sabato 30 novembre 2013

Don Giussani, il Sillabo e l'ora presente della Chiesa

 


Il lettore cattolico delle Tischreden di don Giussani si inbatte in un passo che, se sulle prime desta qualche soddisfazione, si rivela in una seconda lettura non privo di ambiguità e di insidie. Il fondatore di CL, che si sofferma sul senso del Sillabo e della Pascendi, denuncia l'impervesare dell'eresia modernista nell'ora presente e si auspica una chiamata di Dio affinché la Chiesa dichiari la verità, sembra subito insinuare una strana possibilità: che la Chiesa, in assenza di questa chiamata, "debba" (nel senso di un dovere o di un'ananche, di un destino?) "umilmente subire la tempesta del dubbio e della indecisione". Riportiamo di seguito la citazione di don Giussani e un'annotazione.

"In un momento come quello di oggi sarebbe veramente una grazia che la Chiesa si sentisse chiamata da Dio a esplicitare tutta la verità che già porta nel seno della sua vita quotidiana.
E' quello che è accaduto alla fine dell'Ottocento con il Sillabo. Per questo è odiato il Sillabo: perché ha chiarito le parti (insieme all'enciclica Pascendi contro il modernismo). Adesso, invece, il modernismo domina ovunque. Se Dio non chiama la Chiesa ad un intervento, la Chiesa umilmente deve subire la tempesta del dubbio e della indecisione. Bisogna pregare la Madonna che dia alla Chiesa guide e documenti chiari. Come la Redemptor hominis, di cui ricorre l'anniversario in questi giorni"  (L. Giussani, L'attrattiva Gesù, Tischreden del 1994)


Si potrebbe discutere se la Redemptor hominis sia questo capolavoro di chiarezza. Ma il punto è un altro: Don Giussani aveva precisa contezza della crisi dottrinale e la chiamava con il suo nome, "modernismo". Aveva chiaro che il Sillabo e la Pascendi affermavano tutta la verità, e, cioè, la verità sul mondo moderno: contrario, nella sua stessa essenza, a Dio. Ci si chiede allora come possa la Chiesa "subire umilmente".  La Chiesa non ha bisogno di una chiamata speciale di Dio per fare ciò per cui esiste - ossia difendere e predicare la Fede - perché ha già ricevuto la propria missione dal suo divino Fondatore:

"Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28, 18-20);


e se la Chiesa non corrisponde a questa missione, semplicemente non fa il suo dovere. È per questa via che la Tradizione si dissolve nel pneumatico magistero vivente. Dio, per molti seguaci di don Giussani, non ha parlato una volta per tutte, ma parla quotidianamente per bocca del Papa, del Concilio, di Carrón, della comunità. Anche le loro mancanze sono allora da imputare a Dio e debbono pertanto essere umilmente subite e accettate.
L'errore dev'essere combattuto, da ogni cattolico. Accettiamo che Dio non dia alla sua Chiesa, in un dato momento storico, di trionfare. Ma mai imputare a Dio la volontà dell'errore.

mercoledì 27 novembre 2013

In exitu fidei. Oggi su il Foglio la disputa tra Emmanuel Exitu e Gnocchi&Palmaro



Oggi il Foglio pubblica una lettera indirizzata ad Alessandro Gnocchi e a Mario Palmaro da parte del regista Emmanuel Exitu. Emmanuel Exitu, che secondo una filiazione più letteraria che carnale si dice "figlio illegittimo" di Giovanni Testori, rivendica la propria appartenenza a Comunione e Liberazione e declina tutti gli argomenti dell'esperienza giussaniana del Cristo contro la fede cattolica (guareschiana) di  Gnocchi&Palmaro. Questi ultimi rispondono e ne scaturisce un'interessante disputa sulla fede. Pubblichiamo qui di seguito i due scritti con partigiana e cattolica simpatia per i contraddittori di Exitu.

Emmanuel Exitu vs Gnocchi&Palmaro

La premiata ditta d’imbalsamazioni Gnocchi&Palmaro dispiace perché pretestuosa nel maneggio delle fonti e piena di risentimento. Sarebbe divertente ribattere colpo su colpo con la gioia maligna del vandalo, ma non c’è spazio né cultura sufficienti. Si può però ribattere sul piano dell’esperienza, che poi sulle faccende di vita è l’unico piano che davvero conti. Non a difesa del papa, che sa benissimo difendersi da solo, ma a difesa di me stesso, della mia esperienza di moderno che vive oggi la fede seguendo l’esperienza viva di testimoni afferrati da Cristo oggi. G&P cita tutti, tranne Cristo: del rapporto con Lui non racconta. Quel rapporto bisogna viverlo, non basta avere in memoria tutti i libri cattolici fino all’ultima nota per poi mitragliare senza pietà chiunque ritenga fuori dalle righe. Il testo scritto ha il difetto che puoi fargli dire quello che vuoi. Un testo vivente, invece, è più scomodo da maneggiare: se fai il furbo, si ribella. G&P usa molti testi scritti (nessuno creda però che gli autori citati siano così noiosi: sono presi come farfalle inchiodate al velluto e non osservate in volo, ma in realtà pompano sangue nelle vene); ma non usa testi viventi, gli unici che potrebbero davvero convincere un uomo, e in particolare un moderno. E i testimoni che abbiamo sotto gli occhi non sono pataccari: portano prove che si toccano e si vedono. P.e. Aldo Trento, sacerdote che ha ispirato alle reducciones la sua parrocchia in Paraguay: clinica per malati terminali, scuole, giornali, opere che però sono nulla rispetto ai frutti di conversione. Qual è la sua pastorale? Lo dice con Ruiz de Montoya, primo gesuita laggiù: “«Per due anni ci siamo guardati dal giudicare intorno al sesto e al nono comandamento, del tutto incomprensibili per i Guaranì poligamici. Ci siamo preoccupati di non distruggere quelle tenere e giovani piante, annunciando solo l’avvenimento della bellezza di Cristo». Dopo due-tre anni i Guaranì, diventati cristiani, hanno cominciato a chiedere il matrimonio monogamico: con la nascita della famiglia nasce il primo popolo cristiano della selva. Il rapporto gesuiti-indios era definito dalla libertà.” Non è roba fantastica? A leggere G&P vien da pensare che avrebbe invece mandato i droni per bombardare i Guaranì con i più massicci tomi di teologia morale: e chi non ha il fisico, peggio per lui. Oppure, Chiara Corbetta e Francesca Pedrazzini, due bellissime tutte casa&chiesa morte per tumore raccontato come di una festa perché andavano a scoprire il posto che Gesù ha preparato per loro. Non erano impazzite, basta una googlata per vederlo, ma è anche impossibile credere che vivessero così perché avevano le istruzioni per l’uso desunte dai santi libri: lo facevano solo per l’esperienza dell’amicizia di Gesù, come bimbe in braccio al padre, impadronendosi delle sue mani attraverso l’amicizia sacramentale di familiari e amici. Non si può dire che G&P sbaglino il materiale vertiginoso e razionale della liturgia, della morale, della teologia e chi più ne ha, ne metta. Ma le case che costruiscono sono brutte e soffocanti, inospitali. Esistono esperienze che con lo stesso materiale – di cui nessuno nega l’essenzialità – costruiscono cattedrali, ospedali, rifugi, dimore aperte a tutti, perfino a Scalfari. Gesù (oddio: sarà blasfemo scrivere il nome di Gesù di fianco a quello di Scalfari?) l’ha detto meglio: il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato. Se riti, preghiere, tutto il deposito tradizionale non fa più vita la vita di tutti i giorni, quella solita, che taglia le gambe, si può obiettare che qualcosa non torna nelle loro proposte? Non è il materiale, quindi, ma l’uso che ne fanno. Rimango cristiano perché la mia vita è più vita: e, sia chiaro, nessuno mi ha mai fatto uno iota di sconto su verità di fede e morale. Fede e morale, però, mi sono sempre state offerte in un’amicizia che non mi ha mai imposto nulla, ma mi ha fatto desiderare tutto, innamorandomi sempre più fino ai sacramenti, o al gusto del gregoriano, o all’inchino durante il Credo, o alla storicità dei Vangeli! Perfino alla verginità, alla povertà, e chi più ne ha, ne metta! Chi l’avrebbe detto che la vita può essere così vita? Ma il fascino non è partito dai predicozzi, è nato nell’incontro con persone vive e liete che hanno scatenato in me la voglia di quella vita.
La verità è un bastone, certo, ma da usare per sostenere il cammino, non da dare in testa agli altri – e se s’irrompe in un ospedale da campo, si mena tutti, si disprezzano i feriti dicendo che se lo sono meritato e si sbeffeggiano gli operatori perché hanno i camici sporchi di sangue, poi non ci si può lamentare se arriva qualche calcio nei denti. Quando non c’è coscienza chiara della propria identità, che per un cristiano corrisponde alla coscienza di Chi lo sta facendo ora, le forme hanno una cristallizzata e intoccabile priorità per cui ogni scostamento è la fine del mondo (G&P replicherà che riporta solo la tradizione, con una sicumera che fa sospettare che lo Spirito Santo, in volo verso la Sistina, sia stato abbattuto e fatto precipitare a casa sua: vorrei vedere le prove, però).
È roba che scotta, invoco mani più sante delle mie. Il focus però è chiaro: nel cammino di fede, a cosa si guarda? A cosa guarda G&P? Non riuscivo a capirlo, poi ha descritto scandalizzato la visita del Papa alle grotte vaticane: “Volgendosi al chierichetto che teneva le mani giunte, il Papa gliele ha aperte chiedendo se fossero incollate. Ma il bambino evidentemente educato alla lode e all’adorazione le ha prontamente offerte a maggior gloria di Dio ricongiungendole.” Intrigato, sono andato su youtube e ho visto. Il papa entra, ci sono due chierichetti, si accorge di loro: non “si volge” per caso, ma proprio li punta. Il primo lo guarda arrivare con la faccia che avremo tutti in paradiso: stupita e beata. Il papa l’abbraccia e il sorriso del bambino si espande ancor di più nel calore di quell’attenzione inattesa e dedicata solo a lui (fior di monsignori, attorno). Il secondo è impalato nella cerimonia, occhi sbarrati, e così rimane nell’abbraccio del papa, che se ne accorge e cerca di scioglierlo. Sembra dire: “Se tenere le mani incollate non ti facilita il riconoscimento dell’Amore, a cosa serve? Posso insegnarti un modo per cui le mani così aiuteranno la tua felicità. Intanto abbracciami.” Francesco non disprezza le mani incollate, né tanto meno impone “voglio che tu sia bravo”: con quel gesto così scandaloso grida “voglio che tu sia! senza condizioni!”: questo non è amore vero e razionale, a cui non basta la ragione per realizzarsi? G&P ci vuole imbalsamati, il Papa ci vuole vivi e combattivi ora: cos’è più razionale e desiderabile? Questo è il focus. Sto dalla parte del Papa non perché è il Papa, ma perché lo desidero io, sulla mia vita, quello sguardo che ha avuto sui chierichetti! Che commozione! Che tenerezza! Che invidia!
Ora però il testimone scotta troppo, bisogna proprio passarlo a Giussani (Congresso Catechistico Internazionale, 2002): “Secondo la pedagogia divina ricordata nel Direttorio, il libro della fede deve essere sempre presentato da un testimone e accompagnato da una esperienza, così da poter cogliere la coincidenza fra contenuto e metodo tipica della rivelazione cristiana. […] Le verità del catechismo diventano così, attraverso la carne del testimone, non dottrina cristallizzata, ma eco di un avvenimento vivente, di un incontro totalizzante che rende possibile la permanenza incidente del Mistero di Cristo nella storia. Chi rimane fedele ai sacramenti e al dogma, anche attraverso un uso intelligente e affettuoso del Catechismo, custodito dalla memoria, può essere facilitato nel riconoscimento della Realtà vivente espressa dai dogmi attraverso un incontro personale.” E se Giussani vi sta antipatico, Catechismo n. 25: “tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore, così da far comprendere che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire se non dall’amore, come nell’amore ha d’altronde il suo ultimo fine.”
Se scopo dei cristiani fosse difendersi dal mondo, non si saprebbe da dove cominciare (e neanche dove finire, tant’è lo sfacelo così evidente ovunque). È una vita reattiva, logorante e brutta. Gesù fece qualcosa di diverso, racconta Peguy, perché “c’erano tempi brutti anche sotto i Romani. Ma Gesù non si tirò indietro, non si rifugiò dietro la disgrazia dei tempi, tagliò corto. Lui non accusò nessuno. Lui salvò. Lui non incriminò il mondo. Lui salvò il mondo.”
Per queste ragioni l’accusa a Francesco di aprire un’ignobile trattativa con il mondo moderno (cedere verità in cambio di benevolenza) è una bufala come la trattativa Stato-mafia. Le parole di G&P si attorcigliano con spirito travagliesco: uso selettivo di fonti, distorsione di dettagli fuori contesto, sguardo volutamene parziale sul magistero. Sogno un lumeggiante Fiandaca della cattolicità – con fantastico titolo: “La liquidazione della Chiesa da parte di Francesco è una boiata pazzesca” – e intanto invoco il dreamteam del Foglio: Crippa il Chesterton, SDM il Magnifico, Silva l’Esorcista, Milani il Crisostomo con rubrica “Concilio Fisso”, mastro Langone alle vettovaglie. E Smargiassi rubato a Rep.
A me stare al mondo piace da pazzi: mi piacciono le risse, mi piacciono gli abbracci. I cristiani sono nel mondo non per dare ragione al mondo, né per dargliele di santa ragione con la propria bravura (che pensieri esilaranti!). Siamo nel mondo, nel nostro mondo moderno, per dare ragione della nostra speranza. E si spera solo da un Amore vivo, perché “ci vuole pioggia, vento e sangue nelle vene e una ragione per vivere, per sollevare le palpebre. E non restare a compiangermi e innamorarmi ogni giorno e ogni ora di più, di più, di più” (Jovanotti, si parva licet).

Gnocchi&Palmaro vs Emmanuel Exitu

Non ci fosse il brillìo della scrittura, basterebbe quel suo sguardo appassionato verso Cristo a rendere degna di attenzione la cavalcata ribalda di Emmanuel Exitu fra le miserie spirituali di G&P. Anche se quello sguardo appassionato Emmanuel lo nega preventivamente con foga generosa, un po’ inquisitoria e un po’ giacobina, a un prossimo che non ha mai incontrato.
E’ vero che le sue diecimila battute ricalcano temi, argomentazioni, parole, totem e maestri conficcati a viva forza in tante altre lettere planate sulla scrivania di G&P in questi tempi: tutte uguali, tutte disperatamente aggrappate fin dalle prime righe alla dequalificazione dell’interlocutore per poi giungere, svolta dopo svolta, all’incontro con don Giussani, senza mai il brivido di trovare dietro l’angolo qualcosa o qualcuno di inatteso, senza un fremito che possa épater le bigot. Che noia. Ma qui la passione si sente davvero e si sente pure un certo fiato intellettuale che il mittente nasconde e non nasconde. Non a caso, esibisce fin dal cognome d’arte un’identità presa a prestito da un’opera letteraria, facendo di sé una semplice citazione, ma riuscendo in più di un momento a sfuggire all’abbraccio soffocante del pensiero e della vita altrui. E, quando se ne libera, parla, dice, impreca, graffia e, senza tema di venir smentiti, ama. Quel G&P trattato in terza persona singolare è frutto e segno di un interesse che riconosce almeno un po’ di umanità nell’interlocutore. Un cadeau avvolto in una piccola invenzione letteraria che non lascia indifferenti e induce G&P a rispondere in prima persona singolare: per intendersi meglio sulle questioni che contano.
A cominciare dal Gesù che non avrei mai citato e che, invece, è il sangue e l’anima di ogni parola e di ogni spazio con cui sono state composte quelle pagine capaci di scandalizzare persino una creatura a prima vista così disincantata e anticonvenzionale come Emmanuel Exitu. Quelle parole basta rileggerle, o forse leggerle davvero, per rendersi conto che non serve confessare a ogni passo “l’incontro con Gesù” per sentire il Figlio di Dio nelle proprie vene e nella propria anima, per farne la propria vita. Se rubo le parole di Giovannino Guareschi per descrivere la lacrima con cui il Cristo crocifisso guarisce il bambino di Peppone, non sto facendo l’intellettuale. Sto solo dando forma al pudore che mi fa sentire incapace di descrivere con pensieri solo miei il mio sguardo quotidiano su Gesù in croce. E, magari, su quella lacrima pitturata con pennellate così perfette, ci ho pianto, ci ho meditato, ci ho riflettuto: ci ho pregato. Per questo non mi sento soffocare dentro la luminosità di quella splendida casa che è la liturgia, l’edificio più bello che l’uomo abbia mai contribuito a erigere, perché è di origine divina.
Per una creatura, non esiste momento più incantevole di quello in cui apparecchia la casa perché sta arrivando il Signore a offrire ancora una volta la sua morte e a portare in dono ancora una volta la sua vita. Tutto trepida d’attesa per quanto non vi è di più grande nell’universo, e profuma ancora una volta del nardo sparso sui piedi di Gesù nella casa di Simone il lebbroso la sera prima dell’ultima cena. Non c’è momento in cui torno  davvero bambino come quando, con ingenuità poveretta, riesco a catturare una goccia dell’acqua santa che il sacerdote, alter Christus, distribuisce lungo la navata prima di salire all’altare di Dio, al Dio che letifica la mia giovinezza. E’ come essere accanto a quella donna che riesce a toccare il lembo del mantello di Gesù e fare come lei. “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. E io, che ero in ginocchio, mi alzo e mi sento in pace perché Gesù mi ha guardato.
Ma non c’è nulla di sentimentale in tutto questo. Per guarire nel corpo e nell’anima, l’uomo, che è una creatura razionale e quindi liturgica, ha bisogno di ben altro che il sentimento. La piccola ma incresciosa vicenda del bambino con le mani oranti ripreso dal Papa ha colpito tanto Emmanuel perché dice questa verità e sta alla radice del senso religioso. Ma lui, Emmanuel, non lo ha ancora capito. E’ andato a caccia del filmato su Youtube e poi ha compiuto l’operazione più inutilmente intellettuale che si potesse concepire: ha immaginato i pensieri del Papa mentre riprendeva il chierichetto con le mani giunte. Non ha compreso che qui non si tratta di discorsi, ma di gesti: di rito. Quando riconosce la necessità di adorazione che si fa strada nel cuore dell’uomo, la ragione si umilia, si purifica, si ritrae e fa spazio all’orazione: non parla. La liturgia introduce a un mondo celeste in cui leggi, gesti e parole sono stati stabiliti una volta per sempre da Dio. Farli propri non significa chiudersi in case soffocanti, preda di qualche imbalsamatore, ma accedere a una vita più bella che viene uccisa da una vivacità solo umana. Quel bambino, che ha ricomposto le mani giunte dopo che il Papa gliele aveva disgiunte, tutto questo lo ha già nel suo sangue cristiano, senza bisogno di “vacanzine”, di “scuole di comunità” e di nottate esegetiche sui testi di don Giussani. Gli è bastato imparare a servire la messa da un maestro bravo e devoto.
Naturalmente, servono anche i testimoni viventi, ed Emmanuel cita sacerdoti missionari ai confini del mondo, laici che hanno affrontato la malattia testimoniando che morire da santi è possibile. Ma la dottrina della comunione dei santi ci assicura che sono veramente vivi, oltre a questi contemporanei, tutti i membri della Chiesa di ogni tempo. A cominciare dai santi: Agostino e Benedetto, Ambrogio e Carlo Borromeo, Francesco e Domenico, Filippo Neri e Ignazio di Loyola, don Bosco e padre Pio. Sono tutti più vivi di noi, pregano per noi e ascoltano il nostro orare. Le guglie delle cattedrali gotiche pullulano di statue che rendono visibili migliaia di cristiani defunti che sono vivi nel mistero del Paradiso.
Questi cristiani ci raccontano la storia di una fede che impone di cambiare vita e abbandonare l’uomo vecchio. Non chiede un’adesione intellettuale e filosofica, ma esige un cambiamento di vita. Il Nuovo Testamento mostra una predicazione che sul piano morale è letteralmente senza sconti. Paolo scrive ai dissoluti pagani del corrotto impero romano e, tuttavia, non omette nessun insegnamento che sia necessario per una vita santa. E’ probabile che, a quei tempi, tessalonicesi, romani, filippesi, efesini non se la passassero così bene dal punto di vista del sesto e del nono comandamento. Ma la Chiesa primitiva, spesso citata per contrapporla a quella costantiniana e medievale, non si è inventa un cristianesimo riveduto e corretto a beneficio dei peccatori incalliti. La verità di Cristo, della sua Persona e della sua sequela deve essere insegnata tutta intera.
La gradualità si esprime nel perdono e nella pazienza del confessionale, non deformando la dottrina per emendarla dalle spigolosità che non piacciono all’indio Guarani e, magari, neanche alla casalinga di Voghera, al giornalista milanese o al regista bolognese. Se nel confessionale la Chiesa lava il peccato e sconfigge il nemico, dal pulpito la stessa Chiesa comunica tutto l’orrore del peccato e denuncia tutta la pericolosità del tentatore.
Senza dottrina, senza distinzioni sottili, non si diventa bravi cristiani. Lo diceva Chetserton nel 1934: “Le discussioni teologiche sono sottili ma non magre. In tutta la confusione della spensieratezza moderna, che vuol chiamarsi pensiero moderno, non c’è nulla forse di così stupendamente stupido quanto il detto comune: ‘La religione non può mai dipendere da minuziose dispute di dottrina’. Sarebbe lo stesso affermare che la vita umana non può mai dipendere da minuziose dispute di medicina. L’uomo che si compiace dicendo ‘Non vogliamo teologi che spacchino capelli in quattro’, sarebbe forse d’avviso di aggiungere ‘e non vogliamo dei chirurghi che dividano filamenti ancora più sottili’. È un fatto che molti individui oggi sarebbero morti se i loro medici non si fossero soffermati sulle minime sfumature della propria scienza: ed è altrettanto un fatto che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i suoi dottori di teologia non avessero argomentato sulle più sottili distinzioni di dottrina”.
Ma sarebbe non conoscere l’uomo, a cominciare da se stessi, se si pensasse che basta apprendere il bene per sceglierlo sempre. Lo credeva, sbagliandosi, Socrate, professando un intellettualismo che faceva coincidere conoscenza della verità morale con la coerenza di vita. Ma già Ovidio nelle “Metamorfosi” diceva: “Video meliora proboque, deteriora sequor”, vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori. “Veggio 'l meglio ed al peggior m'appiglio” confessa Petrarca. E Paolo di Tarso nella “Lettera ai romani”: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. Però questa conoscenza dell’animo umano non deve produrre il testacoda logico secondo cui conoscere la verità morale non serve: possedere la dottrina non basta, però è necessario. Come direbbe Pascal, è il ben pensare che porta al ben agire, e Chesterton, gli fa eco spiegando che la strada dell’inferno è lastricata di tutto, tranne che di buone intenzioni. La ragione indaga e insegue la verità e la volontà poi deve trovare la motivazione che la inclina al bene: l’amore per Cristo, la passione per gli altri nei quali vedo Gesù, l’incontro di veri testimoni del Vangelo.
L’esperienza, dunque, poiché il cristianesimo esige non solo di essere conosciuto, creduto, pensato, ma anche vissuto. Ma “esperienza” è concetto ambiguo che porta inevitabilmente con sé una quota di soggettivismo e rischia di relativizzare la fede. Se è vero che il cristianesimo è incontro con Cristo, bisogna insegnare dove ordinariamente avviene: nella Chiesa e nei suoi sacramenti. Certamente il Signore può trovare altre strade per intercettare un’anima, dalla bellezza di un tramonto all’affetto di una “compagnia”. Ma Cristo si incontra nei sacramenti, dal battesimo alla confessione passando per l’eucarestia, e nella preghiera. Per questo vado a messa, mi confesso, mi comunico, mi inginocchio e prego. Perché nel corso della giornata vorrei avere occhi solo per vedere Gesù, orecchi solo per ascoltare Gesù, bocca solo per lodare Gesù e baciare le sue piaghe, mani solo per carezzare Gesù, ma so che, senza di Lui, non ho la forza per farlo.
Il resto è terreno sdrucciolevole, sul quale i sentimenti rischiano di accecare la ragione e l’esperienza rischia di mangiarsi la verità. Un territorio dove concetti tremebondi e ambigui come “fascino”, “attrazione”, “risposta alla domanda dell’uomo” possono illudere che seguire Cristo sia l’assecondare una gradevole strada in discesa, mentre è proprio il contrario. L’uomo deve combattere contro tutte quelle pulsioni che lo spingono lontano da Gesù. E deve vigilare perché il peccato e il male diventano persino un veicolo privilegiato da pilotare per tenere comodamente insieme l’incontro con Cristo e una vita lontana dal Decalogo, dando del moralista a chi lo fa notare e beffando proprio quel Gesù che ammonisce “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”.
Per uno di quei paradossi che ne fanno l’unica religione vera, il cristianesimo è esaltante perché indica a tutti il povero orizzonte di quelli che il vecchio Chesterton chiamava i cristiani comuni. Quelli che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza, che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia, che condannano chi colpisce per primo e assolvono chi ferisce in propria difesa. Quelli che pensano, e quindi compiono, ciò che la dottrina ha sempre insegnato e, loro sì, sono avviati verso il Paradiso.
A questo punto è arrivato il momento dei saluti e, francamente, caro Emmanuel, sarebbe imbarazzante inviargieli da parte della “premiata ditta d’imbalsamazioni”, “pretestuosa nel maneggio delle fonti e piena di risentimento”, “mitragliatrice senza pietà chi esce dalle righe”, espressione di “spirito travagliesco” con tanto di “uso selettivo di fonti, distorsione di dettagli fuori contesto, sguardo volutamene parziale sul magistero”. Se le basta, li accetti dal suo G&P.
 

martedì 26 novembre 2013

Le radici moderniste di CL. Il 'j'accuse' di Roberto de Mattei



Riportiamo qui di seguito l'articolo del Professor Roberto de Mattei apparso oggi su il Foglio con il titolo "Processo ai nuovi modernisti". Si tratta forse del primo serio vaglio dottrinale delle idee di un "movimento ecclesiale" che, per il solo fatto di essersi opposto a più riprese al cattolicesimo democratico (ricevendone tutta l'acida antipatia - Socci docet), è stato ritenuto sufficientemente ortodosso anche in campo tradizionalista. Forse non era più che una presunzione. Aderiamo agli argomenti di Roberto de Mattei avendone avuto da tempo il presentimento.

Le reazioni su questo giornale di mons. Luigi Negri, di don Francesco Ventorino e del prof. Massimo Borghesi, al mio articolo sulla “liquefazione della Chiesa” (“Il Foglio”, 12 novembre 2013) mi impongono di tornare su una questione di fondo del dibattito cattolico contemporaneo: quella riguardante la definizione della fede, indubbio fondamento della vita cristiana
Il dato di fatto da cui partire, e su cui spero anche i miei interlocutori convengano, è il crollo della fede, verificatosi nella Chiesa negli ultimi cinquant’anni. Inaugurando il 27 gennaio 2012 l’Anno della Fede, Benedetto XVI si esprimeva in questi termini: “Come sappiamo, in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni”. Ma l’Anno della fede si è chiuso – occorre dirlo – senza che si intraveda in alcun modo una risposta forte delle autorità ecclesiastiche di fronte alla crisi in atto. La stessa enciclica Lumen Fidei ignora in maniera sorprendente questo drammatico problema. Ma cos’è la fede? La risposta a questa domanda non ammette equivoci, dopo la definizione del Concilio Vaticano I, riproposta dal nuovo Catechismo della Chiesa cattolica: la fede è l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela. Le verità rivelate sono dette tali perché sono contenute, in maniera esplicita o implicita, nella rivelazione divina, conclusa con la morte dell’ultimo apostolo. La Sacra Scrittura e la Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile della Chiesa. In alcuni casi tali verità oltrepassano la nostra ragione e sono dette misteri. I due misteri centrali del Cristianesimo sono la Trinità e l’Incarnazione del Verbo. Essi sono superiori alla nostra ragione, ma non le si oppongono. Crediamo queste verità perché ci sono rivelate da Dio. Ma l’esistenza di Dio prima di essere una verità di fede, è verità filosofica, che può essere dimostrata dalla ragione, così come può essere dimostrata dalla ragione l’esistenza e l’immortalità dell’anima. La fede interessa non solo la teologia, ma la filosofia, come mostra bene Antonio Livi (si veda ad esempio il suo Razionalità della fede nella rivelazione, Leonardo, Roma 2005). L’inconoscibilità della natura di Dio non va confusa con la certezza razionale della sua esistenza. Solo dopo aver assodato che Dio esiste possiamo credere in Lui e nella sua rivelazione. Per questo sant’Agostino dice che dobbiamo “Credere Deum, Deo, in Deum”, cioè credere Dio come oggetto della fede; credere a Dio come motivo della fede; credere in Dio come suo fine.
Lutero per primo stravolse il concetto tradizionale di fede. L’uomo, integralmente corrotto dal peccato originale, è per lui incapace di conoscere il vero e amare il bene. La fede non consiste nella ragione e nella volontà, imputridite dal peccato, ma nella “fede fiduciale”, che nasce da un sentimento di disperazione profonda ed ha il proprio oggetto nella misericordia di Dio, invece che nelle verità da lui rivelate. Appellandosi a questa visione pietista e individualista della fede, Lutero e suoi continuatori fanno dell’esperienza religiosa l’unico criterio della vita cristiana. In tutta la tradizione evangelico-protestante la religione è vista come un “incontro” salvifico con Dio, in cui la fede soggettiva assorbe e dissolve quella oggettiva. Nella Esquisse d’une philosophie de la religion (1897) di Auguste Sabatier (1839-1901) arriva a compimento la riduzione protestante della fede a sentimento. L’atto di fede è inteso come incontro con la potenza oscura e misteriosa da cui l’anima dipende e da cui dipende il suo destino. Tutto ciò che è dogma e riflessione teologica non è altro che la trascrizione simbolica di un'esperienza religiosa collettiva in continua evoluzione.
Negli stessi anni in cui appare l’opera di Sabatier, Maurice Blondel (1861-1949) pubblica l’Action (1893), prima espressione di quella filosofia dell’azione che, con il protestantesimo liberale, costituisce il retroterra immediato del modernismo. Secondo Blondel l’azione, e non il pensiero, attinge la verità dell’essere. La massima tradizionale secondo cui “agere sequitur esse” viene capovolta: l’azione precede l’essere e l’uomo trova la verità e la stessa fede nell’azione. L’azione è la sintesi del pensare e dell’agire, il vincolo tra il pensiero e l’essere. Blondel vuole dunque sostituire alla apologetica tradizionale, che si propone la dimostrazione razionale delle verità del Cristianesimo, una nuova apologetica basata sul principio di immanenza. Il metodo dell’immanenza pretende di trovare la verità della religione e dei misteri della fede partendo dalla coscienza dell’uomo, dai suoi bisogni, dalle sue aspirazioni, da tutto ciò che sgorga dalla sua esperienza di vita.
Tesi analoghe erano espresse dal teologo del modernismo George Tyrrell (1861-1909), che dopo essersi convertito dal protestantesimo al cattolicesimo entrò nella Compagnia di Gesù, ma presto ne contestò l’insegnamento. Anche per Tyrrell, la religione è un’unione del cuore con Dio che fa a meno della verità dei dogmi. Il Dio di Tyrrell, come quello di Blondel, è immanente alla coscienza, che lo riconosce nella propria esperienza religiosa. Non è la verità a determinare l’esperienza, ma l’esperienza a costituire il criterio supremo della verità. “Trait d’union” tra Blondel e Tyrrell fu Henri Brémond (1865-1930), anch’egli gesuita, insofferente della disciplina e dell’insegnamento della Compagnia. La corrispondenza tra Brémond e Tyrrell è istruttiva a questo proposito (Lettres de George Tyrrell à Henri Brémond, Aubier, Parigi 1971). Brémond, in preda a crisi di nevrastenia, confidava a Tyrrell di voler lasciare i gesuiti per vivere, come Tyrrell, con un’amante. Il suo ideale – scriveva – sarebbe stato quello di una “vita clericale adogmatica”. Tyrrell risponde al confratello di essere prudente e di abbandonare la Compagnia senza precipitare le cose. Quando qualche anno dopo Tyrrell morirà, dopo essere stato scomunicato da san Pio X, Brémond sarà al suo capezzale e, seguendo i suoi consigli, vivrà poi nel mondo come un semplice sacerdote cripto-modernista, intraprendendo una carriera letteraria che lo porterà all’Académie française. La sua poderosa Histoire littéraire du sentiment religieux en France (1915-1933, 11 volumi), già nel titolo riassume le tesi degli amici Blondel e Tyrrell: la fede ridotta a intuizione poetica, esperienza di vita mistica che vanifica ogni verità dogmatica.
 Tra i diretti continuatori di questa linea di immanenza vitale fu il padre Henri de Lubac (1896-1991), anch’egli, come Brémond e Tyrrell, appartenente alla Compagnia di Gesù, ma a differenza di loro gesuita fino all’ultimo giorno della sua vita. De Lubac, come Blondel, pone nella coscienza dell’uomo la possibilità di incontrare Dio con le proprie forze, distruggendo la fondamentale distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale. Il cardinale Siri, in Getsemani. Riflessioni sul Movimento Teologico Contemporaneo (Fraternità della Santissima Vergine, Roma 1980), ha ampiamente confutato questi errori teologici. Pio XII, con l’enciclica Humani generis (1950), condannò le tesi di de Lubac e degli altri esponenti della nouvelle théologie progressista, ma dopo la sua morte furono proprio loro i protagonisti del Concilio Vaticano II, a cui diedero l’orientamento di fondo. De Lubac fu creato cardinale da Giovanni Paolo II ed è oggi citato spesso da Papa Francesco, anche se pochi ne hanno letto le opere, criptiche e prolisse.
Negli anni del postconcilio, de Lubac appartenne all’ala “moderata” della nuova teologia progressista. Ma la sua moderazione, più che nel contenuto, è nei toni. Basta paragonare il suo diario del Concilio Vaticano II a quello del domenicano Yves Congar, per rendersi conto della differenza tra il suo linguaggio misurato e quello violento e spesso grossolano di Congar. Ciò non impedì a de Lubac di essere un entusiasta ammiratore e divulgatore delle opere del suo confratello Pierre Teilhard de Chardin, una delle figure estreme dell’eterodossia cattolica del Novecento, verso cui lo stesso Blondel aveva manifestato delle riserve.
  De Lubac apparteneva a quella categoria di uomini che detestano le conseguenze delle proprie idee. Criticò il disfacimento postconciliare, ma non volle ammettere che le radici di quanto accadeva stavano proprio negli errori della nouvelle théologie. Nel 1972 fu tra i promotori della rivista “Communio”, e don Luigi Giussani, che negli stessi anni lanciava Comunione e Liberazione, lo riconobbe come un suo maestro. I discepoli di don Giussani protestano quando gli attribuisco una equivoca nozione di fede, e “Rosso Malpelo” (Gianni Gennari), mi accusa su “Avvenire” di dire “bugie”, ma la verità è consegnata alla storia.
Invito a leggere il libro di don Giussani, Un avvenimento di vita cioè una storia. Itinerario di quindici anni concepiti e vissuti, con un’introduzione del cardinale Ratzinger (Il Sabato, Milano 1993). Il volume raccoglie le interviste e gli appunti da conversazioni pubbliche che il fondatore di CL ha tenuto tra il 1976 e il 1992. Il libro non contiene nessuna esplicita negazione delle verità di fede e vuole manifestare anzi l’attaccamento alla Chiesa di don Giussani. Ma alla fine delle 500 pagine si rimane con una sensazione di vuoto intellettuale. Al lettore non rimane che questo messaggio: non serve né l’apologetica, né l’approfondimento razionale della verità. Ciò che conta è vivere. Ma vivere che cosa? Si tratta, spiega don Giussani, di “rendere la fede un avvenimento” (p. 339). Comunione e Liberazione nasce da una “intuizione del Cristianesimo come avvenimento di vita e quindi come storia” (p. 349). “Il metodo consiste in questo: che l’intuizione diventa esperienza (…). L’esperienza è il luogo in cui si vede se ciò che è intuito vale per la vita” (p. 351). La fede è incontrare Cristo, riconoscere la sua presenza nella storia e nella propria vita. Ma chi è Cristo? La risposta ciellina è scoraggiante: colui che si incontra. Il problema di fondo è che, al di fuori della tautologia dell’incontro, Cielle non è andata e non potrà mai andare, proprio per la sua pretesa di ridurre il cristianesimo a pura esperienza ed esigenza dello spirito.
Il Cristianesimo, certo, è anche esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa, incomunicabile; mentre ciò che si può comunicare sono i princìpi che precedono l’esperienza e da cui l’esperienza dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza dell’esperienza religiosa che, sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita cristiana. L’esperienza è infatti una conoscenza immediata e diretta della realtà. Ma l’esperienza religiosa non solo non nega la credibilità razionale della fede, ma la presuppone. Nella prospettiva di Cielle invece cade l’apologetica e tocca alla vita, e non alla razionalità dei motivi, dare la dimostrazione dell’esistenza di Dio e della verità della Chiesa. L’esperienza religiosa però ha valore solo se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al magistero. Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione. Per i modernisti di oggi, come per i protestanti di una volta, la fede appartiene alla sfera affettiva e irrazionale. L’oggetto della fede, le verità credute, diventa secondario. Si rigetta in blocco il realismo greco-cristiano, negando valore al Logos, ai primi princìpi della ragione e al primato della metafisica. Ciò che conta è l’esperienza individuale del credente, quello che egli vive nella sua sensibilità. L’esperienza intima del soggetto diviene l’unica esperienza della vita cristiana e la coscienza religiosa l’essenza della vita della Grazia. Questa “esperienza di fede” rifugge dalle affermazioni dogmatiche, nella convinzione che ciò che è assoluto divide e solo ciò che muta e si adatta può unire gli uomini tra loro e a Dio. In questa religione dell’umanità caratteristica dei nostri tempi l’affermazione netta della verità è un atto di intolleranza verso il prossimo e il compromesso tra la fede e il mondo diviene il modello di ciò che definito “incontro” con Dio. La fede però non è irenica: si alimenta con lo studio, con la discussione, anche con la polemica. Quando si discute con passione, vuol dire che si crede e il calore della polemica è talvolta la misura dell’amore verso ciò in cui si crede. Ma all’interno dello stesso clero, chi crede oggi, e in che cosa?
Perché l’esperienza religiosa sia vera e non sia un’illusione ci vuole invece un criterio di verità. Il problema di fondo è come determinare l’autenticità dell’esperienza. L’esperienza religiosa può essere solo esperienza del vero Dio e della vera religione: non è un generico sentimento di dipendenza dall’assoluto. E’ esperienza religiosa quella di un buddista immerso nel Nirvana? De Lubac pensa di sì e forse anche alcuni discepoli di don Giussani.
Ogni errore ha delle conseguenze. La scarsa sensibilità liturgica di Comunione e Liberazione non è casuale. La massima della Chiesa secondo cui la lex orandi traduce la lex credendi presuppone l’esistenza di una integra e coerente dottrina, di cui la liturgia è visibile espressione. Ma se la dottrina è assorbita dalla vita, la liturgia non può che essere condannata all’estinzione. L’amore per la liturgia tradizionale presuppone necessariamente l’amore per le verità tradizionali. E il tanto bistrattato “tradizionalismo” non è altro che questo: amore alla verità della Chiesa in tutte le sue espressioni, da quelle liturgiche a quelle politiche e sociali. I cosiddetti “tradizionalisti”, che sono solo cattolici senza compromessi, si richiamano all’insegnamento immutabile della Chiesa: non idolatrano il potere, ma credono nella Regalità sociale di Gesù Cristo, ossia sul suo diritto a regnare su ogni uomo e sulla società intera. L’“esperienza religiosa” a cui si rifanno è quella di coloro che testimoniarono col sangue la loro visione cristiana della società, come i Vandeani in Francia e i Cristeros in Messico. Nulla a che fare con l’amoralismo politico di cui negli anni Cielle ha dato prova. Sarebbe vano cercare un filo conduttore negli ospiti illustri del Meeting di Rimini, dalle sue origini ad oggi: personalità di destra e di sinistra, conservatori e progressisti si sono alternati e si alternano in una passerella del potere, che se è priva di continuità intellettuale e politica, non manca di intima coerenza nel suo radicale pragmatismo. Il lungo idillio di Comunione e Liberazione con Giulio Andreotti deve far riflettere. Andreotti fu l’incarnazione dell’amoralismo politico e tra la filosofia della prassi ciellina e la politica della prassi andreottiana, l’incontro era obbligato. L’uomo che andava a Messa ogni mattina, non esitava a firmare, nel 1978, la legge abortista in Italia. La fede svincolata dai princìpi razionali e dai “valori non negoziabili” rende disponibili a qualunque avventura. Così oggi Roberto Formigoni, quando “apre” all’affidamento di bambini alle coppie gay, non è incoerente con la “filosofia della prassi” a cui si ispira.
Il prof. Massimo Borghesi ritiene che negli anni Settanta, fu “la pedagogia dell’esperienza” di CL e non il tradizionalismo a “salvare” la Chiesa. Io ritengo invece che Comunione e Liberazione abbia semplicemente intercettato la parte sana del mondo cattolico rimasta “orfana” negli anni bui del postconcilio, senza essere in grado di dare a questi giovani gli strumenti teologici e filosofici di cui avevano bisogno, a cominciare da una retta nozione di fede. Molti di essi, oggi non più giovani, erano e sono di ottima qualità ed è soprattutto a loro che mi rivolgo quando affermo che Comunione e Liberazione non ha costituito un argine alla crisi della fede dei nostri giorni, ma ha contribuito all’infiacchimento della fede e alla sua crisi attuale, senza negare naturalmente le buone intenzioni di nessuno e con il massimo rispetto per i miei interlocutori, a cominciare da mons. Luigi Negri, al quale contraccambio stima e amicizia.

Fonte il Foglio 26 XI 2016

giovedì 21 novembre 2013

Si revera Deum quaerit. Conservare la pace nella terribile crisi della Chiesa.  



È inutile negarlo, questa crisi terribile che attraversa la Chiesa costringe i cattolici che vogliono restare fedeli alla Tradizione a definire la propria identità in modo sempre più polemico.
È inutile negarlo. La pars destruens delle fatiche profuse dal fronte tradizionale assume nella sfera pubblica un’estensione e una visibilità di molto maggiori rispetto alla pars construens, che pur continua a svolgersi con zelo tutt’altro che amaro in singole realtà concrete (religiose, parrocchiali e familiari) che il Signore ha voluto benedire con la fedeltà dottrinale e liturgica.
  È inutile negarlo, questa terribile crisi ci sta togliendo la pace.
Per questo, per non arrendersi all’idea che la battaglia debba privarci del commercio spirituale con Dio, per non convincerci che questo non sia più il tempo dell’ordine, della carità e della pace, per non cadere preda di una sorta di praxis gesuitica quale quella già denunciata in questo blog, per non cedere allo spirito pelagiano (quello vero!), per non avere la smania di vincere nel tempo, ma per cercare Dio solo e da Lui solo sperare ogni cosa, le dedichiamo a tutti gli amici fedeli alla Tradizione queste splendide pagine di spiritualità benedettina.
Si tratta del paragrafo conclusivo della celebre opera Cristo ideale del Monaco, del beato Columba Marmion, nome che non richiede certo presentazioni. Sono pagine che trattano della pace conquistata nella perfezione monastica, ma è bello pensare che a tanto possa anelare ogni anima cristiana in virtù anzitutto del suo battesimo, che la consacra a Dio e la costringe a desiderare di piacere solo a Lui. Pagine sulla perfezione monastica, pagine sulla perfezione cristiana, pagine sulla pace ordinata che deve regnare nel cuore di ogni vero cristiano.
Le dedichiamo a tutti gli amici fedeli alla Tradizione. Ma un pensiero particolare va a chi è in prima linea nella vita pubblica e nella vita privata. Un pensiero particolare a Mario Palmaro e a chi come lui sta portando in modo particolarissimo la Croce del Divin Maestro: quale che sia il futuro preparato per loro dal Signore, attraverso la sofferenza già ricevono una visita del loro Dio.
Buona lettura.
  "Chiediamo dunque a Gesù che ci porti, ci doni cotesta pace, frutto del suo amore. «Signore - esclama S. Agostino al termine delle Confessioni, l'ammirabile libro in cui narra come aveva cercato la pace in tutte le soddisfazioni possibili dei sensi, dello spirito e del cuore, senza trovarla altrove che in Dio - Signore, dà a noi la pace, la pace del settimo giorno, del giorno che non conosce sera. - Domine Deus, pacem da nobis, pacem quietis, pacem sabbati, sabbati sine vespera». «Quanto a te, Signore, che non hai bisogno di altri beni, tu sei sempre nella quiete, perché sei a te stesso la quiete. Quale uomo potrà farlo intendere a un altro uomo? Quale angelo a un altro angelo? Quale angelo all'uomo? Bisogna chiederlo a te, in te bisogna cercarlo, battendo alla tua porta per ottenerlo». E il santo Dottore, che tutto aveva provato, e conosciuta la vanità di ogni creatura, la fragilità della felicità umana, termina con questo grido dell'anima: «É il solo mezzo per essere esaudito, per trovare, per vedersi aperta la misteriosa porta».
Domandiamo dunque questa pace per noi, per ognuno dei fratelli che abitano nella nostra stessa Gerusalemme spirituale: «Rogate quae ad pacem sunt Jerusalem (Salm. CXXI, 6)» e la otterremo; ma soprattutto saremo esauditi, se ci terremo in atteggiamento di adorazione, di sottomissione e di abbandono a Nostro Signore: qui è la sorgente della vera pace, perché così Dio ha stabilito, e noi vi troviamo la soddisfazione dei più intimi desideri dell'anima. L'atto d'abbandono richiesto è stato fatto già con la professione, dandoci a Gesù per seguirlo: «Reliquimus omnia et secutis sumus te»; dimoriamo nella pace, mantenendoci fermi in questa disposizione; la S. Regola è tutta ordinata a procurarci e a custodirci la pace; e il monastero in cui si vive regolarmente, è già quaggiù una visione della pace. Anche l'anima che si lascia modellare dall'umiltà, dall'obbedienza, dallo spirito di abbandono e dalla fiducia, fondamenti della vita monastica, diventa una città di pace.
Davvero il N.B. Padre ha meravigliosamente compreso il piano divino, l'ordine da Dio stabilito. La nostra anima è fatta per Iddio; se non tende a lui è sempre agitata e turbata. S. Benedetto vuole che abbiamo unicamente quest'intenzione: «Cercar Dio - Si revera Deum quaerit»; vi riconduce tutto come a centro della Regola e con l'unità dello scopo, unifica i molteplici atti della vita, soprattutto i desideri della nostra natura; questo, secondo S. Tommaso, è l'elemento essenziale della pace: «Tranquillitas consistit in hoc quod omnes motus appetitivi in uno homine conquiescunt». L'anima nostra è turbata quando è dilaniata dai desideri che tendono a mille diversi oggetti: «Sollicita es et turbaris erga plurima (Luc. X, 41)»; ma quando cerchiamo Dio solo con l'obbedienza fiduciosa e amante, riconduciamo tutto all'uno necessario; e così stabiliamo in noi la forza e la pace.
Quindi, penetrando più a fondo nell'ordine divino, il santo Patriarca ci insegna che senza il Cristo non raggiungeremo questo fine, perché egli solo è la via che vi conduce: per questo nella Regola non troviamo altro mezzo che l'amore di Cristo: «Ad te ergo nunc meus sermo dirigitur, quisquis … Domino Christo vero Regi militaturus (Prologo)»; solo col fare Cristo re del nostro cuore saremo veri discepoli di S. Benedetto. E quando il Patriarca si congeda da noi, ripete come consiglio incalzante e di gran valore: «Non anteponete nulla a Cristo! - Christo omnino nihil praeponant, qui nos pariter ad vitam aeternam perducat (c. 72)».
Ecco in iscorcio tutto l'ordine divino esposto dal santo Legislatore con ammirabile semplicità e chiarezza. Ritornare a Dio per mezzo di Cristo, cercar Dio con lui, tendere a Dio sulle sue tracce; e per mostrare che la ricerca è sincera, assoluta, fuggire il mondo, praticare l'umiltà, l'obbedienza con amore; avere lo spirito d'abbandono e di fiducia; dare la maggior parte della vita alla preghiera, amare il prossimo. Sono le virtù di cui Gesù per primo ci ha dato esempio; esercitandole, proviamo che davvero cerchiamo Dio, che preferiamo a tutto l'amore di Gesù, e che egli è il nostro solo e unico ideale.
Felice il monaco che va per questa via! Nei più grandi patimenti, nelle più crucciose tentazioni, nelle avversità più spiacenti, troverà luce, pace e gioia; perché nella sua anima regna l'ordine voluto da Dio, e tutti i suoi desideri sono unificati nel solo Bene unico, per il quale è stato creato.
S. Benedetto, che ne aveva fatto la prova, ci garantisce cotanto bene: «Via via che il monaco progredisce nella fede e nella pratica della virtù, il cuore si dilata, l'anima corre nell'ardore di una gioia ineffabile - Dilatato corde inenarrabili dilectionis dulcedine curritur via mandatorum Dei (Prologo)». Felice, ripeto, cotesto monaco! Nella sua anima dimora la pace divina e si riflette sul suo viso; egli la irradia intorno a sé. É il vero monaco, secondo l'idea del B. Padre: il figlio di Dio nella grazia di Cristo, il cristiano perfetto: «Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (Matt. V, 9)». Felice davvero, perché Dio è con lui; e ad ogni momento egli trova, nel Dio che è venuto a cercare in monastero, il bene più grande e prezioso; perché è il bene supremo e immutabile, che non manca mai a coloro che lo cercano con semplicità e sincerità di cuore: «Si revera Deum quaerit!»".

  (Beato Columba Marmion, Cristo ideale del monaco, traduzione italiana a cura della madre Maria Galli, edita dai Monaci benedettini di Praglia, pp. 436 - 438)

mercoledì 20 novembre 2013

L'apologia del Denzinger. Palmaro e Gnocchi sulla deriva nominalista e pastorale della Chiesa



Riportiamo qui di seguito l'articolo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro pubblicato oggi ne il Foglio con il titolo Denzinger, il mondano dimezzato. Ancora una volta si denuncia la pericolosa erosione soggettivistica del dogma cattolico in nome dell'esigenza pastorale coniugata, di sovente non senza perfidia, con un novello zelo ultramontano. Heinrich Joseph Dominicus Denzinger (1819-1883), che fu professore di teologia dogmatica a Würzburg, pubblicò nel 1854 l'Enchiridion Symbolorum et Definitionum (qui una versione completa dell'opera in formato digitale), una preziosa raccolta delle definizioni magisteriali ancor oggi reperibile nei cataloghi dei principali editori cattolici nazionali.

Accolta “con gioia” come si usa nella Chiesa d’oggi, difesa senza “se” e senza “ma”, ermeneutizzata come si conviene e poi, alla fine, ritirata dal sito internet vaticano, dove era rimasta un mese e mezzo: da famosa che era, l’intervista di Papa Francesco a Eugenio Scalfari è stata archiviata con un semplice click. Attendibile nel suo complesso, ha spiegato il direttore della sala stampa padre Lombardi, non lo è in alcune singole parti, anche se il controverso passaggio sulla coscienza sarebbe “del tutto compatibile con il Catechismo della Chiesa cattolica”.
Pur deposta nei faldoni della semplice cronaca, tale vicenda rimane a indicare un tasso di confusione eccessivo persino per un ospedale da campo. E’ davvero strano che nessuno si sia chiesto, preventivamente e prudentemente, se l’intervistatore della stampa volterriana fosse un malato venuto a farsi curare o un untore neanche troppo mimetizzato. Riconoscere cosa vi sia nell’animo dell’interlocutore mondano è questione che lo stesso papa Francesco, nell’omelia di Santa Marta di lunedì scorso, ha indicato come essenziale. Commentando un passo del “Libro dei Maccabei” ha messo in guardia dal rischio di fare mercimonio della fedeltà al Signore, poiché lo spirito del mondo negozia tutto. Ma l’istantanea della Chiesa postmoderna ritrae da decenni un luogo di mediazione più che una cittadella decisa a resistere. Un posto dove molti agiscono con aria di sufficienza nell’adozione di criteri, metodi e strumenti necessari per comprendere tanto le lusinghe del mondo quanto i lamenti della Chiesa.
La tensione al ragionevole rigore di moda sotto Benedetto XVI, che insieme all’ascesi e alla preghiera mette al riparo dalle sirene del mondo, pare evaporata. Oggi, basta solo richiamare la precisione affilata e caritatevole con cui la Chiesa si è sempre espressa su fede, dottrina e morale per passare come ideologizzati specialisti del Logos. Guai a chi osi evocare l’opera di un benemerito pioniere della teologia dogmatica come Heinrich Denzinger: si viene tacciati di voler sostituire il Vangelo con il suo “Enchiridion Symbolorum”, quel cristallino compendio dei principali testi del magistero che dovrebbe fare da argine là dove il mondo interroga, provoca, negozia, corrompe. Aggiornato costantemente nel corso dei decenni, il “Denzinger”, che ha preso il nome del suo primo autore, è uno dei riferimenti più sicuri per chiunque voglia conoscere e praticare il perenne pensiero della Chiesa: ma non piace più, irrita, infastidisce. Per scoprire la ragione di tale avversità basterebbe andare su Wikipedia, dove, in un’impietosa, sinteticissima riga, si legge: “Il grande teologo fondamentale gesuita Karl Rahner ha tuttavia messo in guardia studenti e studiosi sul rischio riduzionistico di una ‘teologia del Denzinger’”. Se si considera che, nella Chiesa contemporanea, l’inventore della teoria dei “cristiani anonimi” ha sostituito San Tommaso come doctor communis, diviene comprensibile l’universale avversione per il “Denzinger”, severo giudice di chiunque ami abbandonarsi a un qualunque incontro personale con il Vangelo. In qualche modo, ritorna in superficie il tema della coscienza personale che Rahner, confratello di Papa Francesco, ha descritto nella “Fatica di credere” in termini che hanno indubbiamente fatto scuola, e che scuola: “Chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini. In altre parole: la grazia e la giustificazione, l’unione e la comunione con Dio, la possibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo”.
Posto davanti al Vangelo, un pensiero simile non può che rifuggire il cogente rigore del “Denzinger”, che è il cogente rigore della Chiesa. Ma la fede cattolica non può risolversi nel semplice incontro personale con il Vangelo. Lo spiega il domenicano padre Roger-Thomas Calmel nella “Breve apologia della Chiesa di sempre”: “Che ci sia dunque un andirivieni frequente dalla lettera della Scrittura alle formule dei Concili e del Catechismo e viceversa. Passiamo dalla lettera dell’Antico o del Nuovo Testamento alle definizioni conciliari o pontificie per meglio coglierne il contenuto esatto, il vero significato del testo sacro. Poi ritorniamo dai Concili e dal catechismo al semplice testo scritturale per non perdere mai di vista il dato vivo, concreto, soprannaturale, inesauribile, del quale le formulazioni del magistero ecclesiastico esprimono, con tutta la precisione necessaria, la profondità e il mistero”.
La guerra al “Denzinger”, e quindi all’armonioso dipanarsi e manifestarsi della dottrina perenne della Chiesa, viene da lontano. Non a caso Rahner spiega che “gli enunciati della fede tradizionale sono inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è necessario prima di ogni altra cosa: l’annuncio della fede(…) Proposizioni come ‘vi sono tre persone in Dio’, ‘noi siamo salvati dal sangue di Gesù Cristo’ sono puramente e semplicemente incomprensibili per un uomo moderno (…) esse fanno la stessa impressione della pura mitologia di una religione del tempo passato”. Secondo il teologo gesuita, dunque, al palato dell’uomo contemporaneo, Gesù che resuscita Lazzaro ha lo stesso sapore di Ercole che sconfigge l’Idra o di Teseo che uccide il Minotauro. Quindi non rimane che riformare l’annuncio e sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della modernità, trarre le parole dai desideri del nuovo uditorio.
Giuseppe Siri, un cardinale che rischiò di diventare Papa, coglie lucidamente la questione, quando in “Getsemani” scrive: “Il grande principio di morte è il principio di secolarizzazione: il mondo contiene le forza della plenaria realizzazione degli uomini e ne è anche l’ambiente, in cui lo scopo della vita dell’uomo deve essere raggiunto; occorrerebbe dunque abolire ogni distinzione tra sacro e profano, tra Chiesa e mondo”. Diagnosi confermata da quanto Edward Schillebeeckx andava dicendo nel 1970: “In Cristo è ora possibile dire Amen alla realtà mondana e considerarla come culto poiché, dopo l’apparizione di Gesù, sulla terra abita la pienezza di Dio”.
Se l’oggetto del nuovo culto è il mondo, diventa impossibile entrarvi in conflitto. I vescovi americani che contestano Barak Obama, evidentemente, non seguono Rahner o Schillebeeckx. Ma centinaia di gesuiti con le loro università cattoliche e centinaia di suore in rivolta dicono Amen al presidente e rendono culto al mondo. Il vero problema dell’ospedale da campo è distinguere chi vi distribuisce la medicina buona e chi eutanizza il paziente.
Se è vero che lo spirito mondano induce a negoziare finanche la fedeltà a Dio, come ha detto il Papa nell’omelia, bisognerebbe avere anche il coraggio denunciare chi, nell’accampamento cattolico, si macchia di intelligenza col nemico. Non è possibile additare le lusinghe del mondo e tollerare un Rahner che dice: “Con il progredire della storia della grazia, il mondo diviene sempre più indipendente, maturo, profano, e deve pensare ad auto realizzarsi. Questa crescente mondanità storica (…) non è una sventura che si contrappone ostinatamente alla grazia e alla chiesa, ma è invece il modo nel quale la grazia si realizza a poco a poco nella creazione”.
Sulla scia dell’ambiguo e ossessivo “primato della Parola” e del “sola fide” di matrice luterana, la Chiesa ha finito per specchiarsi nell’orizzonte ribaltato di un pelagianesimo che nega il senso del peccato e osanna il mondo. L’esito è comunque il depotenziamento della tradizione e della funzione di mater et magistra. Il libero esame, il soggettivismo, la “sola scriptura” prendono la scena svuotando di significato il ruolo dei vescovi e del Papa. Ma l’orizzonte logico di tale operazione è debolissimo poiché è la tradizione a precedere e definire la parola: è la Chiesa a stabilire quali siano i testi sacri e come vadano interpretati. Fatto che determina l’impossibilità di parlare di “religione del libro”, posto che i testi sacri sono oggettivamente diversi nella lettera e nella loro interpretazione. La Chiesa precede storicamente e logicamente la scrittura e per questo, spiega il cardinale Siri, “colui che relativizza la tradizione relativizza la scrittura”.
La bellezza perenne e unica del cattolicesimo sta nella capacità di comporre e armonizzare tutti questi elementi. Sta nella continua tensione tra ragione e mistero, tra anelito terreno e risposta celeste che, pazientemente, crea un calco nel quale la creatura si adagia, magmatica e informe, per risorgerne solida e levigata, come la farfalla da una crisalide. Perché conoscere la dottrina significa amarla e pregarla assecondandone forme e definizioni. E’ come un dire le preghiere secondo formule dettate da altri con precisione ispirata e insondabile. Allora, lontano dai sentimenti, dalle divagazioni, dagli inutili discorsi, senza uno iota di troppo, sgorga quel che della beatitudine è concesso su questa terra, che è un dire sottovoce, un fare e un vivere invece che un discorrere: “I molti discorsi non appagarono l’anima” insegna l’”Imitazione di Cristo” “ma la vita buona dà ristoro alla mente”.
L’annuncio a Maria narrato da San Luca non produrrebbe nelle anime oranti la stessa tensione verso il “partorire Dio” predicato da Sant’Ambrogio se il Concilio di Efeso, nel 431, non avesse affilato la lama della dottrina definendo la Vergine Theotokos, Madre di Dio: “Se qualcuno non Confessa che l’Emmanuele è Dio nel vero senso della parola, e che perciò la Santa Vergine è madre di Dio perché ha generato secondo la carne il Verbo che è da Dio, sia anatema”. Non vi è nulla di più amato dalla gente cristiana aliena al mondo che un tale rigore. “Tutto il popolo della città rimase in attesa dal mattino alla sera, aspettando i giudizio del santo sinodo” racconta San Cirillo d’Alessandria, che fu l’artefice di quella decisione. “(…) Alla nostra uscita dalla chiesa, fummo ricondotti fino alle nostre dimore. Era la sera, tutta la città si illuminò, donne camminavano innanzi a noi con incensieri. A coloro che bestemmiavano il suo Nome, il Signore ha dimostrato la sua onnipotenza”.
A saperlo leggere, a studiarlo in amorevole andirivieni con la Scrittura, il “Denzinger” racconta queste storie e alimenta la vita buona che, a sua volta, nutre la mente. E’ la vita della Chiesa che corre lungo i secoli dandovi forma, è la tradizione che bussa imperiosamente alle anime chiamandole a scegliere. Non vi è alternativa nella guerra allo spirito mondano: alla tentazione di negoziare persino sulla fede si può opporre solo l’immutabilità e l’irreformabilità del magistero. Per tutta la sua vita, la Chiesa lo ha fatto, contendendo al mondo il tempo e lo spazio, le due dimensioni in cui si espande la tradizione. Le definizioni raccolte dal “Denzinger” si sono tramandate senza mutare nel corso dei secoli e, senza mutare, hanno raggiunto gli avamposti più remoti della fede. Quelle stesse pagine che ora si trovano facilmente a stampa in libreria, hanno corso il mondo in itinerari avventurosi che Arold Innis ha raccontato nel suo epico “Impero e comunicazioni”. Hanno viaggiato su pergamena, “supporto pesante” adatto al permanere della verità religiosa irreformabile e perenne, a differenza di ciò che viaggiava su papiro e su carta, “supporti leggeri” che alimentavano la burocrazia civile caduca e fallace.
Così, la Chiesa di Roma ha propagato il regno di Cristo e ha conquistato, anima per anima, le intelligenze più semplici e quelle più laboriose, tutte bisognose dello stesso nutrimento. Se John Henry Newman non si fosse trovato al cospetto di verità e pronunciamenti immutabili nello spazio e nel tempo, non avrebbe mai avuto la forza e l’esigenza di lasciare la comunione anglicana per entrare nella Chiesa di Roma. Nell’”Apologia pro vita sua”, il cardinale spiega che compì il gran passo verso casa solo quando si rese conto che gli argomenti degli anglicani contro i padri del Concilio di Trento erano gli stessi di quelli contro i padri del Concilio di Calcedonia, che condannare i Papi del Sedicesimo secolo voleva dire condannare anche quelli del Quinto: “Il dramma della religione, il combattimento della verità e dell’errore erano sempre gli stessi. I principi e i procedimenti della Chiesa d’oggi erano identici a quelli della Chiesa d’allora; i principi e i procedimenti degli eretici di oggi erano quelli dei protestanti di oggi. Lo scopersi quasi con terrore”.
Ma la Chiesa non lascia da sola anima alcuna davanti a una verità che possa atterrire. A ciascuno porge la carezza rigorosa e soave del rito. La tradizione si presenta sempre all’uomo attraverso un poema sacro che nel cattolicesimo, come scrive Domenico Giuliotti, ha la sua espressione celeste nella celebrazione eucaristica: “La Messa, e non già la Divina Commedia, è il ‘poema’ veramente ‘sacro al quale hanno posto mano e cielo e terra’. (…) Dio, la Trinità e tutti gli Angeli ne formano l’argomento. La Consacrazione, che rinnova l’Incarnazione, è il punto culminante di questo immenso mistero. E il Prete n’è, al tempo stesso, il taumaturgo e il poeta”.
Emanazione del Cielo in terra, tradizione e liturgia sono quasi consustanziali persino nel metodo con cui gli uomini hanno contribuito alla loro formazione. Mentre una è il repertorio di pensieri da cui è decaduto tutto, tranne ciò che dice definitivamente il divino, l’altra è la composizione di gesti e di parole immutabili depurati da ciò che è solo umano. Sono due ingressi allo stesso mondo, dove ciascuno riceve perennemente ciò che gli spetta, in qualunque luogo si trovi e in qualunque tempo viva. Sulla terra non vi è nulla di più equo. Lo racconta con soave precisione Newman nel romanzo “Perdita e guadagno”, là dove descrive i pensieri e le sensazioni del giovane protagonista che, per la prima volta, assiste a una celebrazione cattolica: “Quello che lo colpì più di tutto fu che, mentre nella chiesa d’Inghilterra l’ecclesiastico oppure l’organo erano tutto e la gente non era niente, salvo che veniva rappresentata al funzionario laico, qui era esattamente il contrario. Il prete diceva poco o niente, almeno in modo da farsi sentire, invece l’assemblea era come un solo vasto strumento un panharmonicum che suonava insieme; cosa ancora più mirabile, pareva che suonasse da solo. (…) Le parole erano in latino, ma tutti le capivano benissimo, e offrivano le loro preghiere alla Santissima Trinità, e al Salvatore incarnato, e alla grande Madre di Dio, e ai santi nella gloria del Paradiso, con nel cuore un’energia pari a quella con cui davano voce al suono. Vicino a lui c’era un ragazzino, e una povera donna, che cantavano a squarciagola. No, qui non ci si poteva sbagliare, Reding disse fra sé e sé: ‘Questa sì che è una religione popolare’”.
A quei tempi, nella Chiesa, la stessa dottrina e la stessa liturgia erano buone per tutti, per i santi e per i peccatori, per i vivi e per i morti, per i romani e per i barbari. Per questo la religione cattolica era equanime e misericordiosa: era popolare. Ancora non risuonava il lamento che più tardi avrebbe vergato Nicolas Gomez Davila: “La Chiesa un tempo assolveva i peccatori, oggi ha deciso di assolvere i peccati”.

Fonte il Foglio 20 novembre 2013

martedì 19 novembre 2013

Messa antica a Milano. Un'oasi di ortodossia nell'Università Cattolica



Segnaliamo ai nostri lettori lombardi (e non soltanto) la celebrazione della Messa more antiquo presso l'Università Cattolica di Milano. Si tratta di una felice ricorrenza mensile che,approvata e inaugurata dall'allora Assistente Ecclesiastico e attuale vescovo di Piacenza-Bobbio Mons. Gianni Ambrosio all'indomani del Motu proprio Summorum Pontificum, ha accompagnato e confortato studenti e docenti durante l'anno accademico. In un'Università Cattolica la cui nota caratteristica prevalente è il triste e spudorato impeversare del modernismo e del liberalismo religioso la bella Cappella di San Francesco resta una provvidenziale oasi di ortodossia cattolica, il rimedio e l'antidoto di molti velenosi errori ascoltati a lezione.

sabato 16 novembre 2013

La Tradizione come imitazione di Cristo. Considerazioni intorno a una citazione di Juan G. Arintero o.p.



Pubblichiamo, come promesso, la versione italiana di una nota del sacerdote argentino don Flavio Infante che ha curato per il blog In Expectatione l'edizione spagnola del nostro articolo "Il gesuita come problema". Don Flavio Infante fa emergere in maniera assai feconda l'affinità tra l'evoluzione omogenea della dottrina cristiana esposta dal Cardinal John Henry Newman e il concetto di  "evoluciòn mistica" sostenuto dal teologo domenicano Juan González Arintero.
  Padre Arintero, che fu professore a Salamanca nel primo decennio del secolo  XX, interpretò l'evoluzione della dottrina cristiana come continua approssimazione ascetica e mistica (mistica soltanto in quanto preceduta dall'ascesi) del cristiano e della Chiesa al deposito della fede cattolica e dunque a Cristo stesso. In tal senso ogni autentico sviluppo della dottrina Chiesa non può essere compreso se non come un aspetto della Tradizione immutabile e, misticamente, un'imitazione di Cristo. Una perfetta uniformazione della Sposa allo Sposo.
Se la storia della Chiesa è la storia di questa mistica uniformazione e la storiografia cristiana del secolo deve fondarsi nella "fede nella risoluzione metastorica della storia" ovvero nella fede nella parousia del Signore, la storia del secolo corre verso la parousia dell'"uomo dell'iniquità" (2 Thess 2). Scambiare hegelianamente il tempo della Chiesa, la sua '"evoluciòn mistica", con il preteso progresso del mondo verso il bene, significa rinunciare al discernimento delle cose ultime (e delle presenti). Sta forse proprio in questa confusione, nella "simpatia immensa" di cui parlò Paolo VI, una tra le principali cause della crisi della Chiesa.


Come la "coscienza" (quasi un luogo comune, un argomento elettivo di coloro che oggi abusano della riflessione teologica), il dispiegamento storico della Chiesa, discernibile in "età", fu uno dei ferri incandescenti che Newman non si astenne dall'afferrare. E colui che seppe uscire illeso dalla prova, poté giustamente vantarsi, al momento di ricevere il biglietto con il quale veniva creato cardinale, di avere "resistito per trenta, quaranta, cinquant'anni con le mie forze migliori allo spirito del liberalismo religioso".

Il suo era stato il secolo di Lammenais che non per nulla Diderot aveva definito "il secolo stupido". Si trattasse di giubilo oppure di baldoria (infatti le tesi progressiste prendono forma, oscurando a suon di parole le evidenze che loro s'oppongono, in un chiassoso ottimismo), Newman seppe respingere la tentazione di sostituire la fede nella risoluzione metastorica della Storia (parousia) con la sua crudele parodia - vale a dire con la sua negazione - quale è la fede nell'evoluzione inesorabile e autosufficiente della storia verso il bene.

Abbondano, grazie a Dio, le rettificazioni dell'aberrazione evoluzionista. Nella nostra lingua  il padre Juan G. Arintero o.p. seppe, in un tempo ormai lontano, affrontare questo errore dimostrando che una corretta idea cristiana di "progresso" deve riflettere il desiderio paolino che "arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo" (Eph 4, 13). Tale è  la felice analogia tra il progresso spirituale del cristiano e quello della Chiesa:

Il progresso mistico è l'unico e vero progresso integrale, l'unico in cui la natura riesce realmente ad acquistare la pienezza delle sue perfezioni nella misura in cui è risollevata dai divini splendori. È un continuo incremento della vita e delle energie nel quale, crescendo in tutto conformemente al vero Esemplare, possiamo pervenire alla misura dell'Uomo perfetto. Questo progresso spiega tutti i progressi che possono aversi nella Chiesa, senza incorrere nel pericolo delle aberrazioni moderne di coloro che tentano di ridurre questi stessi progressi ad altrettante serie di contraddizioni e di rotture, giacché ogni reale progresso è la manifestazione crescente di qualche aspetto della vita cristiana la quale sempre cresce e mai si distrugge o si smentisce (La evoluciòn mística, B.A.C., Madrid 1968,  2ª ed.)


Questa certezza è ciò che ci è offerto come antidoto contro l'infestazione  hegeliana di cui oggi soffre la Chiesa, un'infestazione tanto più inaudita dal momento che il guardiano della Chiesa si è affidato ai suoi più virulenti dilapidatori.

giovedì 14 novembre 2013

Il questionario di Pietro



Pubblichiamo qui di seguito il nuovo contributo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro sulla crisi della Chiesa comparso oggi su il Foglio

Anche quando dovrebbe essere al servizio di Nostro Signore, la burocrazia ecclesiale finisce sempre per provvedere soprattutto a se stessa, proprio come quella mondana. Non fa che parlare di sé, avocare ogni atto a sé e vedere Chiesa e mondo a immagine di sé. Il questionario di preparazione per il Sinodo straordinario sulla famiglia recentemente diramato da Roma ne è solo l’ultima conferma. Riesce difficile vederne l’utilità, se si vuole veramente comprendere che cosa crede e che cosa pensa, quindi che cosa prega e che cosa è, il gregge affidato a Pietro.

mercoledì 13 novembre 2013

Newman y las "tres edades" de la Iglesia.



Il blog argentino In-Expectatione ha tradotto e ripreso con una interessantissima nota di don Flavio Infante (che pubblicheremo presto in italiano)il nostro precedente post "Il gesuita come problema". Riconoscenti pubblichiamo qui di seguito la versione spagnola:

Así como el de la «conciencia» (casi un tópico, una preferencia de los abusadores de la reflexión teológica de nuestros días), éste del desenvolvimiento histórico de la Iglesia, discernible en «edades», fue uno de los hierros candentes que Newman no se abstuvo de aferrar. Y supo salir ileso de la prueba aquel que pudo con justicia jactarse, al recibir el biglietto por el que era creado cardenal, de haber «durante treinta, cuarenta, cincuenta años (...) resistido con lo mejor de mis fuerzas al espíritu del liberalismo en religión».

El suyo había sido el siglo de Lamennais, que no por nada Diderot motejara como «el siglo estúpido». Alborozo o alboroto de que se trate (porque las tesis progresistas se formulan tapando con ruido de palabras las evidencias que les son contrarias, en una especie de vocinglero optimismo), Newman supo rechazar esa tentación de sustituir la fe en la resolución meta-histórica de la Historia (Parousía) por su parodia cruel -y su negación, en suma-. como es la de la evolución inexorable de la historia en el sentido del bien y por sus puras virtualidades.

Abundan, a Dios gracias, las rectificaciones del desafuero evolucionista. En nuestra lengua y en temprana hora supo salirle al cruce el padre Juan G. Arintero o.p., mostrando que una correcta idea cristiana de «progreso» debe reflejar ese deseo paulino (Ef. 4,13) de «que todos lleguemos a la unidad de la fe y al conocimiento completo del Hijo de Dios, y a constituir el estado del hombre perfecto, a la medida de la edad de la plenitud de Cristo». Tal la feliz analogía entre el progreso espiritual del cristiano y el de la Iglesia, que

el progreso místico es el único y verdadero progreso integral, el único en que la naturaleza logra realmente adquirir la plenitud de sus perfecciones, a la vez que con esplendores divinos se realza. Es un continuo incremento de vida y de energías en que, creciendo en todo según el verdadero Ejemplar, podemos llegar a la medida del Varón perfecto. Con este progreso se explican todos los que puede haber en la Iglesia, sin peligro de incurrir en esas aberraciones modernas que tratan de reducirlos a otras tantas series de contradicciones y destrucciones, pues todo progreso real es la creciente manifestación de algún aspecto de la vida cristiana, que siempre crece y nunca se destruye o desmiente (La evolución mística, B.A.C., Madrid, 1968, 2ª ed.).


Esa certeza es la que se nos ofrece como antídoto contra la infestación de hegelianismo que sufre hoy la Iglesia, tanto más inaudita cuanto que su guarda se ha confiado a sus más sañudos dilapidadores. Que a éstos les responda Newman, sobre quien ofrecemos, para mayor esclarecimiento, un excelente artículo aparecido días atrás bajo el título de «El jesuita como problema» en el blogue italiano Vigiliae Alexandrinae, sin mención de autor.

En el comienzo de The mission of St. Benedict, el beato cardenal Newman, siguiendo probablemente una indicación tomada de Auguste Compte, considera evolutivamente las apariciones de san Benito, santo Domingo y san Ignacio de Loyola:
«Digamos que san Benito recibió la formación intelectual antigua, santo Domingo la  medieval y san Ignacio la moderna... Paso entonces a contraponer entre sí a estos grandes maestros del pensamiento cristiano. A san Benito entonces, a este gran santo dejadme asignarle, como marca distintiva, el elemento de la poesía; a santo Domingo el elemento de la ciencia, y a san Ignacio el práctico. Estas características, que pertenecen respectivamente a las escuelas de los tres grandes maestros, brotan de las circunstancias en las que ellos asumieron sus respectivas obras. Benito, a quien es confiada su misión cuando era casi un muchacho, le infundió la simplicidad romántica de la juventud. Domingo, un hombre de cuarenta y cinco años laureado en teología, cura y canónico, llevó a la religión la madurez y la plenitud que había adquirido en las escuelas. Ignacio, hombre de mundo antes de la conversión, dejó en herencia a sus discípulos aquel conocimiento de la humanidad que no puede ser adquirido en los claustros. Y así los tres distintos órdenes dieron nacimiento, por decirlo así, a la poesía, a la ciencia y al sentido práctico».
Newman, que dedica todo el ensayo a explicar qué deba entenderse por la "poesía" de los monjes benedictinos (la oración, la liturgia y una vida ordenada y, en este sentido, poética), y que individualiza en la metafísica la "ciencia" medieval de los hijos de santo Domingo, se detiene en el carácter específico del "sentido práctico" de los jesuitas, definiéndolo una "prudencia": «La palma de la prudencia religiosa, en el sentido completo que esta palabra tiene en Aristóteles, corresponde a la casa religiosa de la que san Ignacio es fundador. Aquella gran orden es la clásica fuente..., la escuela, el modelo de discernimiento, de sentido práctico, de gobierno sabio. Concepciones más sublimes  o más profundas especulaciones pueden haber sido creadas o elaboradas en otros lugares; pero, sea que consideremos a la ilustre Compañía en su constitución, o bien en las reglas de instrucción o de dirección, vemos que su peculiaridad consiste en el preferir esta excelentísima prudencia a cualquier otro don, y en preocuparse poco de la poesía y de la ciencia, a no ser que le resulten útiles».
El positivismo de una visión en la que poesía, ciencia y prudencia se suceden como expresiones de tres distintas épocas -antigua, media y moderna- es corregido pronto por Newman, que, recurriendo al concepto mismo de Tradición, observa oportunamente: 
«Es cierto que la historia, a través de estos tres santos, en cierta manera se presenta según la línea predicada por la teoría que cité; de la poesía pasa, a través de la ciencia, al sentido práctico, es decir, a la prudencia; sin embargo y al mismo tiempo, se debe retener mentalmente aquella importante cláusula condicional que la Iglesia nunca dejó perder cuando acometió algún cambio. Nunca ha añorado el pasado, ni lo ha odiado nunca. En vez de pasar de un estadio de la vida a otro, ha llevado consigo hasta su período reciente la propia juventud y la propia media edad. Nunca mudó las propiedades que le son propias, sino que las acumuló, y de su arcón extrajo cosas nuevas y antiguas, según la ocasión. No perdió a Benito al encontrar a Domingo, y tiene todavía consigo a Benito y a Domingo, aunque se haya hecho la madre de Ignacio. Imaginación, ciencia, prudencia, son todas buenas, y ella todas las posee. Aspectos incompatibles por naturaleza, coexisten en ella; su prosa es por un lado poética, por el otro, filosófica».
Se quiere aquí decir que en la Iglesia cualquier momento -inteligencia de las imágenes litúrgicas, definición filosófica y teológica y sentido práctico- entra con los otros en una tal tensión que sin los otros resultaría imperfecto y apócrifo. Bien vistas las cosas, es justamente en el olvido positivista de esta contextualidad y en la propensión a creer que en la prudencia (hoy se dice "pastoralidad") se realiza el sentido histórico del catolicismo romano, reside la impresionante contribución del jesuitismo novecentista a la actual crisis modernista de la Iglesia católica.
Una prudencia sin "poesía" y sin "ciencia" explica a la par el evolucionismo de Marie-Joseph Pierre Teilhard de Chardin s.j., del que la Gaudium et Spes fue una gran continuación; la exégesis histórica del cardenal Bea s.j.; la doctrina de la "corrupción" de Josef Jungmann s.j., en la cual confluyen arqueologismo, simplificación y pastoralidad, es decir, todos los presupuestos teóricos de la reforma litúrgica (consúltese sobre otros particulares el análisis de dom Alcuin Reid, o.s.b., Lo sviluppo organico della liturgia, Siena, 2013); el "giro antropológico" de Karl Rahner s.j.; la agresión disolvente del derecho natural y la moral del caso concreto de Joseph Fuchs s.j., que son la inmediata consecuencia de aquel "giro"; la funesta pastoral ambrosiana y las "zonas de sombra" del cardenal Martini s.j; las extrañas divagaciones de los jesuitas de San Fidel en Milán (sobre lo cual volveremos); y de alguna manera también el mismo nominalismo de Jorge Mario Bergoglio s.j. 
Por otro lado, en la escandalosa respuesta a Scalfari sobre la autonomía de la conciencia, Francisco no hizo más que citar, casi a la letra, un teólogo jesuita "in gamba": 

«Aquel que sigue la propia conciencia, sea que afirme ser cristiano o no cristiano, sea que afirme ser ateo o creyente, un tal individuo es acepto y aceptado por Dios y puede alcanzar aquella vida eterna que en nuestra fe cristiana nosotros confesamos como fin de todos los hombres. En otras palabras: la gracia y la justificación, la unión y la comunión con Dios, la posibilidad de alcanzar la vida eterna, todo esto solamente encuentra un obstáculo en la mala conciencia de un hombre» (Karl Rahner, El esfuerzo de creer).


[Nota: coincidencias como esta última, en nada casuales, podrá encontrar seguramente quien indague en las ocurrencias de Francisco a la luz de la "genealogía" (post-) jesuítica arriba propuesta. Sin ánimo de extendernos más, hemos hallado al azar una del extinto cardenal Martini, mentor de Bergoglio en el cónclave que consagró a Benedicto XVI, quien no tuvo empacho en afirmar, en un libro publicado en vísperas de su muerte, que «la historia nos señala cómo la Iglesia, en su conjunto, no ha estado jamás tan floreciente como lo está ahora» (Il comune sentire, Rizzoli, Milano, 2011). Francisco dijo lo mismo hace poco, de lo que ya dimos cuenta (ver aquí).

Conocemos cuál es el carácter de este optimismo. Encarna por lo común en sujetos que, después de haber proscrito sin pausa y sin misericordia a cuantos pudieran estorbar sus planes, se encuentran en soledad encaramados allí donde su estrategia los condujo. Ahora sí, secretamente satisfechos, pueden tronar contra el ajeno carrerismo y decorar el statu quo resultante, convictos de que "las cosas nunca estuvieron mejor"]

martedì 12 novembre 2013

La liquefazione della Chiesa. Uno scritto di Roberto de Mattei

Riportiamo qui di seguito un articolo di Roberto de Mattei comparso oggi su il Foglio. Notevoli in questo momento sono le annotazioni sull'attuale e ultimissimo posizionamento di Comunione e Liberazione e sulle sue radici culturali affondanti nel terreno della nouvelle théologie. Fallita la ratzingeriana ermeneutica della continuità, CL riscopre nella pastorale dell'esperienza di Francesco le proprie origini. È il trionfo della fede come incontro.


domenica 10 novembre 2013

L'Avvenire e la coscienza al potere. Un dialogo anticristico



Riportiamo qui di seguito un'intervista rilasciata dallo psicoanalista junghiano Luigi Zoja a l'Avvenire  che, come si sa, è il quotidiano dei vescovi italiani. "La coscienza al potere" è il titolo compiaciuto del testo che è apparso il 9 novembre sul feuilleton del giornale cattolico all'interno di una serie di "Dialoghi per Francesco". La tesi esposta dall'esperto psicanalista, cui naturalmente l'Avvenire non ha nulla di serio da obiettare, si risolve in alcuni passaggi ben delineati: l'interrogativo di Francesco "chi sono io per giudicare?" preluderebbe al completamento dell'abdicazione di Benedetto XVI, completamento che consisterebbe nel dichiarare infallibilmente che il Papa è fallibile liberando definitivamente le coscienze da una "prerogativa imperiale". Non vogliamo attardarci sugli effetti della emancipazione dai dogmi e dalla autorità nel sistema junghiano (poteva essere l'ultima domanda, ultima e veramente importante, da rivolgere al dottor Zoja); ci basta qui ricordare all'ignaro Alessandro Zaccuri (l'intervistatore), al direttore Tarquinio e ai signori vescovi che la rinuncia a siffatta "prerogativa imperiale" da parte del Papa equivale certamente, nella interpretazione tradizionale del famoso passo del secondo capitolo della II Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi,  allo sbrigliamento di quello straordinario campione della consapevolezza e delle "coscienze al potere" che è l'Anticristo.​

Luigi Zoja fa segno di accomodarsi sulla poltrona sulla quale siedono di solito i suoi pazienti. «Tolga i cuscini, danno fastidio», dice. Non raccomanda di allacciare le cinture, di cui pure ogni tanto si sentirebbe il bisogno. Dialogare con lui sul pontificato di Francesco significa infatti disporsi a un confronto niente affatto scontato. Oltre a essere uno dei più autorevoli psicoanalisti italiani, Zoja è tra i massimi conoscitori dell’opera di Carl Gustav Jung in campo internazionale. I suoi libri, da Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri, 2000) e La morte del prossimo (Einaudi, 2009) fino al recentissimo Utopie minimaliste (Chiarelettere), esplorano il territorio di frontiera tra etica pubblica e interiorità, in una prospettiva sempre sorprendente. «Non so perché, ma piacciono molto ai cattolici», scherza.

E lei ricambia la simpatia?

«Mi sta chiedendo se sono interessato alla figura di Francesco? La risposta sì, senz’altro, e per motivi che vanno al di là della persona del Papa. Un cambiamento come quello che si sta verificando nella Chiesa, per me, è molto più importante di una crisi di governo nel nostro Paese. L’agilità dimostrata dall’istituzione ecclesiale non è neppure lontanamente paragonabile con quella delle istituzioni civili, e lo stesso vale per l’influenza a livello mondiale. È un’onda lunga che pure, dal mio punto di vista, è destinata a fare i conti con l’attenuarsi dell’importanza della religione nel mondo globalizzato».

L’entusiasmo suscitato da Francesco non prova il contrario?

«Sì, se devo dar retta al mio amico Leonardo Boff, che in questi ultimi mesi ha cercato di contagiarmi con il suo ottimismo. Un atteggiamento che comprendo, sia chiaro. Da un decennio, ormai, trascorro un mese all’anno in Argentina e già prima del 13 marzo scorso il nome di Jorge Mario Bergoglio non mi era affatto sconosciuto. Di lui ho sempre sentito parlare in termini più che positivi. La crociata contro il lusso, per esempio, caratterizza da tempo il suo stile pastorale. Proprio per questo, però, non posso fare finta che la sua missione sia priva di rischi».

Si riferisce alla sfida del dialogo con tutti, credenti e non credenti?

  «Il dialogo è un bisogno umano primario, ci mancherebbe altro che la Chiesa non lo praticasse e incoraggiasse. È stata la modernità, semmai, a trascurare così tanto la necessità di dialogo da doversi inventare un sostituto terribilmente costoso, complicato e difficilmente accessibile come la psicoanalisi. Da solo, però, il dialogo non è sufficiente».

Perché?

  «Perché il richiamo al dialogo può essere frainteso e appiattito al livello della comunicazione. Va benissimo che un Papa sia un grande comunicatore, come Francesco ha dimostrato di essere a più riprese. La Chiesa, però, è testimone di qualcosa che sta più in alto rispetto alla comunicazione. La Chiesa è testimone del simbolo, del mistero, del sacrificio inteso non come assenza di un determinato bene od oggetto, ma come scoperta di un livello superiore e altrimenti inattingibile».

Ha nostalgia di un Papa più remoto e regale?

  «Al contrario, vorrei che Francesco percorresse fino in fondo la strada del dialogo, dimostrando così la continuità profonda tra il suo pontificato e quello del predecessore. La rinuncia di Benedetto XVI ha avuto e continua ad avere una portata enorme. È un gesto senza precedenti, che obbliga la Chiesa a confrontarsi con il nodo del potere. Che è potere economico, certo, e quindi ben venga la trasparenza degli enti finanziari legati alla Santa Sede. Allo stesso modo non può più essere rimandata la purificazione di quanto attiene alla sfera degli abusi sessuali. Un’iniziativa, anche questa, che risale a Benedetto XVI e che Francesco ha ora il compito di portare fino in fondo, con tutta la delicatezza che un’azione del genere comporta. Ma il punto cruciale non è neppure questo».

Qual è, allora?

  «Posso permettermi una provocazione laica e niente affatto laicista? La questione da risolvere riguarda il dogma dell’infallibilità. So benissimo che questo riguarda solo i pronunciamenti ex cathedra , ma nondimeno è il Papa stesso, quando si chiede “chi sono io per giudicare?”, a introdurre un elemento di dubbio o, se si preferisce, di possibilità. Si potrebbe rispondergli che è per definizione l’infallibile, colui che “deve” giudicare per correggere l’uomo, il quale è invece fallibile; oppure fargli notare che si sta spogliando di una prerogativa “imperiale”. La rinuncia all’infallibilità sarebbe la dimostrazione che il Papa è infallibile, almeno in quel momento. Sarebbe una spoliazione dalla forma più insidiosa e rigida del potere, con un’iniziativa veramente degna di Francesco d’Assisi».

Sì, ma un dogma non si può abrogare.

«Se il Papa è infallibile in materia di dogmi, dovrebbe esserlo anche nel momento in cui proclama che l’infallibilità non è più necessaria. Ciò richiama un’altra delle categorie predilette da Francesco, quella che forse più di ogni altra fonda la legittimità del dialogo».

Che cosa intende?

  «L’appello alla coscienza, che non a caso è un tema decisivo per la stessa psicoanalisi. Vede, in italiano traduciamo come “coscienza” due diversi termini analitici tedeschi. Il primo, Bewusstein , descrive la consapevolezza intellettuale, mentre il secondo, Gewissen , è la coscienza morale. Per tradizione la mentalità italiana è incline a questa seconda tipologia, spesso declinata come adesione a una norma. È, direi, la versione cattolica della coscienza. A dover essere rivalutato è l’altro elemento, più presente nelle culture di matrice protestante, ma non solo in esse. Una coscienza consapevole, e quindi concreta, è stata tipica dell’opera dei gesuiti in America Latina, tra l’altro. E Francesco è un gesuita latinoamericano, giusto?».​​​​

Fonte l'Avvenire 9 novembre 2013