sabato 28 dicembre 2013

Il Cardinal Ouellet e il favoloso mondo di Francesco



Riprendiamo qui di seguito dall'agenzia zenit.org il resoconto di un'intervista resa a Radio Vaticana dal Cardinal Marc Ouellet, recentemente confermato Prefetto della stessa Congregazione dei Vescovi dalla quale è stato contemporaneamente estromesso il Cardinale Burke. Non si può non prendere atto di quella che si potrebbe chiamare la teologia della storia della Chiesa del Cardinal Ouellet - una teologia irrazionalista che disprezza il deposito oggettivo della fede e tende a cogliere in ogni pontificato una nuova fondazione della Chiesa ispirata dallo Spirito Santo - come se la Chiesa non custodisse una gerarchia, una Tradizione e una Liturgia, tutte ricevute una volta per tutte dal suo Divino Fondatore per la salvezza delle anime. Il porporato canadese afferma infatti la "novità", inaugurata da Francesco, di un "contatto nuovo con il popolo di Dio" (ma il vero contatto non dovrebbe essere quello sacramentale?) e individua nelle dimissioni di Benedetto XVI la  “più grande novità nella storia della Chiesa, che ha testimoniato una grande umiltà e, allo stesso tempo, una grande fiducia nello Spirito Santo per il futuro delle cose”. In fondo il senso della teologia liberale di Ouellet sta tutto nell'ultima battuta: "L'umanità ha bisogno di un riferimento morale sicuro". Non è questo il senso del papato, non per questo Nostro Signore è sacerdote e vittima.

Citta' del Vaticano, 27 Dicembre 2013  Redazione | 98 hits Un anno di svolta epocale per la storia della Chiesa. Secondo il cardinale Marc Ouellet, recentemente confermato da papa Francesco come prefetto della Congregazione dei Vescovi, il 2013 è stato un anno straordinario a partire dalla rinuncia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI.

Intervistato dalla Radio Vaticana, il porporato canadese ha dichiarato che le dimissioni di papa Ratzinger “hanno aperto delle grandi possibilità”. Si è trattato non solo di un “gesto veramente nuovo” ma della “più grande novità nella storia della Chiesa, che ha testimoniato una grande umiltà e, allo stesso tempo, una grande fiducia nello Spirito Santo per il futuro delle cose”.

Bisogna quindi essere “molto riconoscenti” a Benedetto XVI per aver aperto “questo orizzonte” e per aver reso possibile l’elezione del suo successore Francesco.

Vi è inoltre, ha affermato Ouellet, “una continuità tra la prima novità e tutte quelle che Papa Francesco ha poi inaugurato”. Secondo il Prefetto della Congregazione dei Vescovi, la vera “riforma” incoraggiata dal pontefice argentino è nella sua volontà di “stabilire un contatto nuovo, più vicino al Popolo di Dio”, andando “al di là di tutte le forme, di tutti i protocolli per stabilire un contatto immediato”.

Papa Francesco fornisce così ai vescovi “un modello di prossimità pastorale, di ricerca di una presenza pastorale che sia calorosa, che sia misericordiosa, che porti consolazione e che doni una nuova speranza”. Nell’atteggiamento e nei gesti di Bergoglio si riscontrano “una novità e una promessa”.

Un altro fattore “molto importante”, ad avviso del cardinale Ouellet è “la percezione di papa Francesco nell’opinione pubblica mondiale”, da lui definita “un evento straordinario di evangelizzazione”.

Anche la proclamazione del Santo Padre come personaggio dell’anno, da parte della rivista americana Time è, secondo Ouellet, il segno di un “bisogno di speranza che c’è nell’umanità e che ha trovato nella figura di papa Francesco il suo punto di riferimento”. Tale menzione è una “buona novella” e “tutti noi dobbiamo rallegrarcene”.

Constatare la grande popolarità del Papa suscita “una grande gioia”, ha proseguito Ouellet. Si tratta, ha puntualizzato di una “buona popolarità, che non è basata semplicemente su cose superficiali” ma che, al contrario, “ci interroga e ci obbliga anche a cambiamenti di comportamento”.

In ambito curiale, il Santo Padre intende contrastare “una certa mentalità clericale” assieme al “carrierismo” delle “ambizioni ecclesiastiche” o “mondane”, ha aggiunto il Prefetto della Congregazione dei Vescovi.

“Siamo veramente in un momento di grazia – ha proseguito - e spero che lo Spirito Santo gli dia la salute e la collaborazione di cui ha bisogno per portare avanti la riforma della Chiesa e la nuova evangelizzazione”.

Sul piano personale, il porporato canadese ha dichiarato che la sua amicizia con Bergoglio - precedente l’elezione di quest’ultimo al Soglio Pontificio – ha reso la loro collaborazione “straordinariamente semplice” e gioiosa.

“L’umanità ha bisogno di una figura paterna, una figura vicina; una figura che sia - al tempo stesso - riferimento morale sicuro, ma anche calorosa e che risvegli la speranza!”, ha quindi concluso Ouellet.

domenica 22 dicembre 2013

“Siate la nostra Provvidenza!”. In aiuto dei monaci.



Carissimi amici e lettori di Vigiliae Alexandrinae,

sono pochissime al mondo le comunità benedettine che conservano integralmente le osservanze e la tradizione liturgica, senza concedere nulla a quello spirito moderno e a quel culto della novità che purtroppo da qualche decennio hanno irrotto violentemente nella Chiesa e negli ordini religiosi. Pochissime davvero: se fate una breve ricerca, scoprirete che si contano su una o forse due mani …
Una di queste si trova a Villatalla, località del comune di Prelà, nella diocesi di Alberga-Imperia: si tratta dei Monaci benedettini dell’Immacolata.
La comunità è stata fondata da due monaci provenienti dall'abbazia di Le Barroux, con la benedizione di Mons. Mario Oliveri. Attualmente la comunità sta crescendo, sotto la guida paterna del Reverendo Padre Priore Jehan de Belleville. Chiunque abbia avuto modo di conoscere di persona questi monaci e di vedere il loro cammino regolare, ha lasciato il monastero con un profondo senso di edificazione, di simpatia e di riconoscenza per i sacrifici che affrontano per tenere accesa in queste tenebre la luce della fedeltà alla Tradizione cattolica e benedettina: quella luce che conduce dritto al Cielo.
Tuttavia non mancano le difficoltà, anche di ordine materiale. Sul loro Blog, i monaci hanno lanciato una richiesta di aiuto.
Rinviando al Blog (che invitiamo davvero a visitare) per il relativo post in italiano e in francese, riportiamo qui solo il passo conclusivo:

  “Cari amici che ci leggete, siate la nostra Provvidenza! L’elemosina è anche un modo per piacere a Dio e per meritare la sua grazia. Vi ringraziamo per permetterci di perpetuare e di sviluppare l’Opera di preghiera e di santificazione inaugurata e trasmessa dai nostri fondatori, il Reverendo Padre Muard, Dom Romain Banquet e Dom Gérard. Che Dio vi benedica nelle vostre famiglie e nel vostro lavoro e che, per l’intercessione materna e che tutto può della Beata Vergine Maria, l’Immacolata, le vostre anime conservino il più prezioso dei tesori quaggiù e nell’ eternità, l’amore di Dio e del prossimo.”

  E allora proviamo davvero ad essere la loro Provvidenza!
Per chi potesse, sul loro Blog si trovano gli estremi per un aiuto finanziario. Per chi lo desiderasse, è possibile fare un soggiorno al monastero e offrire un aiuto materiale nei molti lavori necessari. Per tutti, infine, un invito a non fargli mancare la nostra amicizia e la nostra umile preghiera.
Amici, parliamo molto di Tradizione: cerchiamo anche di aiutare chi molto non ne parla perché, semplicemente, la fa.
Insegna il Divin Maestro: “Ebbene, io vi dico: procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle tende eterne” (Luca, 16, 9).
San Gregorio Magno, un figlio di san Benedetto, così commenta questo brano di Vangelo: “Se, infatti, per mezzo della loro amicizia conquistiamo le tende eterne, senza dubbio dobbiamo pensare che, dando, facciamo piuttosto regali a protettori, che non doni a poveri” (Moralia, XXI, 14).
Conquistiamoci la protezione di questi uomini di Dio!
Grazie a tutti e un augurio di un santo Natale dalle sentinelle alessandrine.

venerdì 13 dicembre 2013

La sospensione di De vita contemplativa. Verso il commissariamento delle Suore Francescane dell'Immacolata?



De Vita Contemplativa è la rivista per i monasteri curata dalle Suore francescane dell'Immacolata di Città di Castello.
Rivista di pura spiritualità, che riporta per lo più brani di santi e di padri della Chiesa. Non ha alcun taglio polemico.
Proprio in questi giorni gli abbonati stanno ricevendo un foglietto riportante il testo seguente:

"Carissimi Lettori,  siamo spiacenti di dover comunicare loro che la rivista De Vita Contemplativa, a partire dal nuovo anno 2014, sarà sospesa. Preghiamo, pertanto, di non effettuare alcun versamento per il nuovo anno.  Assicurando la nostra costante e umile preghiera, auguriamo ogni bene
In domino
Redazione  De Vita Contemplativa"


Non c'è molto da aggiungere, se non la notizia, circolante ormai con una certa insistenza, del prossimo commissariamento delle Francescane dell'Immacolata. La sospensione della rivista potrebbe essere il primo segno di una nuova empietà.

mercoledì 4 dicembre 2013

Le vetrate di Nathaniel Hawthorne. Gnocchi e Palmaro sul lato opaco della Chiesa



Pubblichiamo qui di seguito un altro magistrale contributo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro comparso oggi su il Foglio con il titolo "Il Papa che si rade, maddài".

Poi vennero le prime telecamere in Vaticano regnante Giovanni XXIII, i teleobiettivi su Paolo VI, il papato mediatico di Giovanni Paolo II e, ora, la quasi consustanzialità tra massmedia e Papa Francesco. Ma, in principio, fu la cara, vecchia, borghesissima “Domenica del Corriere”: fu proprio lì, su una sua copertina, che il 4 maggio 1952 Pio XII venne disegnato in vestaglia beige, ritto davanti al lavabo con un rasoio elettrico nella mano destra e un cardellino sulla sinistra.
Le raccolte dei quotidiani e dei periodici di quei giorni non raccontano reazioni sdegnate, o almeno un poco infastidite, quasi fosse cosa del tutto normale trovarsi davanti al Papa esibito come un borghese qualsiasi nell’atto di radersi la barba. Vista oggi, la tavola a colori di Walter Molino ha persino dell’ingenuo, ma allora aveva la forza di un servizio di apertura del telegiornale di prima serata. Tra i pochi a scandalizzarsene si segnalò Giovannino Guareschi. Quel sentore di popolo e di Bassa Padana che portava nel sangue dal Primo Maggio 1908, induceva il malcreato compaesano di Giuseppe Verdi a coltivare un senso del pudore di cui la borghesia non aveva mai saputo cosa fare. “Vedendo sulla prima pagina della ‘Domenica’ il Papa che si sta facendo la barba nel gabinetto, in vestaglia da camera” scrisse allora Guareschi su “Candido” “ho provato un senso di acutissimo disagio. Non ho mai pensato che fosse un angelo a radere la barba al Papa, e mai ho pensato che in Vaticano non esistessero camerini da bagno. Però qualcosa mi ha sempre impedito di pensare il Santo Padre in atto di farsi la barba nel camerino del bagno. (…) In seguito ho fatto in modo che quel disegno cadesse sotto gli occhi di molte persone per osservare le reazioni. E poiché mi sono accorto che la quasi totalità dei soggetti ha trovato la cosa quanto mai normale, ho concluso, ancora una volta di più, che io sono un sorpassato. (…) Siamo dei superati (…) e la prima pagina della ‘Domenica’ col Papa in borghese che si fa la barba nel gabinetto, ci sembra addirittura qualcosa di sacrilego. Siamo dei sorpassati. Non fatecene una colpa: è soltanto una disgrazia. O una fortuna”. L’era trionfale del Grande Fratello tecnologico divenuto ormai un facsimile del Corpo Mistico era di là da venire. Marshall McLuhan non aveva ancora spiegato che “l’idea secondo la quale ciò che conta è il modo con cui un mezzo viene usato è l’opaca posizione dell’idiota tecnologico”. Ma il grande inganno era già lì, in copertina sull’inoffensiva “Domenica del Corriere”, e il popolo di Dio, fin da allora in grave carenza di anticorpi contro lo spirito mondano, non ne avvertiva il fetore. Salvo qualche candida eccezione che, un decennio più tardi, la nuova ecclesiologia conciliare avrebbe rubricato tra i profeti di sventura.
La cesura tra Chiesa e mondo, che non separa un’epoca dall’altra ma corre intransigente lungo i secoli, come sempre era lì da vedere. Ma troppi cattolici avevano cominciato a socchiudere i loro occhi miopi nell’illusione di guardare più lontano. Tentavano di intravedere un futuro e amabile incontro con lo spirito mondano e non si curavano del presente. Pur delicato come richiedevano le buone maniere del tempo, quel “Papa in borghese che si fa la barba” sulla “Domenica del Corriere” era un’astuta aggressione mondana mascherata da educata attenzione. Vero e proprio atto di guerra posto per via affettuosa e familiare, procedeva alla spoliazione di Pietro dai segni che i secoli cristiani avevano elaborato per farne il Vicario di Cristo agli occhi di ogni uomo: dei cattolici di “Famiglia cristiana”, dei borghesi della “Domenica del Corriere” e dei comunisti di “Vie Nuove”. Paramento dopo paramento, concetto dopo concetto, preghiera dopo preghiera, prima per sola mano del mondo e poi con complicità cattolica, la persona del Papa sarebbe stata spogliata di tutto, fino a lasciarle la sola logora veste da cappellano di ospedale da campo. Ma, così denudato, il Vicario di Cristo, che anche a volerlo non può essere un altro San Francesco, diventa flebile persino nella voce. Per quanto meritori siano, i richiami che lancia contro lo spirito del mondo sono destinati a rimanere inoperanti: il discorso cristiano, privato degli ornamenti che gli sono propri, anche quando si fa invettiva, finisce per farsi rivestire di significati e di simboli orditi dal mondo stesso e, quindi, a per essere muto.
Da quando ha deciso di abbracciarlo, la Chiesa ha preso a parlare al mondo facendo proprio il suo bon ton, che negli Anni Cinquanta era borghese e di destra e oggi è borghese e di sinistra, ma comunque sempre un po’ radical e un po’ chic. Per questo sono stati messi da parte intellettuali genuinamente popolari come Guareschi, che allo spirito mondano gettavano in faccia il suo peccato d’orgoglio con una ferocia esemplare anche oggi. Nessuna madame Verdurin avrebbe voluto nel suo salotto un bifolco capace di scandalizzarsi per il Papa ritratto in vestaglia, refrattario alle magnifiche sorti progressive e così poco comme il faut. “La storia non la fanno gli uomini.” Aveva osato scrivere quel contadino “gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia. E la storia, del resto, è in funzione della geografia. Gli uomini cercano di correggere la geografia bucando le montagne e deviando i fiumi e, così facendo, si illudono si dare un corso diverso alla storia, ma non modificano un bel niente, perché, un bel giorno, tutto andrà a catafascio. E le acque ingoieranno i ponti, e romperanno le dighe, e riempiranno le miniere; crolleranno le case e i palazzi e le catapecchie, e l’erba crescerà sulle macerie e tutto ritornerà terra. E i superstiti dovranno lottare a colpi di sasso con le bestie, e ricomincerà la storia. La solita storia”. Se ogni secolo, per rinsavire, ha bisogno di santi che lo contraddicano in nome di Cristo, quello attuale, popolato da troppe madame Verdurin extra muros e intra muros, mendica parole malgarbate come queste. Invettive che nulla hanno di mondano e perciò ricordano a ogni uomo la pochezza del suo potere sul tempo e sulla vita. Là dove impera l’orgogliosa frenesia del fare la storia, un po’ da salotto e un po’ da revolucion, si può contrapporre solo l’umile assunzione di ciò che nel tempo e nello spazio non è soggetto alle mode e non può mutare. Chi voglia soccorrere un’epoca in cui la rivoluzione manifesta i suoi esiti più blasfemi deve offrire in elemosina la moneta pulita e sonante tradizione. Per restituire il vero senso della libertà a un uomo oppresso dalla tirannia della storia che registra il meramente avvenuto, bisogna indurlo a contemplare la nobiltà della tradizione che rappresenta il possibile e perciò l’universale. Ma oggi i cristiani trovano più comodo assoggettarsi al senso ultimo di qualsiasi filosofia della storia, che finisce sempre per spiegare che quanto è avvenuto doveva avvenire, togliendo alla tradizione il regno dei significati e lasciandole quello della fantasticheria.
Chiunque voglia sanare gli uomini dall’orgoglio originale e indurli alla vera povertà, quella di ogni creatura davanti all’eternità e all’infinità di Dio, come fa Guareschi nelle sue scandalose considerazioni, dovrebbe ribellarsi a una cultura che trasforma dei semplici fatti in verità intolleranti. Dovrebbe mostrare che la storia è il cortile angusto di ciò che è accaduto e non tornerà più, mentre la tradizione è il manifestarsi dell’eterno nel tempo e non perirà mai. Una è la celebrazione grigia e senza prospettiva delle fortune dei potenti, l’altra è un mondo dalle mille dimensioni che consegna il suo destino anche all’ultimo degli ultimi. Ma la Chiesa d’oggi, meaculpista per il suo passato costantiniano e il matrimonio con un potere che pur sapeva tenere a bada, finisce per fornicare con un potente che non ne vuole sapere di vincoli spirituali e morali. Così premia senza vergogna Giorgio Napolitano, per mano della Pontificia Università Lateranense, in virtù del suo “generoso e sacrificato impegno nella promozione dei diritti della persona e nella tutela della dignità di ogni donna e ogni uomo (…) per la passione educativa nei confronti delle nuove generazioni (…) il cospicuo magistero e la coerente testimonianza di vita”. Non è così che si evoca almeno un senso di nostalgia di Dio, che si insinua anche l’ultimo dei barabba un filo di speranza da indurlo a sospirare “Che bello se il mondo fosse così”.
Il senso più profondo della narrativa guareschiana, che nasce dal sacro irrompere della tradizione nelle lande profane del mondo, sta nel coraggio che oggi la Chiesa non riesce più a darsi. Tuonare contro le ricchezze di qua e di là dal Tevere finendo per travolgere anche lo splendore dovuto a Dio non è affare da capitani coraggiosi, ma da furbi public relations. Però non produce prodigi perché anche il più abile dei pr non riuscirà mai a rendere desiderabile un mondo votato alla povertà e alla sciatteria. Non indurrà mai l’uomo a guardare in alto, ma lo costringerà a cercare in basso. Il prodigio che per secoli la Chiesa ha prodotto con la sua liturgia, la sua preghiera, la sua predicazione, la sua teologia, la sua dottrina, il suo catechismo, e che oggi sopravvive a ogni voltare di pagina in opere come quelle di Guareschi e fa sospirare sul quel “Che bello se il mondo fosse così”, è frutto di un miracolo capace di mostrare come sarebbe il mondo se l’uomo non si opponesse alla Grazia. Non il mondo perfetto inventato dalle ideologie: anzi, un mondo ancora piagato dal dolore, dal male e dalla morte, ma in cui tutto, finalmente, ha un senso. Un mondo trasfigurato già qui e ora per la presenza di Cristo crocifisso e della Chiesa che ne distribuisce la Grazia attraverso i sacramenti per mano dei suoi sacerdoti.
E’ qui che la tradizione, oltre la soglia anche della più povera cappella di campagna, si fa liturgia e, oltre il frontespizio della più popolare opera letteraria, si fa poesia. Alimentati dal senso della tradizione, il linguaggio poetico e quello liturgico, che nulla hanno di sentimentale, si incaricano di restituire il suo vero essere a ciò che il discorrere profano aveva illuso di esistere altrimenti e altrove. E’ il momento del grande ritorno a casa, un rimettersi al Creatore che Guareschi descrive con linguaggio quasi da predicatore medievale:“(…) gli uomini sono delle disgraziate creature condannate al progresso, il quale progresso porta irrimediabilmente a sostituire il vecchio Padreterno con le nuovissime formule chimiche. E così, alla fine, il vecchio Padreterno si secca, sposta di un decimo di millimetro l’ultima falange del mignolo della mano sinistra e tutto il mondo va all’aria”.
Allora, solo il senso della tradizione, che è fatto di cerimoniosa precisione dottrinale e rituale, può ricomporre l’ordine voluto dal Creatore una volta per sempre. “Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat juventutem meam”, e lì attorno si fanno presenti tutti: i Serafini, i Cherubini, i Troni, le Dominazioni, le Virtù, le Potestà, i Principati, gli Arcangeli, gli Angeli, i Santi, i Beati e tutti i morti e, nel cuore di chi si inginocchia con devozione, anche tutti i vivi a cui vuole bene. Tra i Kyrie eleison, i Dominus vobiscum e gli Oremus, il tempo riprende il suo scorrere verso ordinato il Cielo con l’incenso, la luce delle candele e le preghiere, anche quelli ad maiorem Dei gloriam. E, fedele alla sua promessa, Nostro Signore viene ancora una volta a immolarsi per noi. Lo guardi, ti fai bambino e gli chiedi tutto quello che hai nel cuore e vorresti proteggerlo anche se lui è immensamente forte. Ma è proprio questo il bello di essere cattolici: provare tenerezza nei confronti dell’essere più potente dell’universo.
Tutto questo lo si comprende davvero soltanto entrando in chiesa. Non c’è linguaggio mondano che lo possa trasmettere neanche al più ben disposto degli uomini. Per quanto pia, è solo un’illusione quella che spinge i pastori ad assumere l’odore del gregge per farsi comprendere e per guidarlo. Nathaniel Hawthorne, nel “Il fauno di marmo”, scrive: “Gli amici uscirono dalla chiesa e guardando in su, dall’esterno, alla finestra che avevano ammirato da dentro, non vedevano nient’altro che il semplice contorno di un’ombra tetra. Niente poteva più essere distinto, né il singolo ritratto di un santo, di un angelo o del Salvatore, né tanto meno lo schema complessivo e il significato del disegno. ‘Tutto questo’, pensò lo scultore, è il più sconvolgente emblema di quanto sia diverso l’aspetto di una verità religiosa o di una storia sacra quando è visto dal caldo interno della fede oppure dal suo freddo e cupo esterno. La fede cristiana è una grande cattedrale, con vetrate divinamente dipinte. Stando fuori, tu non vedi alcuna gloria, né riesci a immaginarne una; stando dentro, ogni raggio di luce rivela un’armonia di ineffabili splendori’”.
Il tentativo di spiegare la Chiesa al mondo usando parole mondane è destinato a mostrare agli uomini “il semplice contorno di un’ombra tetra. E’ un parlare concitato da ospedale da campo, dominato dal pathos, che finisce per mondanizzare in arrendevolezza la misericordia. E’ un arrendevole ospedale da campo quello in cui si fermò Simone Weil, sulla soglia della conversione, senza mai entrare in Chiesa. Scrive in proposito Cristina Campo: “’Potrei darle il battesimo anche così’ disse a Simone Weil padre Perrin, e inevitabilmente, Simone fece un passo indietro. Un più profondo e rigoroso teologo le avrebbe negato il battesimo tout court, senza tentare né l’arrendevolezza né il ptahos. E Simone Weil avrebbe, con ogni probabilità, piegato il ginocchio. La rivelazione di una Chiesa pura perché tremenda, pietosa perché inflessibile, in totale contraddizione con il mondo, tetragona e bruciante, non era certo per atterrire Simone Weil ma solo, appunto, ciò di cui, in Simone Weil, Simone Weil soprattutto desiderava la morte: la partie médiocre de l’âme”.
Chiunque offra di meno, pur a fin di bene, imbroglia e chiunque accetti di meno ci rimette. E ciò avviene perché, quasi sempre, nella Chiesa di oggi si scambiano i luoghi e i ruoli: si distribuisce misericordia dove servirebbe il rigore e si impiega il rigore dove servirebbe la misericordia. Per questo un prete come don Camillo, inflessibile dal pulpito e misericordioso in confessionale, è fuori moda. Quando celebra la Messa e predica tuonando contro le nefandezze del mondo moderno, comunismo compreso, si rende odioso alla borghesia di sinistra. Ma, quando assolveva Peppone con quindicimila “Pater noster” di penitenza, si inimica la borghesia di destra. Però alla fine Peppone, che ben poco ha del comunista e don Camillo lo sa benissimo, entra in chiesa e non solo di notte quando non vuole perdere la faccia davanti ai suoi compaesani. Grazie a quel prete cattolicamente mal garbato e tridentino, Peppone ha vinto il peccato d’orgoglio che sfigura l’uomo moderno e postmoderno e si traduce nella pretesa di ricevere i sacramenti da una Chiesa a cui non si riconosce il potere di negarli. Ma ci vuole un don Camillo per guarire le pecorelle da tale malattia. Lui che, in riva al fiume per la benedizione rituale prega:  “Gesù se in questo sporco paese le case dei pochi galantuomini potessero galleggiare come l’arca di Noè, io vi pregherei di far venire una tal piena da spaccare l’argine e da sommergere tutto il paese. Ma siccome i pochi galantuomini vivono in case di mattoni uguali a quelle dei tanti farabutti, e non sarebbe giusto che i buoni dovessero soffrire per le colpe dei mascalzoni tipo il sindaco Peppone e tutta la sua ciurma di briganti senza Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli ogni prosperità”.
E l’amen rituale non sgorga dalle gole dei borghesi rintanati nelle loro case per timore di qualche palla di fucile. “’Amen’ disse dietro le spalle di don Camillo la voce di Peppone. ‘Amen’ risposero in coro, dietro le spalle di don Camillo, gli uomini di Peppone che avevano seguito il Crocifisso”.

Fonte il Folglio 4 XII 2013

martedì 3 dicembre 2013

Messa antica cantata a Monza per la solennità dell'Immacolata Concezione



Come si sa a Monza vige il Rito romano e qui quella delle Adoratrici Perpetue è probabilmente l'unica chiesa della Arcidiocesi di Milano in cui ha trovato, non senza iniziali difficoltà, piena applicazione il Motu Proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI. Infatti in forza di un'obiezione adducente la presunta inestensibilità del SP al Rito Ambrosiano - obiezione di manganiniana memoria sulla cui fallacia e irrazionalità si è più volte riflettuto (vedi qui e qui) e dalla quale purtroppo la Curia milanese non ha mai preso definitivamente congedo - le Messe ambrosiane VO continuano a essere celebrate in stretto regime d'indulto a Milano, Legnano e Induno Olona.

A Monza, dunque, la S. Messa in Rito Romano Antico viene celebrata tutte le domeniche e feste di precetto alle ore 18.45 nella Chiesa delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento in via Italia 37 (per informazioni: lamessadisempre@gmail.com)
In particolare domenica 8 dicembre, alle ore 19.00, sarà celebrata nella stessa chiesa la Solennità dell’Immacolata Concezione della B.V. Maria con una Messa VO cantata seguendo l'antica composizione della “Missa Brevis” di Andrea Gabrieli (1510 ca. – 1586). È previsto il contributo artistico di Elisabetta De Gaudenzi (soprano), Ilaria Boschini (contralto), Luigi Ronciglia (tenore) e di Matteo Riboldi (basso e harmonium)

Pubblichiamo qui di seguito la bella presentazione della Messa VO redatta dal Gruppo stabile di Monza che ringraziamo fraternamente:


La Messa gregoriana a Monza: una grande opportunità per tutti i fedeli

E’ ormai da un anno e mezzo che a Monza si celebra nuovamente la Messa nel rito di San Pio V, quella forma che era usata dalla Chiesa fino alla riforma del 1968.

Erano 44 anni che nella città di Teodolinda non accadeva un fatto simile. A renderlo possibile,  Papa Benedetto XVI e l’iniziativa di un gruppo di fedeli, che con più di cento firme nel 2010 hanno chiesto all’arciprete del Duomo e all’arcivescovo di Milano l’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum. Il Cardinale Scola ha assecondato la volontà di Benedetto XVI, confermando che  celebrare quella Messa ancora oggi, nel 2013, ha un grande valore soprannaturale e umano.

La liturgia in rito antico è preparata e celebrata ogni domenica con cura da Padre Bruno Scuccato, sacerdote del Sacro Cuore, assistito da ministranti e chierichetti. In questi mesi i fedeli si son dati da fare per rimettere insieme tutti i sacri oggetti, le vesti, il manipolo, e ogni altra cosa necessaria a celebrare in conformità alla tradizione cattolica e all’insegnamento della Chiesa.

Il colpo d’occhio che si offre ai fedeli è davvero sorprendente, davanti al bellissimo e antico altare della chiesa delle suore “Preziosine”; un altare ideato su ispirazione divina dalla Madre Serafina, fondatrice dell’ordine. Un altare che ha uno sviluppo verticale, proteso verso l’alto da una piccola scalinata che culmina nel luogo in cui viene esposto l’ostensorio all’adorazione perpetua delle suore e dei fedeli. Difficile immaginare una collocazione più idonea e più provvidenziale per ridare vita e corpo alla messa di sempre, con il sacerdote voltato verso Dio, impegnato a compiere quei gesti antichi e a ripetere quelle formule che per secoli e secoli hanno accomunato le messe di ogni luogo e di ogni prete nell’orbe cattolico. Un altare che in tutti questi anni non è stato demolito o modificato, ma meritoriamente conservato nel suo aspetto originario.

Chi pensa che il ritorno alla Messa antica sia un fenomeno che riguarda una minoranza di stravaganti e di vecchi nostalgici, dovrebbe provare a frequentare la messa della domenica sera in via Italia: nella chiesa delle Adoratrici Perpetue ci sono ogni settimana fedeli di ogni età: giovani e anziani e famiglie con i loro bambini. Sulle panche, i fedeli trovano i messalini con il testo latino-italiano per seguire la liturgia; e le fotocopie con il “proprio” della Messa e le letture del giorno. E i fedeli recitano in modo corale le preghiere di loro competenza, osservando invece un profondo silenzio nelle numerose parti riservate al sacerdote. Alcuni canti in gregoriano e in volgare accompagnano abitualmente la Messa letta.

     

lunedì 2 dicembre 2013

San Filippo Neri e l'Oratorio inglese a Seregno



Venerdì 6 dicembre alle ore 21, presso la Sala comunale Mons. Gandini di via XXIV Maggio, Padre Massimo Malfer dell'Oratorio di Verona e lo scrittore Paolo Gulisano saranno ospiti  del Circolo Culturale John Henry Newman.
Il Circolo, che da ormai tre anni rappresenta un punto di riferimento per il cattolicesimo tradizionale a Nord di Milano, ha infatti organizzato una conferenza su "San Filippo Neri e l'Oratorio inglese". Sarà l'occasione per approfondire una vicenda paradigmatica per chi auspica  il ritorno della Chiesa alla Tradizione cattolica tramite la riscoperta delle sue forme.  Padre Massimo CO è autore di un originale volume su "San Filippo Neri, mistico antimistico" (ed. Fede&Cultura), Paolo Gulisano, che ha scritto un'interessante biografia di J.H. Newman (Ancora), è noto al pubblico per la sua profonda conoscenza del cattolicesimo anglosassone a partire da Tolkien che d'altronde fu allievo della scuola dell'Oratorio di Birmingham. La locandina può essere scaricata qui.

Sabato 7 dicembre alle ore 9,00 P. Massimo Malfer CO celebrerà per i soci del Circolo, per gli oratori e per il pubblico una Messa VO presso la Chiesa abbaziale dei Monaci Olivetani in via Stefano da Seregno 100 a Seregno.

«J’ai vu l’Église!». Della  relazione tra liturgia ed ecclesiologia.



        Ad un congresso svoltosi a Friburgo il 17 ottobre per celebrare il cinquantesimo anniversario della Sacrosanctum concilium e della fondazione dell’Istituto liturgico della Svizzera, il Cardinal Kasper, stando a quanto riferisce l’Osservatore Romano, avrebbe espresso il seguente pensiero: la costituzione sulla sacra liturgia non fu solo il primo documento a essere promulgato dal Vaticano II (al termine della seconda sessione) ma espresse anche la volontà dei Padri conciliari di una riforma della Chiesa nel suo insieme.

  Questo brevissimo passaggio mostra la chiara consapevolezza della stretta ed innegabile relazione tra liturgia ed ecclesiologia.
Tale relazione, già chiaramente nota ai riformatori dei secoli passati, esplicita l’efficacia pastorale e missionaria della forma liturgica. Se una Messa orizzontale e circolare favorisce un’ecclesiologia ispirata alla collegialità e all’ecumenismo, una Messa verticale e del tutto protesa alla trascendenza favorisce una visione della Chiesa quale ordine gerarchico soprannaturale.
È forse per questo che i progressisti più radicali non tollerano in alcun modo la Messa di sempre, fino a rifiutarle la cosiddetta libertà liturgica. La Messa di sempre rappresenta in se stessa la negazione delle loro tesi ecclesiologiche e, in ultimo, delle loro eresie. Non possono tollerarla, neppure se non li interessa direttamente. L’odio che taluni manifestano per la liturgia tradizionale tradisce invero la loro paura: la paura di un culto pubblico in cui la Chiesa proclama solennemente la condanna dei loro errori.
  La relazione tra liturgia ed ecclesiologia e la conseguente efficacia pratica, pastorale e missionaria, della Messa di sempre sono state perfettamente colte da una grande anima liturgica come dom Gératd Calvet OSB.


  “L’instabilità dell’uomo moderno deriva in gran parte dal fatto che ha perso il senso della vita comune; l’individuo destabilizzato, perché concentrato su sé stesso, ha bisogno, per restare davvero sé stesso, di appartenere a una comunità visibile, o invisibile. Non faremo un processo alla società civile, nella quale il collettivismo anticomunitario individualizza gli esseri abbandonandoli ai flutti incolori di una massa senza struttura; ma come non riconoscere, purtroppo, lo stesso fenomeno nell’ordine ecclesiale? Ora la Chiesa, Sposa e Corpo mistico di Cristo, è la società più diversificata, strutturata, gerarchizzata che esista: dal vertice fino alla base, tutto porta l’impronta di una gerarchia sacra che emana dal suo centro vivificante. Questa Chiesa celeste composta da angeli ed eletti, che i nostri pittori primitivi hanno rappresentato con occhi spalancati, mani giunte e disposti in ranghi attorno all’Agnello, dai più importanti Serafini fino alle anime del Purgatorio che salgono per prendere posto tra i numerosi cori, è la nostra vera patria ed è riconoscendola che ne avvertiamo l’eternità.
Quale manuale, quale spiegazione didattica ci aprirà la mente al Mysterium Ecclesiae? Nessuno, se non la parabola vivente della cerimonia liturgica che si svolge davanti ai nostri occhi.
All’epoca del pontificato di Pio XII, il Padre abate di Bec-Hellouin, in Normandia, riferiva che all’uscita di una Messa solenne alla quale assistevano alcuni pastori protestanti, uno di loro, emozionato, esclamò: «Ho visto la Chiesa!». La ragione misteriosa di questo grido estatico non dev'essere ricercata lontano dalla nostra celebrazione dell’Ufficio, fiume carico di religione e di luce, di canti, profumi, formule e riti solenni, che discende dall’altare attraverso l’ufficio del diacono, per coinvolgere la comunità dei fedeli che assistono nella navata, veri attori del dramma liturgico, dove il clamore si sposa al silenzio dell’anima.
Non è raro che il meraviglioso concatenarsi di salmi e profezie, che compone la preghiera pubblica, conduca un’anima in ricerca fino al santuario, dove questa voce melodiosa gli svela il mistero della Sposa. Padre Humbert Clérissac raccontava come un rabbino, nel secolo XII, si fosse convertito alla fede cattolica; l’uomo avendo osservato che il lirismo della sinagoga era passato nella liturgia della Chiesa, non ebbe difficoltà a identificare la fonte autentica della rivelazione. Dom Ildefons Herwegen, già abate di Maria Laach, ne ha esposto la ragione: «È nella liturgia, specialmente nel messale e nel breviario che la Scrittura acquisisce la pienezza della sua luce e della sua vera eloquenza; in effetti la liturgia è l’espressione sintetica e lirica delle due forme più soprannaturali: la sacra Scrittura e la santa Chiesa».
In Virgilio c’è un brano profetico che chiarisce le profondità della storia. Enea, visitato da una misteriosa consolatrice, non la riconosce se non al momento del suo partire, in maniera furtiva: «Et vera incessu patuit dea» («Vera dea s’aprì al portamento»[Eneide I,405]). Ciò che la Chiesa porta in sé di soprannaturale, non si coglie forse solo attraverso uno stile di preghiera misterioso, soave, celeste, aereo, attraverso il quale si manifesta proprio mentre si sottrae?”

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le sens de l’Église, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 244-246, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]