi i riti propri degli ordini religiosi, a fortiori può pure trovare applicazione presso tutta la famiglia rituale latina, di cui la liturgia ambrosiana è nobile e preclara espressione.

Conferenza tenuta a Seregno l'11 gennaio 2013.

Fonte Chiesa e Postconcilio (vedi qui)

sabato 4 febbraio 2017

La santità del vincolo matrimoniale. L'Amoris Laetitia e le indicazioni di Monsignor Huonder al suo clero

"Instaurare omnia in Christo" è la sua divisa episcopale. Eletto nel 2007 dal Capitolo della Cattedrale di Coira e confermato Vescovo della Diocesi della stessa città da Benedetto XVI, Monsignor Vitus Huonder si è dimostrato in molte occasioni uno dei più fermi difensori della Fede e della Tradizione cattolica in terra elvetica.
Il 2 Febbraio scorso ha inviato ai sacerdoti della sua Diocesi una lettera intitolata "Die Heiligkeit des Ehebandes - La santità del vicolo matrimoniale" (vedi qui e riassuntivamente qui) nella quale stabilisce alcune direttive per i confessori entrando nel merito del discusso Capitolo VIII dell'Esortazione Apostolica Amoris Laetitiae. Pur nella sua finalità pastorale e nel suo tono del tutto mite e sereno, questo documento appare importante perché il Vescovo della Diocesi più antica della Svizzera fa coincidere i propri parametri interpretativi, elevandoli a criteri normativi per tutto il suo clero, con quelli su cui si sono sapientemente fondati i Cardinali Brandmüller, Burke, Cafarra e Meisner nella formulazione dei Dubia a proposito di alcuni punti dello stesso Capitolo VIII della Amoris Laetitia (vedi tra gli altri contributi qui e un'ampia rassegna qui). Come ribadito dagli stessi Cardinali tali principi risalgono ultimamente alle fonti della Rivelazione: Sacra Scrittura e Tradizione. Riportiamo qui di seguito, nella nostra traduzione, la lettera di Monsignor Huonder.


Cari Confratelli nel sacerdozio,

nella discussione del documento post-sinodale Amoris Laetitia l’attenzione si è concentrata sul Capitolo VIII e sulla questione delle persone civilmente risposate. Per questa ragione, nella mia responsabilità di Vescovo, mi accingo a dare alcune indicazioni ad uso dei pastori d’anime e dei confessori.

Innanzitutto vorrei stabilire quanto segue: il Santo Padre nell’introduzione dell’Amoris Laetitia afferma “che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero” (AL 3). Questa dichiarazione permette di riconoscere la rilevanza dell'Esortazione Apostolica post-sinodale.
“Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi” (AL 300), dice il Papa a proposito del discernimento delle singole situazioni irregolari. Ciò significa che il Vescovo è tanto più tenuto a indicare la direzione da seguire dal momento che i Sacerdoti hanno il compito “di accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa” (AL 300). Inoltre “bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia (AL 303). A ciò corrisponde in tutto ciò che il Santo Padre afferma al punto 307 di Amoris Laetitia : “Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza: ‘I giovani battezzati vanno incoraggiati a non esitare dinanzi alla ricchezza che ai loro progetti di amore procura il sacramento del matrimonio, forti del sostegno che ricevono dalla grazia di Cristo e dalla possibilità di partecipare pienamente alla vita della Chiesa’. La tiepidezza, qualsiasi forma di relativismo, o un eccessivo rispetto al momento di proporlo, sarebbero una mancanza di fedeltà al Vangelo e anche una mancanza di amore della Chiesa verso i giovani stessi” [Dubbio 5] (1).

In conformità a queste istruzioni contenute nell’Amoris Laetitia esorto i sacerdoti a osservare le seguenti indicazioni:

1. Punto di avvio dell’accompagnamento, del discernimento e dell’integrazione deve essere la santità del vincolo matrimoniale. Compito della cura delle anime deve essere quello di destare o ridestare la coscienza della santità del vincolo matrimoniale. Il Santo Padre parla della “pastorale del vincolo”. La traduzione tedesca ufficiale di “vincolo” [italiano nel testo] con “Bindung” è troppo debole. Pertanto parlo qui espressamente di “vincolo matrimoniale” [td.: “Eheband”].

2. Il vincolo matrimoniale [“Eheband”], che è già santo nell’ordine creato (matrimonio naturale), lo è tanto più nell’ordine della nuova creazione (ordine della Redenzione), quando sorge attraverso il matrimonio sacramentale (ordine sovrannaturale). La formazione delle coscienze intorno a questa verità è un compito urgente del nostro tempo (vedi AL 300) [vedi Dubbio 2] (2).

3. Questa formazione delle coscienze è tanto più necessaria dal momento che un pastore non può ritenersi soddisfatto “solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni ‘irregolari’, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone” (AL 305). Lo stesso vincolo matrimoniale è un dono dell’amore, della sapienza e della misericordia di Dio, un dono che garantisce agli sposi grazia e sostegno. Per questa ragione il riferimento al vincolo matrimoniale deve collocarsi al primo posto nel cammini di accompagnamento, di discernimento e di integrazione [vedi Dubbio 2].

4. Se un Confessore, durante la Confessione di un penitente sconosciuto (nell'ambito di una “Confessione occasionale”), si imbatterà in questioni che riguardano il vincolo matrimoniale e necessitano di un chiarimento, chiederà al penitente di affidarsi a un Sacerdote che possa percorrere con lui un più lungo cammino di conversione e di integrazione, oppure si metterà in rapporto con lui al di fuori della Confessione [vedi Dubbio 5].

5. Nella cura delle anime di divorziati civilmente risposati si deve innanzitutto verificare se la celebrazione del matrimonio (il “primo matrimonio”) sia avvenuta in maniera valida, se il vincolo sia realmente valido. Questa verifica non può essere effettuata dal singolo Sacerdote, non di certo in confessionale. Il Confessore deve indirizzare la persona interessata all’Ufficio competente della Diocesi.

6. Comunque stiano le cose in merito alla validità della celebrazione del matrimonio, un’unione fallita dev’essere in ogni caso trattata con umanità e conformità alla Fede. Ciò significa che deve essere intrapreso un cammino pastorale più lungo, che richiede maggior pazienza. “In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno” (AL 300). “I Pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del Vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare” (AL 308).

7. Non è lecito che l’accesso alla Santa Comunione da parte dei divorziati civilmente risposati sia lasciato alla determinazione soggettiva. È necessario fare riferimento a dati oggettivi (alle condizioni stabilite dalla Chiesa per accostarsi alla Santa Comunione). Nel caso dei divorziati risposati è determinante la considerazione del vincolo matrimoniale esistente [vedi Dubbi nr. 1, 2, 3, 4, 5] (3).

8. Se durante la Confessione è richiesta l’assoluzione di un divorziato civilmente risposato, è necessario verificare che la persona in questione sia disposta ad accettare le direttive del punto 84 dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II del 12 Novembre 1981 (4), ossia che, qualora entrambi i partner “per seri motivi … non poss[a]no soddisfare l’obbligo della separazione” (AL 298), sono tenuti a vivere insieme come fratello e sorella”. Questa regola non ha cessato di essere vigente anche soltanto per il fatto che l’Esortazione Apsotolica Amoris Laetitia non prevede espressamente alcuna “nuova normativa generale di tipo canonico” (AL 300). Il penitente dovrà dimostrare la ferma volontà di vivere in osservanza del vincolo matrimoniale sorto dal “primo” matrimonio [vedi Dubbio nr. 1, 4, 5].

9. Nella preparazione e nella guida delle coppie di fidanzati e di sposi e delle famiglie non dimentichiamoci mai le parole di San Paolo: “Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” – “Sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia” (Ef 5, 32)!

Ringraziandovi per la fedeltà al Signore e alla sua missione, vi saluto cordialmente e unisco la mia benedizione episcopale.

Coira, 2 Febbraio 2017

+ Vitus Huonder, Vescovo di Coira

_____________________

(1) Dubbio 5 (Possibilità dell'interpretazione creativa del ruolo della coscienza):
"Dopo l'Amoris Laetitiae nr. 303 si deve ritenere ancora valido l'insegnamento dell'Enciclica di San Giovanni Paolo II Veritatis Splendor nr. 56, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa che esclude un'interpretazione creativa sul ruolo della coscienza e afferma che la coscienza non è mai autorizzata a legittimare eccezioni alle norme morali assolute che proibiscono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto?".

(2) Dubbio 2 (Sull'esistenza di norme morali assolute):
"Continua a essere valido, dopo l'esortazione postsinodale Amoris Laetitiae (cfr. nr. 304), l'insegnamento di San Giovanni Paolo II Veritatis Splendor n. 79, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa circa l'esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi?".

(3) Dubbio 1: (Possibilità di accostarsi alla Santa Comunione fuori dalle condizioni di Familiaris Consortio nr. 84 ):
"Si chiede se, in seguito a quanto affermato da Amoris Laetitia nn. 300-305, sia divenuto ora possibile concedere l'assoluzione nel sacramento della Penitenza e quindi ammettere alla Santa Eucaristia una persona che, essendo legata da vincolo matrimoniale valido, convive 'more uxorio' con un'altra, senza che siano adempiute le condizioni previste da Familiaris Consortio nr. 84 e poi ribadite da Reconciliatio et penitenti nr. 34 e da Sacramentum Caritatis nr. 29. L'espressione "in certi casi" della nota 351 (nr. 305) dell'esortazione Amoris Laetitia può essere applicata a divorziati in nuova unione, che continuano a vivere 'more uxorio'?".
Dubbio 3 (Esistenza della condizione oggettiva di peccato mortale):
"Dopo  Amoris Laetitia nr. 301 è ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l'adulterio (cfr Mt 19, 3-9), si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale (cfr. Pontificio Consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000)?".

Dubbio 4 (Rilevanza delle intenzioni e condizioni soggettive rispetto all'intrinseca e oggettiva malvagità di un atto):
"Dopo le affermazioni di Amoris Laetitia nr. 302 sulle 'circostanze attenuanti la responsabilità morale', si deve ritenere ancora valido l'insegnamento dell'enciclica di San Giovanni Paolo II Veritatis Splendor nr. 81, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, secondo cui: 'le circostanze e le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta'?".

(4) Familiaris Consortio 84:
"L'esperienza quotidiana mostra, purtroppo, che chi ha fatto ricorso al divorzio ha per lo più in vista il passaggio ad una nuova unione, ovviamente non col rito religioso cattolico. Poiché si tratta di una piaga che va, al pari delle altre, intaccando sempre più largamente anche gli ambienti cattolici, il problema dev'essere affrontato con premura indilazionabile. I Padri Sinodali l'hanno espressamente studiato. La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che - già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza.
Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C'è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell'educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.
Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza.
La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.
La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Giovanni Paolo PP. II, Omelia per la chiusura del VI Sinodo dei Vescovi, 7 [25 Ottobre 1980]: AAS 72 [1980] 1082). Similmente il rispetto dovuto sia al sacramento del matrimonio sia agli stessi coniugi e ai loro familiari, sia ancora alla comunità dei fedeli proibisce ad ogni pastore, per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, di porre in atto, a favore dei divorziati che si risposano, cerimonie di qualsiasi genere. Queste, infatti, darebbero l'impressione della celebrazione di nuove nozze sacramentali valide e indurrebbero conseguentemente in errore circa l'indissolubilità del matrimonio validamente contratto. Agendo in tal modo, la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità; nello stesso tempo si comporta con animo materno verso questi suoi figli, specialmente verso coloro che, senza loro colpa, sono stati abbandonati dal loro coniuge legittimo.
Con ferma fiducia essa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità".

mercoledì 1 febbraio 2017

La crisi della Chiesa e il senso sovrannaturale di Monsignor Fellay. L'intervista rilasciata domenica 28 gennaio 2017 all'emittente francese TVLibertés

Proponiamo qui di seguito ai nostri lettori la traduzione meritoriamente curata da Chiesa e Postconcilio (vedi quidell'intervista rilasciata domenica 28 gennaio 2017 all'emittente francese TVLibertés (TVL) da mons. Bernard Fellay, Superiore generale della Fraternità San Pio X, che fa il punto sulla situazione attuale della Chiesa e sui rapporti tra la FSSPX e la Santa Sede. 

TVL: Lei è, dal 1994, Superiore generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata nel 1970 da mons. Lefebvre a Friburgo, in Svizzera, paese del quale Lei è originario. La Fraternità conta oggi 613 sacerdoti, 117 frati, 80 oblate, 215 seminaristi. Nella Chiesa, come è noto, ogni società religiosa ha una sua propria vocazione, legata ai carismi della sua fondazione (ad esempio la povertà per i francescani, lo zelo missionario per i domenicani, ecc.). Qual è, secondo Lei, la spiritualità propria della Fraternità San Pio X?

Mons. Fellay: La spiritualità propria della Fraternità San Pio X… è di non averne una sua particolare! Bisogna precisare in che senso, ovviamente. Ne abbiamo una, è chiaro, ma non è a noi propria, bensì la Fraternità ha fatto propria la spiritualità della Chiesa. Dunque è molto più universale. E in che cosa consiste? Nella salvezza che ci viene dalla Croce di Nostro Signore Gesù Cristo, e dunque: nel sacerdozio, perché Nostro Signore ci salva attraverso il suo sacerdozio, e nell’atto sacerdotale, che è la croce, vale a dire la Messa. In questo consiste la spiritualità della Fraternità: ci occupiamo insomma dei sacerdoti, di formare sacerdoti, di santificarli, sperando che poi compiano il loro dovere, per tutta la Chiesa.

TVL: Una spiritualità fondata, dunque, sul sacerdozio e sulla santa Messa.

Mons. Fellay: Esatto.

TVL: Il 21 novembre scorso, con la lettera apostolica Misercordia et misera, papa Francesco ha rinnovato, per i sacerdoti della Fraternità San Pio X, la facoltà di dare validamente e lecitamente le assoluzioni sacramentali. Al tempo stesso, la dichiarazione postsinodale Amoris lætitia, che concede ai divorziati risposati, a certe condizioni, la possibilità di accedere alla comunione, non è certo un testo che vi soddisfa. Come interpreta questi due atti in via di principio così contraddittori?

Mons. Fellay: Potrei sbagliarmi, ma penso che scaturiscano da uno stesso impulso, e questo impulso è l’interesse del Santo Padre per i “reietti” di ogni tendenza.

TVL: Per le “periferie”?

Mons. Fellay: Esatto, per le periferie. Certo, noi non siamo una periferia nel senso stretto del termine (non siamo dei carcerati, per esempio), ma siamo comunque dei reietti, diciamo, dell’apparato ecclesiastico. E, in questo senso, siamo degli emarginati. Perciò credo – ripeto, mi posso sbagliare – che questa ne sia l’origine: la volontà di occuparsi di questo tipo di persone che, mi sembra, il Papa rimprovera, se si può dire così, alla Chiesa nel suo complesso di aver dimenticato o messo da parte.

TVL: A proposito del testo Amoris lætitia: un gruppo di cardinali (Burke, Brandmüller, Caffarra, Meisner) ha inviato al Papa quelli che secondo la terminologia tecnica si definiscono dei dubia, cioè hanno posto delle domande, richiedendo dei chiarimenti su questo testo. Era da parecchio tempo che una cosa del genere non si verificava nella Chiesa (cioè il fatto che dei vescovi interpellino pubblicamente il Papa relativamente ad un atto del suo magistero). Nel 1969 anche la riforma liturgica segnò una rottura con la tradizione precedente, e all’epoca due cardinali (Ottaviani e Bacci) hanno levato la loro voce, ma poi, dopo aver reso note al Pontefice le loro perplessità, si sono «rimessi in riga». Non sembra che ci sia stata, da cinquant’anni a questa parte, una resistenza organizzata di cardinali e vescovi contro le derive dottrinali (come ad esempio quella dei nuovi catechismi). Secondo Lei i tempi sono cambiati?

Mons. Fellay: C’è qualcosa che sta cambiando, è vero. Credo che ciò dipenda dal fatto che la situazione si è aggravata. Non tanto sul piano dei princìpi; però questi princìpi portano adesso i loro frutti, se ne vedono le conseguenze. Non penso che siamo giunti già alle conseguenze ultime, ma la situazione diventa davvero grave, molto grave… Talmente grave che un certo numero di vescovi e di cardinali ritiene, in coscienza, di dover dire: «Adesso basta». Non sono molto numerosi quelli che si manifestano in pubblico, mentre quelli che lo fanno privatamente sono molti di più. Questo movimento crescerà? È ancora troppo presto per dirlo. Penso che si debba sperare, anzi io spero e mi arrischio a credere che continuerà in questa direzione, perché le cose vanno davvero male. E il fatto che si cominci finalmente a dirlo sarà l’occasione per iniziare a riflettere, una buona volta, sulle cause di tutto questo e dunque sui veri rimedi.

TVL: Nella sua conferenza in occasione delle Journées de la Tradition dell’8 ottobre scorso a Port-Marly, Lei ha accennato ad un afflusso continuo di contatti tra la Fraternità San Pio X e un certo numero di sacerdoti e di vescovi. Nonostante questo non si può dire, perlomeno per quanto riguarda la Francia, che i vescovi si mostrino molto aperti alle richieste di celebrazioni secondo la forma straordinaria del Rito romano in applicazione del Motu proprio Summorum Pontificum. Secondo Lei, che attraverso i suoi viaggi ha potuto esperire la situazione del mondo cattolico nel suo insieme, è questa una situazione propria solo alla Francia?

Mons. Fellay: Sinceramente no. C’è qualcosa di vero, senz’altro: i francesi restano francesi, sono un po’, come dire… inclini al diverbio, ma penso che per quel che riguarda la crisi nella Chiesa sia un fenomeno piuttosto generale. E anche guardando le reazioni, onestamente, bisogna dire che questo movimento è ancora, nel contesto generale della Chiesa, minoritario. Ma esiste ed è generalizzato. Certo non sono moltissimi i vescovi che ci hanno contattato o che ci hanno detto: «Siamo con voi», ma la cosa prende piede. Un po’ alla volta prende piede.

TVL: Nel contesto di queste riflessioni sulle vostre relazioni con la Santa Sede papa Francesco vi ha fatto la proposta di una prelatura personale per la Fraternità San Pio X. Questa situazione canonica vi garantirebbe un’indipendenza totale dai vescovi. Mons. Athanasius Schneider, che abbiamo intervistato qualche mese fa e che ha effettuato delle visite ai vostri seminari per conto della Santa Sede, vi esorta ad accettare questa proposta nonostante, anzi appunto perché è consapevole che la situazione della Chiesa non è ancora soddisfacente al 100%. Non c’è, a lungo termine, il rischio di creare una Chiesa sostanzialmente autonoma, autocefala, nel caso in cui dovesse perdurare questa situazione di, diciamo così, separazione continua da Roma, dal Papa, dalla curia romana, dai vescovi? Per firmare una proposta da parte di Roma aspettate forse l’elezione al soglio di Pietro di un “Pio XIII” – cosa che senz’altro ci auguriamo, ma che resta pur sempre solo un’ipotesi di scuola?

Mons. Fellay: Non credo che sia necessario aspettare che sia tutto a posto, che tutti i problemi siano risolti nella Chiesa. Ci sono tuttavia un certo numero di condizioni che sono necessarie e, per noi, la condizione essenziale è quella di poter sopravvivere. Perciò ho reso noto alla Santa Sede, senza nessuna ambiguità, che – proprio come aveva detto a suo tempo mons. Lefebvre – c’è una condizione sine qua non, cioè una condizione che, se non è accettata, noi non faremo questo passo: questa condizione è che restiamo così come siamo, il che significa che vogliamo conservare tutti i princìpi che ci hanno tenuto in vita finora, che ci hanno fatto restare cattolici.

Noi abbiamo, in effetti, delle gravi rimostranze e muoviamo delle obiezioni riguardo a ciò che è avvenuto nella Chiesa a partire dall’ultimo Concilio. Si tratta del famoso problema del modo in cui si è praticato l’ecumenismo, ad esempio, e di quello della cosiddetta libertà religiosa, espressione un po’ complessa con cui ci si riferisce, da un lato, alla dottrina che regolamenta i rapporti tra la Chiesa e lo Stato, e dall’altro se e a che titolo si debba concedere a ciascuno il diritto di esercitare la propria religione. Un tempo, in effetti, la Chiesa insegnava che in certi casi questo va tollerato, e si può anche dire che oggi, vista la situazione attuale e la grande mescolanza di religioni, questa tolleranza deve essere molto ampia. Ma resta pur sempre una tolleranza, e quando si tollera, si tollera un male, non si può dire che sia un bene ciò che viene tollerato… E oggi vediamo bene cosa succede, quando certe religioni pullulano (penso di non aver neppure bisogno di specificare quale in particolare): diventano motivo di terrore. C’è qualcosa che non va. Bisogna restare molto lucidi su questo. E penso che, da questo punto di vista, si stiano facendo dei progressi. Penso che si stia avanzando nella buona direzione, nel senso che Roma sta mettendo un freno a questo corso. È un fenomeno abbastanza recente: è da circa due anni che ci viene detto che ci sono delle questioni, anzi delle proposizioni che sono state enunciate dal Concilio che non sono dei «criteri di cattolicità». Il che significa che si ha il diritto non di non essere d’accordo e, al tempo stesso, di essere considerati cattolici. E queste proposizioni sono appunto le questioni sulle quali noi disputiamo.

Per rispondere, invece, alla seconda parte della sua domanda: c’è un rischio di scisma, dello stabilirsi di una Chiesa parallela? Noi lottiamo contro questo pericolo. Ho discusso di questo problema con il Papa stesso e siamo entrambi d’accordo sul fatto che ci sono già attualmente un certo numero di disposizioni pratiche che rendono lo scisma praticamente impossibile. Cioè nella pratica, negli atti di tutti i giorni, noi esprimiamo e mostriamo a Roma la nostra sottomissione, il fatto che riconosciamo queste autorità, e ciò non soltanto alla Messa, non soltanto nominando il Papa e il Vescovo locale nel canone della Messa, bensì anche in altre cose. C’è l’esempio del Papa stesso che ci ha dato il potere di confessare. Ci sono anche degli atti giuridici: è un po’ complicato da spiegare, ma può succedere che un sacerdote commetta dei delitti canonici, e in questi casi noi facciamo riferimento a Roma, che ci accorda la facoltà e a volte anzi ci richiede di emettere un giudizio su tali casi. Si tratta, quindi, veramente di relazioni normali. Non si tratta soltanto della giurisdizione per le confessioni, c’è tutto un insieme di cose. Quest’estate è stato confermato che il Superiore generale può davvero ordinare liberamente i sacerdoti della Fraternità senza dover domandare il permesso al Vescovo locale. È un testo che viene da Roma; certo non viene proclamato sopra i tetti, ma dice realmente che le ordinazioni della Fraternità sono lecite (dice, infatti, che il Superiore può ordinare «liberamente»). Ecco, dunque, qualche esempio di atti giuridici, e dunque canonici, che sono già instaurati e che, a mio avviso, escludono la possibilità di uno scisma. Anche se, naturalmente, bisogna comunque fare sempre attenzione a questo pericolo, su questo non c’è dubbio.

TVL: Allora oggi, concretamente, che cosa manca?

Mons. Fellay: Manca il timbro! E, appunto, l’affermazione (stavolta chiara e senza equivoci) che queste garanzie saranno rispettate.

TVL: E questo timbro e questa garanzia può darli solo il Papa.

Mons. Fellay: Sì, è il Papa che deve farlo.

TVL: Per concludere quest’intervista e per dare un segno di speranza: celebreremo quest’anno il centenario delle apparizioni di Fatima. Qual è, secondo Lei, l’attualità di questi avvenimenti per la Chiesa e per la Fraternità San Pio X?

Mons. Fellay: Più che per la Fraternità… per la Fraternità, direi, è solo in via consequenziale. Di Fatima si sa che c’è un segreto, un messaggio che annuncia delle cose difficili, forse terribili (una parte di esso è conosciuta, un’altra non è molto conosciuta), ma, in ogni caso, «alla fine», dice la Vergine Maria, «il mio cuore Immacolato trionferà». Vi è dunque l’annuncio di una vittoria del Cielo, del Cuore Immacolato di Maria, che andrà di pari passo con una consacrazione della Russia, vedrà la Russia convertirsi (che quindi tornerà cattolica, sarà reintegrata nella Chiesa cattolica), ci sarà un tempo di pace che sarà concesso alla Chiesa. Se ne può dunque trarre la conclusione che lo stato di crisi nel quale ci troviamo oggi sarà finito; certo i dettagli non li conosciamo, ma, evidentemente, se noi diciamo – e non siamo i soli a dirlo – che c’è una crisi nella Chiesa, speriamo anche che in questo momento di trionfo questa fase della Chiesa sia superata. Fino a che a che punto si arriverà in questa crisi, questo non lo so. Ma abbiamo questa sicurezza che alla fine ci sarà un trionfo. E noi lo aspettiamo, anzi lo affrettiamo con le nostre preghiere. Certo, sappiamo che questo in ultima analisi dipende dal Signore…

TVL: Lei ha lanciato, in particolare, una «crociata del rosario» in quest’occasione.

Mons. Fellay: Sì, esatto, domandando ai fedeli di pregare usando la preghiera che la Vergine Maria ci ha raccomandato, per domandarle che per l’appunto ciò che Lei ha domandato si compia, cioè che arrivi questo trionfo, che sia fatta questa consacrazione (ma come Lei lo ha domandato, in quanto ce n’è già stata qualcuna e ha anche già sortito qualche effetto). Ciò che soprattutto si può notare è che gli avvenimenti storici – dunque non solo quelli della Chiesa, ma anche quelli del mondo, come ad esempio i grandi avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale – sono legati a dalle date della Vergine Maria. E Maria stessa ha detto che la pace delle nazioni è stata messa dal Signore «nelle sue mani». C’è un intervento del governo di Dio sugli uomini che è reale. Perciò domandare al Signore che nella sua bontà lo eserciti in modo tale che gli uomini la smettano di demolire tutto e si sottomettano al suo giogo, può essere solo una cosa buona.

El progresso ultramontano. Observaciones sobre la infalibilidad

Pubblichiamo qui di seguito, certi di fare cosa gradita ai nostri lettori di lingua spagnola, la versione del nostro articolo The Ultramontanist's Progress. Analisi di un'eresia conservatrice (vedi quicurata recentemente dall'interessante sito argentino InfoCaótica (vedi qui).

Ultra montes, ultramontanos, los que están más allá de las montañas. El ultramontano no está en la Edad Media, no es más que un concepto geográfico, un modo, por lo demás alemán y francés, para definir todo lo que es italiano. Sólo después de la reforma protestante, si no desde la época de los disturbios anti-curialistas de Felipe el Hermoso y Luis de Baviera, adquirió un significado esencialmente político, que interceptaba polémicamente la formación de la moderna soberanía estatal, ya que ultramontano, y finalmente “ultramontanista”, se convirtió en el enemigo público que obedecía a Roma más que a la iglesia nacional y a su cabeza. El sentido político de ultramontanismo entró en el vocabulario católico, especialmente en Austria, cuando católico romano se convirtió en opositor del jurisdiccionalismo siglo XVIII. El “ultramontanista” volvería a aparecer durante el Concilio Vaticano I como antagonista de todo el mundo moderno.

Es notable e inesperado el retorno de este tipo de intelectual en las páginas de El desarrollo orgánico de la liturgia del benedictino Alcuino Reid, un estudio importante y muy profundo sobre la historia del “Movimiento litúrgico”, que durante un lustro intentó afrontar de diversas maneras el problema de la "actuosa participatio" de los fieles en la liturgia, hasta consignar los últimos frutos de un largo recorrido por los reformadores post-conciliares. Editado en los EE.UU., con un prefacio laudatorio del cardenal Joseph Ratzinger, el volumen ha sido recientemente publicado en italiano por la editorial Cantagalli (Lo sviluppo organico della liturgia, Siena 2013, pp. 432).

Reid, siguiendo de cerca la idea de Newman de un "desarrollo doctrinal", aunque dominado por el desarrollo político e histórico, pone el principio firme de una evolución litúrgica orgánica: la "tradición litúrgica objetiva"; y así supera los autores y las fases del “Movimiento litúrgico”. Interesante y fecunda, incluso para un juicio sobre la actualidad, es la individuación precisa y, en varias ocasiones, reiterada, de los dos enemigos principales de la tradición litúrgica: el “arqueologismo” y la “pastoralidad” - los mismos principios que Ratzinger define en el prólogo, con una expresión que es más que una condena, los "unholy twins". De acuerdo con el esquema ya elaborado por el liturgista y jesuita Joseph Jungmann, los dos "unholy twins" son perfectamente idénticos, porque, si aquello que es primitivo es necesariamente sencillo, lo que es sencillo se ajusta mejor a las necesidades del hombre moderno y es eminentemente pastoral.

“Arqueologismo” y “pastoralidad” necesitan, a su vez, de dos actores, la ciencia litúrgica que identifica con certeza y método incuestionables lo que es antiguo, y la autoridad del Papa que, en nombre de la antigüedad y de la “pastoralidad”, realiza la reforma. Reid, que en varias ocasiones ha resaltado el peligro de convertir la “tradición litúrgica objetiva” en una antigüedad producto del método científico, se ocupa también del problema de la autoridad. De acuerdo con la regla católica de la evolución homogénea, la autoridad, incluso la del Papa, no debería ser más que una instancia declaratoria, incluso en un sentido evolutivo (de lo implícito a lo explícito), del contenido objetivo de la Tradición, aquí de una Tradición litúrgica indisolublemente ligada a la Tradición dogmática (lex orandi lex credendi). En estas circunstancias, a la luz de los desarrollos posteriores, incluso funestos, se manifiesta la ausencia de vínculos con la Tradición en la Encíclica Mediator Dei de Pío XII, o sea, la posibilidad de que se pueda considerar tradicional cualquier reforma litúrgica, solamente por el hecho de ser aprobada por un Pontífice. Es en este punto que emerge la presencia en la Iglesia de los años cincuenta y sesenta de una corriente que se aprovecha con cierta facilidad de la laguna de la Mediator Dei y que Reid define, de manera muy acertada, como "ultramontanista".

Si se quisiese trazar la genealogía ideológica interna, y no sólo política, del “ultramontanismo” más sobresaliente, deberíamos recurrir a los celosos jesuitas de Salamanca, magistralmente evocados por Owen Chadwick en un capítulo del imperdible From Bossuet to Newman (University Press, Cambridge, 1957), los cuales pretendieron extraer conclusiones dogmáticas ciertas, a partir de premisas inciertas, cuando estás últimas fuesen tan sólo confirmadas por la autoridad. Es evidente que de esta manera se sustituye la inmutabilidad de la Tradición por la intención de la autoridad. Después de unos pocos siglos, esta lectura “soberanista” de la infalibilidad, que se entremezclaba con las categorías positivistas de Derecho Público de los años 60 del siglo XIX, sería derrotada en el Vaticano I -junto con las corrientes opuestas, anti-infallibilistas, capitaneadas por Dölinger- y reasumiría la esencia misma del ultramontanismo decimonónico, de acuerdo con su concepto clásico. Tal lectura quizá podría justificarse históricamente -no en el plano doctrinal- como último remedio ante el movimiento revolucionario, socialista y liberal, surgido desde 1848. No es de extrañar que entre los ultramontanos hubiera hombres como Donoso Cortés, el cardenal Manning, el padre Guillermo Faber, el abate Migne, cuyo servicio a la Iglesia Católica y a la mayor gloria de Dios no puede ser discutido en assoluto.

El “ultramontanismo” hodierno, descrito por Reid en su etapa germinal, ya no pretende más hacer frente a la revolución mundial con la fuerza irreducible y ocasionalista de una decisión soberana que frena la revolución social sólo desde el momento en que no se entrega a ella. La idea neo-ultramontanista para consolidar en un sistema unitario de reforma a los “unholy twins” –hoy, evidentemente, más de dos– es la voluntad del obispo de Roma, mientras que las mismas formas de la infalibilidad parecen diluirse en la incertidumbre positivista de la unidad de mando, siguiendo a la revolución mundial desde el momento en el cual la “pastoralidad” (uno de los “unholy twins”) se ha convertido coherentemente en norma fundamental de los actos de la Iglesia. Un primer resultado nefasto es la destrucción formal (a fuerza de decretos) del culto al cual asiste cada católico. Así, el nuevo ultramontanismo se hace tanto más radicalmente partidario de la autoridad del Papa, cuanto más se incrementa su poder, transformándose en él, y erosionando los cimientos de la Tradición; cuanto más abandona "el recinto de Pedro", y del papado, para exponer así su debilidad. Se podría decir que el nuevo ultramontano defiende sobre todo el poder del Papa, aunque al precio de su autoridad.

Se asiste así a una obediencia que de racional se hace ocasionalista, para convertirse, en última instancia, en irracional: “Los tiempos han cambiado, ¡lo dijo el Papa!”. El hecho de que los antiguos enemigos de la soberanía papal son hoy en día los ultramontanos más consistentes, no es de extrañar, ya que el punto de inflexión pastoral del Vaticano II vincula el ministerio de Pedro (no es su esencia íntima, por supuesto) a la locomotora de la historia hegeliana, la economía y el progreso humano. Menos obvia aparece la posición de los conservadores de hoy, cuyo papel en Italia es notoriamente representado por Massimo Introvigne, don Piero Cantoni, p. Giovanni Cavalcoli, Andrea Tornielli y el gran coro de “Comunión y liberación”. Como los antiguos jesuitas de Salamanca, todos estos señores han perdido desde hace mucho tiempo la reverencia y el sentido de la verdad católica de las premisas, contentándose con la voluntad suprema. Ya no hay argumento, Santo Tomás ha muerto, y ha muerto el silogismo.