mercoledì 30 ottobre 2013

J.H. Newman e il Tract 90. Quasi una storia d'oggi

Come si sa la pubblicazione del Tract 90 (tr.it.: J.H. Newman, L'ultimo compromesso. Opuscoli per il nostro tempo n. 90, San Giorgio 2011, SdS, pp.184) con il quale nel 1841 il giovane J.H. Newman tentava un'interpretazione cattolica dei Trentanove Articoli della ambigua confessione anglicana, esauriva la missione del Movimento di Oxford e, dopo la dura condanna da parte delle autorità anglicane, dava inizio al passaggio di molti trattariani, tra cui lo stesso Newman, alla Chiesa di Roma.

Così Newman concludeva il Tract 90 riferendosi ai "cattolici" della Chiesa d'Inghilterra:

"La Confessione protestante fu redatta col proposito di includere i cattolici e i cattolici non sarebbero stati esclusi da essa. Quel che fu economia nei riformatori è per noi una tutela. Ciò che era stato per noi allora motivo di imbarazzo, è motivo di imbarazzo ora per i protestanti. Non avevamo potuto trovare difetto nelle loro parole allora, non possono ora ripudiare il significato che noi diamo alle stesse" (cit. p. 106)
.

Si trattava in fondo di un estremo tentativo di ermeneutica della continuità destinato ad accendere un conflitto più profondo di quanto una dichiarata rottura avrebbe potuto fare. Il "significato che noi diamo alle stesse" era la fede cattolica che i protestanti non avrebbero mai accettato.

Ancora nel 1841, in seguito alla pubblicazione del Tract 90, Newman scriveva in una lettera indirizzata al Reverendo R.W. Jelf:

"Devo confessare di essermi turbato a mia volta del fatto che persone che hanno sopportato pazientemente  negli anni passati e al presente disconoscimenti del Credo di Atanasio e della dottrina della rigenerazione battesimale si siano ora allarmati tanto quando un membro dell'università, senza il proprio nome, ha fatto affermazioni nell'opposta direzione. Nè mi posso pentire di ciò che ho pubblicato" (cit. p. 135)
.

Newman e i suoi amici si turbarono un poco, poi venne il tempo della preghiera e dell'eremo di Littlemore, e infine l'ora del ritorno alla perfetta fede cattolica. I Trentanove Articoli non furono più un problema.

Distrattamente si potrebbe pensare a una storia d'oggi.

lunedì 28 ottobre 2013

Il lato apostolico della Chiesa

La dichiarazione rilasciata dal Vescovo di Roma all'intervistatore de la Civiltà  cattolica, letta a distanza di alcune settimane, pone ulteriori questioni particolarmente gravi e urgenti. Diceva infatti Francesco:

"... Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione"


A suo tempo si notò giustamente da più parti che Francesco mutava radicalmente la ratio stessa del Motu proprio Summorum Pontificum. Mentre infatti Benedetto XVI aveva in mente lo sviluppo organico della tradizione liturgica oggettiva e poteva affermare che il VO non fu mai abrogato, e suggerire, seppur in maniera pericolosamente astratta, che le due forme del Rito romano avrebbero potuto arricchirsi a vicenda, Francesco riduce il Motu proprio a "scelta prudenziale" per venire misericordiosamente in "aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità". Pastorale è la definitività del NO perché si avvinghia all'uomo moderno, al suo autonomo divenire e alle sue esigenze, ed egualmente pastorale è la eccezionalità del VO la cui sopravvivenza si lega a una minoranza di "testardi" e di "pelagiani" che resiste alle "magnifiche sorti e progressive" del popolo in cammino. Della tradizione liturgica (e teologica) oggettiva non rimane pressoché nulla.

Molti si chiesero che cosa intendesse il Vescovo di Roma con "rischio di ideologizzazione" del Motu proprio. Dalla "tenerezza" alla "coscienza autonoma" fino all'omelia di Santa Marta il pensiero di Bergoglio è tutto una autocomprensione e una ricomprensione della Chiesa attraverso successivi chiarimenti e concretizzazioni (quando si arriverà ai fatti, essi godranno finalmente di un sistema e di un disastroso consenso). Così l'omelia di Santa Marta non soltanto ci spiega che gente come Gnocchi e Palmaro è da trattare alla stregua degli evangelici ipocriti e farisei, ma chiarisce anche il senso del "rischio di ideologizzazione"  di cui nell'intervista.

Se "dire preghiere" e passare la fede per l'"alambicco" distillando dogmi e precetti che sono la stessa necessità di quel dire, è ideologia che impedisce l'autentica e inconoscibile sequela di Cristo, ben si comprende che il VO, la stessa tradizione liturgica oggettiva tutta sostanziata da dogmi e da forme, non possa che rappresentare l'incombente "rischio di ideologizzazione". Di qui la necessità di deideologizzarlo, di pastoralizzarlo, di legarlo a una delle tante possibilità della coscienza autonoma, appunto a "una particolare sensibilità" di "alcune persone". Solo riducendo le forme liturgiche tradizionali all'occasionalità di uno stato d'animo si può incontrare, anche attraverso il VO, il "Cristo" della coscienza autonoma.

È in fondo questa la posizione sostenuta illo tempore, seppur con minor carica corrosiva, dai settatori del "biritualismo teorico": "Uno o l'altro rito secondo l'occasione e quello che ci garba. Ma nulla da dire sul NO!". Questi teorici rifluiranno facilmente, come lapsi al contrario, nella negazione zelante del "rischio dell'ideologia". Diverso è il caso dei molti "biritualisti pratici" che hanno scoperto e sinceramente amato il Rito riabilitato da Papa Benedetto XVI. Diciamo "biritualisti pratici" perché intendiamo i sacerdoti che hanno accettato in questi anni di alternare "forma ordinaria" e "forma straordinaria", talora perché costretti dalla contingenza, ma  soprattutto perché hanno creduto nell'orizzonte di una graduale restaurazione delle forme liturgiche di sempre.

Per questi sacerdoti (e per i fedeli che li hanno seguiti) nel "dire preghiere" non c'è nulla di occasionale e l'improvvisa abolizione dell'orizzonte della Tradizione costituisce oggi l'inizio di un tempo tragico. La celebrazione del NO, che fino a qualche mese fa era accettata e accettabile nella prospettiva di un ritorno all'antico, diventa insopportabile proprio perché è cambiata la ratio del Motu proprio. D'altro canto celebrare la Messa antica evitando il "rischio dell'ideologizzazione" significa negarne attivamente la sostanza dogmatica e, in fondo, tradire "il Protagonista" che è la divina realtà di quella sostanza.

Assistiamo già alla tragedia continuata di sacerdoti subdolamente perseguitati, trasferiti dalle loro sedi, esiliati ingiustamente, colpiti con la violenza odiosa dei divieti e delle sanzioni; ci giungono notizie dell'esistenza penosa di coloro che sono minacciati e ostacolati, le descrizioni di ciò che proditoriamente viene fatto ogni giorno contro la celebrazione della Messa antica e la amministrazione tradizionale dei sacramenti. Più raro che mai è l'intervento dei Vescovi a difesa del senso oggettivo del Motu proprio. I fedeli subiscono così un'incessante disfatta, quando un sacerdote è allontanato o un sacramento negato, una sconfitta prima psicologica, perché sanno bene che ora il parametro per giudicare ogni appello sarà quello del "rischio dell'ideologizzazione", e poi reale, poiché o nulla otterranno da giudici  infedeli o, se qualcosa gli sarà offerto, il prezzo sarà spesso quello dell'apostasia ossia dell'esclusione del "rischio".

Assieme alla FSSPX e agli altri istituti tradizionali, questa diffusa compagnia di sacerdoti, di religiosi e di fedeli, di pochi vescovi, rappresenta il lato apostolico della Chiesa, il sostanziale presidio della Tradizione cattolica e dell'ortodossia come lo fu l'Alessandria di Sant'Alessandro e di Sant'Atanasio durante la crisi ariana. Nell'accettazione del "rischio dell'ideologizzazione" si celebra oggi la libertà della Chiesa dalla dittatura della coscienza autonoma e del nichilismo.

domenica 27 ottobre 2013

Non predicano i Novissimi, non ascoltateli! Breve chiosa al piano pastorale di Mons. Coletti, Vescovo di Como

   
Roma chiama, Como risponde.
Nella lunga intervista rilasciata a La civiltà cattolica, il Vescovo di Roma ha espressamente formulato la linea del suo programma apparentemente minimalista:

  «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».

  In solerte e zelante adesione a tale linea, ecco che mons. Diego Coletti, Vescovo di Como, consegna alla Diocesi il suo piano pastorale, a sua volta apparentemente minimalista.
Si legge sul sito ufficiale della Diocesi di Como:

  «Anche papa Francesco richiama, spesso, alla necessità del “primo annuncio” e di una “missionarietà portatrice di misericordia”. Leggo le parole del Papa come un invito a evitare un equivoco che trovo spesso in tanti atteggiamenti ecclesiali: in Diocesi come nella Chiesa in generale. E cioè: noi ci rivolgiamo sia all’interno delle nostre comunità cristiane sia all’esterno pensando che l’umanità sappia già l’essenziale. Ma c’è la necessità imprescindibile, assolutamente non facoltativa, del primo annuncio. Di un annuncio che vada subito al cuore del Vangelo. E cioè che Dio non è una minaccia. Non è una potenza alternativa alla nostra libertà. Ma è un Padre che si prende cura dei suoi figli con infinita misericordia, sollecitandoli a esercitare, fino in fondo, la loro libertà filiale con atti di amore e non con atti di egoismo e di chiusura. La Buona Notizia è Gesù Cristo, morto per noi e risorto come vincitore del male del mondo. Dobbiamo concentrarci su ciò che è essenziale, necessario alla fede, senza arrivare subito a determinare le “verità ultime” che, a suo tempo, saranno richiamate, precisate… ma soltanto dopo che ci si è innamorati della bellezza e della luminosità del Vangelo». (fonte: http://www.diocesidicomo.it/pls/como/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=35260&rifi=guest&rifp=guest)

  Il programma in realtà potrebbe essere tutt’altro che minimalista.
Sembra piuttosto segnato da un massimalismo – ma preghiamo Dio di sbagliarci! – da far tremare le vene ai polsi: il cambiamento, quantomeno temporaneo, del fine supremo della Chiesa. Se così fosse (e lasciamo il giudizio ai lettori) la Chiesa sarebbe ormai “risolta”, come in una brutta pagina di letteratura modernista.
Per spiegarsi più nel dettaglio.
Rispondendo alla sollecitazione del Vescovo di Roma, mons. Coletti ritiene che sia tempo anche per la sua chiesa particolare di andare a ciò che è essenziale e necessario alla fede. E questo qualcosa di essenziale e necessario non sarebbero le “verità ultime”.
Quantomeno curioso.
La prima domanda che il cattolico si pone è che cosa siano queste “verità ultime”. L’unica risposta cattolica è questa: i Novissimi (n. 968 del Catechismo Maggiore del 1905: “Novissimi sono chiamate nei Libri santi le cose ultime che accadranno all’uomo”).
Ci si domanda allora: cosa c’è di più essenziale e necessario dei Novissimi? Cosa c’è di più essenziale e necessario alla salvezza della predicazione di Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso, che mostrano nel modo più comprensibile a tutti il più reale destino dell’uomo?
Ma più ancora: non è forse per predicare i Novissimi che Nostro Signore Gesù Cristo ha istituito la Chiesa e in particolare la Chiesa militante? Non sono proprio i Novissimi l’esatto contenuto della missione della Chiesa?
Cosa resterebbe della missionarietà (di cui pure i Vescovi di Roma e Como parlano) senza l’annuncio dei Novissimi?
La missione della Chiesa è stata espressamente consegnata da Nostro Signore.
Ecco le Sue parole, dolcissime ma terribili:

  «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato».  (Marco 16, 15-16)

  Di fronte a tutto questo, si comprende il profondo realismo di un monito alzatosi qualche tempo fa dalle pagine, sempre così accorate, di Radicati nella fede: “Non predicano i Novissimi, non ascoltateli!” (n° 11 di novembre 2012).
Cívitas Sancti facta est desérta? Le sentinelle alessandrine si permettono di invitare tutti coloro che conservano la Tradizione ricevuta a pregare gli uni per gli altri per conservare Fede, Speranza e Carità davanti ad una realtà che è sempre più difficile guardare senza smarrirsi.
 

venerdì 25 ottobre 2013

"Ecclesiastica loquendi consuetudo" ovvero della convenienza di "dire preghiere"

The Voice of the Church at Prayer (San Francisco 2012, Ignatius Press, pp.  206)  è verosimilmente l'ultimo libro di Padre Uwe Michael Lang del Brompton Oratory di Londra, già consultore liturgico di Benedetto XVI. Quest'opera ripercorre lo sviluppo della lingua liturgica dall'antichità cristiana, attraverso il Medioevo (ritorneremo sul capitolo dedicato a "St Thomas Aquinas on Liturgy and Language"), fino all'Età moderna e sostiene la tesi dell'iniziale differenziarsi e della successiva costanza di una lingua (liturgica) con la quale i cristiani si rivolgono al Signore. Così Padre Lang completa e integra il suo precedente studio sull'orientamento (versus orientem) della liturgia, e in particolare della Santa Messa (nella edizione italiana: U.M. Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, Cantagalli, pp. 149): si tratta di pregare rivolti al Signore e proprio per questo di utilizzare una lingua gradita al Signore, un "Sacred Language" (tale è il titolo del II capitolo del libro in esame), una lingua sottratta al comune commercio quotidiano.
Tra l'altro Padre Lang dimostra che la fondamentale importanza di pregare secondo la lingua della Chiesa fu avvertita da Sant'Agostino che definì l'insieme delle peculiari forme linguistiche del cristiano e della comunità cristiana in preghiera "ecclesiastica loquendi consuetudo". Questa sacra consuetudine, senza la quale ogni rivolgersi al Signore appare imperfetto, diventa il tramite autentico della preghiera che, se pronunciata con la Chiesa, è sempre anche un "dire preghiere". Riportiamo qui di seguito, nella nostra traduzione, le riflessioni di Padre Lang su Sant'Agostino:

Agostino era del tutto consapevole di questo fatto [che senza una lingua peculiare e distinta dei cristiani non poteva esserci pienezza della vita cristiana, né la possibilità di tramandare fedelmente la fede alle successive generazioni]  e, nel paragrafo citato all'inizio di questo capitolo [Confessiones IX, 5, 13], descrive la sua esigenza di acquisire familiarità con il "dominicum eloquium". In un passo precedente, sempre nel IX libro delle Confessioni [IX, 4, 7], Agostino riflette sul suo congedo dalla scuola di retorica a Milano e sul suo ritiro nella villa di campagna a Cassiciacum, ai piedi delle Alpi:

Eruisti linguam meam unde iam erueras cor meum, et benedicebam tibi gaudens, profectus in villam cum meis omnibus. Ibi quid egerim in litteris iam quidem servientibus tibi, sed adhuc superbiae scholam tamquam in pausatione anhelantibus, testantur libri disputati cum praesentibus et cum ipso me solo coram te. [latino in nota]

Sottraesti la mia lingua da un'attività, cui avevi già sottratto il mio cuore. Partito per la campagna con tutti i miei familiari, ti benedicevo gioioso. L'attività letteraria da me esplicata laggiù interamente al tuo servizio, benché sbuffante ancora, come nelle pause della lotta, di superbia della scuola, è testimoniata nei libri ricavati dalle discussioni che ebbi con i presenti, e con me solo davanti a te.

Queste righe furono scritte tra il 397 e il 401, ossia più di dieci anni dopo gli eventi qui descritti. È dunque con senno di poi che Agostino constatava che, anche dopo l'esperienza della sua conversione, erano rimaste in lui tracce della sua  "ambizione mondana". La "scuola della superbia" (superbiae schola), verso la quale si riteneva ancora debitore, non si manifestava tanto nel contenuto degli scritti di questo periodo della sua vita, bensì piuttosto nel suo stile. Durante il suo ritiro a Cassiciacum egli non aveva ancora fatto proprie le forme espressive utilizzate dai Cristiani latini di quell'epoca, di una lingua che si era formata attraverso la frequenza della Bibbia e della liturgia. Così infatti Agostino ripete a se stesso nella sezione seguente delle Confessioni: "Novizio ancora al tuo genuino amore, catecumeno ozioso in villa col catecumeno Alipio" [IX,8].
La penetrante consapevolezza dell'uso della lingua e dei problemi che l'ineriscono, non lo abbandonò fino alla fine della sua vita, quando, nell'anno 426, iniziò a rileggere i propri scritti giovanili componendo una vera e propria opera di revisione conosciuta come le Ritrattazioni. In particolare, nel prologo Agostino, scrive di non volere lasciare inedite le opere composte da catecumeno. Queste erano già state scritte sotto l'ispirazione cristiana ma erano ancora debitrici delle forme letterarie delle scuole secolari. Ciò che Agostino ritiene essere inappropriato nelle sue opere giovanili, emerge con chiarezza dai primi quattro capitoli delle Ritrattazioni. Praticamente nulla del contenuto di quegli scritti è ripudiato: nel loro complesso le ritrattazioni riguardano un particolar modo di periodare ovvero l'uso di parole caratterizzate da una forte connotazione pagana, come fortuna od omen, nei suoi dialoghi Contra academicos, De beata vita e De ordine, scritti a Cassiciacum quando si stava preparando per il battesimo. Durante il suo non comune corso di predicatore e di autore di numerosi scritti teologici Agostino divenne sempre più consapevole del linguaggio peculiare della Chiesa [Church's own way of speaking] che egli definì "ecclesiastica loquendi consuetudo" ossia "ritus loquendi ecclesiasticus".
La testimonianza di Agostino conferma che nei primi cinque secoli v'erano forme linguistiche latine proprie del parlare cristiano che trovavano espressione nell'insegnamento, nel culto e nell'organizzazione della Chiesa, e che presentavano connotati distintivi rispetto al linguaggio comune della tarda antichità.


Fonte: U.M. Lang, The Voice of the Church at Prayer, pp. 23-25

giovedì 24 ottobre 2013

La linea rossa del Professor Borghesi. La svolta anticostantiniana di CL?


Molto si potrebbe dire dell’intervista (che riportiamo qui sotto) al professor Massimo Borghesi, ordinario di filosofia morale a Perugia, pubblicata da Tracce, la rivista internazionale di Comunione e Liberazione, il 21 ottobre.
Il contenuto delle affermazioni del Professore meriterebbe di essere seriamente discusso, e probabilmente anche contestato, sul piano storico, politologico e teologico.
Tuttavia, Vigiliae Alexandrinae non è una rivista scientifica ma un luogo di riflessione nell’attuale momento di crisi della Chiesa.
Quale riflessione dunque sulla scelta della rivista ciellina di proporre una simile intervista ai suoi lettori? Proviamo ad immaginare quale sia il messaggio immediato che giunge al lettore senza cultura specialistica e ancor meno senza cultura specialistica critica.
Eccolo. La laicità sarebbe principio politico tipicamente cristiano, avvalorato niente di meno che dallo stesso pensiero dei Padri della Chiesa, in particolare di sant’Agostino. Assisteremmo poi al tradimento di questo principio con l’inizio dell’era cosiddetta costantiniana. Tale tradimento cesserebbe, e giustizia sarebbe resa al “vero” cristianesimo, con il Concilio Vaticano II.
Sembra un tesi neo-marcionita.
Invero il diritto pubblico della Chiesa ha sempre riconosciuto tanto la tolleranza religiosa quanto la libertà religiosa come due possibili opzioni pratiche in circostanze date (quelle di una società non cristiana o non del tutto cristiana). Non tuttavia come l’optimum, che non può che essere rappresentato da una vera societas christiana, in cui ogni auctoritas - familiare, civile e religiosa - è alleata per la conservazione dell’unico ordine naturale e soprannaturale di Dio e per il fine supremo della salus animarum.
Tale idea è espressamente formulata proprio da sant’Agostino proprio nel De civitate Dei (XIX, 21): “Perciò è ora l’occasione di esporre, con la brevità e chiarezza che potrò, la tesi che ho promesso di dimostrare nel secondo libro di questa opera, sulla base delle definizioni che in Cicerone usa Scipione, nei libri su Lo Stato, e cioè che non è mai esistito uno Stato romano. Definisce in sintesi che lo Stato (res publica) è la cosa del popolo. Se la definizione è vera, non è mai esistito lo Stato romano, perché mai fu cosa del popolo, ed egli ha dimostrato che questa è la definizione dello Stato. Ha infatti definito il popolo come l’unione di un certo numero d’individui, messa in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipazione degli interessi. Nel dibattito spiega che cosa intende per conformità del diritto, poiché dimostra che senza la giustizia non si può amministrare lo Stato; è impossibile dunque che si abbia il diritto in uno Stato in cui non si ha vera giustizia. L’atto che si compie secondo diritto si compie certamente secondo giustizia ed è impossibile che si compia secondo il diritto l’atto che si compie contro la giustizia. Infatti non si devono definire e considerare diritto le illegali istituzioni di certi individui, poiché anch’essi considerano diritto la norma che promana dalla sorgente della giustizia. È falso inoltre ciò che per sistema si afferma da alcuni, i quali sostengono l’erronea opinione che è diritto quel che promuove l’interesse del più forte. Pertanto nello Stato, in cui non si ha la vera giustizia, non vi può essere l’unione d’individui messa in atto dall’uniformità del diritto e quindi neanche il popolo secondo la definizione di Scipione e Cicerone; e se non v’è il popolo, non v’è neanche la cosa del popolo, ma di una massa d’individui che non merita il nome di popolo. Quindi se lo Stato è cosa del popolo, ma non si ha un popolo perché non è associato nella conformità del diritto, inoltre non si ha il diritto perché non v’è la giustizia, si conclude senza alcun dubbio che lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non è uno Stato. La giustizia infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo. Dunque non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo stesso al Dio vero e lo rende sottomesso ai demoni infedeli. Questo non è distribuire a ciascuno il suo. Chi estorce il campo di colui dal quale è stato acquisito e lo cede a chi non ha alcun diritto su di esso è ingiusto, a più forte ragione non è giusto chi sottrae se stesso al Dio Signore, da cui è stato creato, e si rende schiavo degli spiriti malvagi”.
Non solo. Sant’Agostino, proprio invocando l’intervento dell’Imperium nel 404 - 405 in occasione della crisi donatista, mostra anche all’atto pratico di non confondere, come si fa oggi, la libertas Ecclesiae con la libertà religiosa.
La separazione (non la semplice distinzione) di ordine naturale e ordine soprannaturale, figlia del naturalismo teologico, ci consegna invece una teologia-politica in cui quest’alleanza tra il gladio e l’altare è spezzata. Trionfa così un’idea immanente dei diritti umani (il diritto sussisterebbe nell’uomo in sé e non già nell’uomo in quanto creatura voluta e amata da Dio) e si negano i diritti di Dio sulla società, quasi che quest’ultima non fosse a sua volta una Sua creatura.
Tutto ciò è stato chiaramente disapprovato da Pio XI nella lettera enciclica Quas Primas.
Curioso, davvero curioso che la creatura pensi di potere stabilire condizioni e limiti dei diritti del Creatore. L’era costantiniana è davvero finita. Dove un tempo trionfava Deo Optimo Maximo, ora trionfa la Libertas Optima Maxima. Davvero CL vuole giungere a tanto? Davvero vuole confondere la libertas Ecclesiae con la libertà religiosa? Davvero, dopo le coraggiose battaglie (in materia di famiglia e bioetica) condotte negli anni Settanta e quelle che ancora conduce, vuole rinunciare all’unico vero motivo che le rende meritorie agli occhi di Dio (testimoniare la Sua Verità e la Sua Giustizia) e che forse attirerà le Sue benedizioni per condurle fino alla vittoria?

da TRACCE, 21.10.2013:

CRISTIANI E POLITICA
Un filo rosso tra Ratzinger e Bergoglio
di Luca Fiore
21/10/2013 - Laicità, presenza, valori non negoziabili. I due pontefici viaggiano sullo stesso binario. Quello di sant'Agostino. Per il filosofo Massimo Borghesi il modello di entrambi «non è quello medievale, ma quello delle comunità dei primi secoli»

Francesco e Benedetto sono diversi, a tratti molto diversi. Ce ne siamo accorti quasi subito, sentendo parlare il nuovo Papa dalla loggia centrale di San Pietro appena dopo l’elezione. Solo una questione di stile? O c’è di più? Il dibattito è rovente. Alcuni dicono: no, tra loro c’è una sostanziale continuità. Eppure quando si inizia a considerare come i due pontefici intendono il rapporto tra Chiesa e potere politico, o il ruolo dei cristiani in politica, gli animi si scaldano e i conti sembrano non tornare. Ma è davvero così? Per Massimo Borghesi, ordinario di Filosofia morale a Perugia, anche su questo punto i due viaggiano sullo stesso binario. Che è il binario di sant’Agostino. Borghesi ha pubblicato di recente Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana (Marietti, 2013) dove per “teologia politica” il filosofo intende quella concezione per cui il “teologico” si attua attraverso il “politico”. A questa impostazione viene contrapposta quella della “teologia della politica”, nella quale il rapporto tra le due sfere non è meccanico, ma mediato dalla morale, dal diritto, dal contesto in cui si agisce. È il messaggio del De civitate Dei di Agostino, il quale, dice Borghesi, è il faro sia del Papa emerito che del Pontefice venuto quasi dalla fine del mondo.

Alcune affermazioni di papa Francesco sul rapporto tra Chiesa e sfera pubblica sono state accolte da molti come novità rispetto alle posizione dei suoi predecessori. Siamo di fronte davvero a una rottura con il passato recente?

Il dibattito si sta configurando nella solita alternativa, quella che divide tradizionalisti e modernisti. Dove i primi cercano di tirare dalla propria parte Benedetto XVI e i secondi papa Francesco. Al di là della evidente differenza tra lo stile dei due, io vedo un filo rosso che unisce i due pontificati. 

Quale?

Sia Benedetto che Francesco criticano la mondanizzazione della Chiesa. Ratzinger alla vigilia del suo pontificato aveva parlato della «sporcizia» dentro la Chiesa, invocando trasparenza per gli scandali di pedofilia, e ha sempre cercato di riproporre una Chiesa evangelica. Tutto questo si ritrova, esaltato anche nelle forme esteriori, nel pontificato di Bergoglio. Ciò che li accumuna è lo sguardo verso la Chiesa dei primi secoli. Non è un caso che tanto Benedetto quanto Francesco abbiano in sant’Agostino un punto di riferimento essenziale. 

Che cosa vuol dire?

Dire Agostino significa parlare di una Chiesa che affonda le sue radici nell’era patristica, non ancora dominata dall’idea del Sacrum Imperium. Ratzinger l’ha scritto più volte indicando come modello per la Chiesa di oggi, non quello medievale ma quello delle prime comunità cristiane che vivono in un contesto pagano. È una Chiesa rispettosa della laicità dello Stato e dei suoi ordinamenti. Agostino, per Ratzinger, significa la chiara distinzione tra le due “città”, tra grazia e natura, tra escatologia e storia. Significa la critica della teologia politica. Com’egli scrive: «Il cristianesimo, in contrasto con le sue deformazioni, non ha fissato il messianismo nel politico. Si è sempre invece impegnato, fin dall’inizio, a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell’etica. Ha insegnato l’accettazione dell’imperfetto e l’ha resa possibile. In altri termini, il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica». È una posizione simile che rende possibile la chiara distinzione dei Regni, la differenza tra Stato e Chiesa, la critica all’integrismo e il riconoscimento (moderno) della sfera della laicità fondamentale per la vita dello Stato democratico.

Eppure neanche Agostino, come spiega nel suo libro, fu sempre chiaro sulla distinzione tra i compiti dello Stato e della Chiesa. È una difficoltà che la Chiesa si è portata dietro a lungo. Perché?

È il grande dramma che attraversa l’opera di Agostino. Vista la grande influenza che ebbe durante il Medioevo, c’è un fattore che comporterà gravi conseguenze. Sto parlando della svolta che il Vescovo di Ippona opera a partire dal 404-405. Fino a quel momento era per l’assoluta libertà di religione e lo Stato non doveva interferire su questa questione. Agostino, in sostanza, si era attenuto all’Editto di Costantino del 313, che assicurava libertà religiosa a tutti, pagani e cristiani. Poi accade che l’imperatore Onorio, dopo l’uccisione di un vescovo africano a opera di bande criminali che appoggiano i donatisti, applica verso questi eretici le stesse leggi che valevano contro i manichei: confisca dei beni e pene molto pesanti. Su sollecitazione degli altri vescovi africani, Agostino recede dalla sua prima idea e si convince che l’intervento dello Stato è opportuno anche nel perseguitare gli eretici.

Perché è così importante questo episodio?

Perché lo Stato diventa a tutti gli effetti uno Stato confessionale che ammette la sola religione cattolica, come voleva Teodosio. Lo Stato non può più accettare la posizione degli eretici i quali, indipendentemente dagli atti che compiono, vengono giudicati e condannati. In termini moderni: non hanno gli stessi diritti civili dei credenti “ortodossi”. Questa svolta agostiniana influenzerà pesantemente il periodo successivo, servirà da legittimazione nella persecuzione degli eretici.

Se è così, perché si ritorna ad Agostino?

Perché la questione agostiniana non si esaurisce in questo, rilevante, cambiamento del suo pensiero. La Città di Dio, scritta dopo il sacco di Roma di Alarico, nel 410, è un’opera che si colloca a pieno titolo nel quadro della libertà religiosa e della distinzione tra Chiesa e Stato precedente all’Editto di Tessalonica con cui Teodosio, nel 380, promulgava il cattolicesimo come unica religione dell’impero. Nella sua opera Agostino, replicando ai pagani che collegavano la disgrazia della città eterna con l’abbandono degli antichi dèi, separava le due città, Città di Dio e Città del mondo. Lo Stato è una realtà secolare, non politico-religiosa, e il Dio cristiano non è il Dio degli eserciti che assicura gloria e potenza. In tal modo l’imperatore può anche essere cristiano, ma non può esserlo l’impero. Compito dello Stato non è edificare la religione, ma conservare la pace, un valore che sta a cuore a tutti, cristiani e pagani. Si apre, in questo modo, la possibilità di intendere una sfera “laica”, l’ambito del temporale distinto da quello teologico-spirituale. Una novità assoluta derivata dalla distinzione dei Regni operata da Cristo.

  Un altro punto di eterno dibattito è il rapporto tra la Chiesa e la modernità. Spesso se ne parla come di un insanabile conflitto.

  Qui si pone un problema che è anche di ordine culturale. Nel senso che davvero talvolta si ha l’impressione che il Concilio Vaticano II non sia stato acquisito dalla coscienza cattolica comune. Il Concilio rappresenta una svolta nel rapporto tra Chiesa e modernità. Questa è la sua importanza, nel senso che chiude un capitolo, quello dello scontro frontale tra Chiesa e modernità, come si è avuto per tutto l’Ottocento e in parte il Novecento. Quella che si è aperta allora è una stagione all’insegna di un rapporto critico ma anche positivo. 

In che termini si poneva questo scontro? 

Nell’Ottocento la Chiesa aveva di fronte a sé uno Stato liberale decisamente ostile. Non parliamo poi dei totalitarismi del Novecento. Entrambi, lo Stato laico dell’Ottocento e quello totalitario del Novecento, si sono posti verso la Chiesa in termini fortemente aggressivi, anticlericali e persecutori. La Chiesa, per reazione, si è chiusa in se stessa vagheggiando i tempi del Sacrum Imperium medievale. Si guardava al passato come a un tempo mitico e ideale e lo si contrapponeva all’intera modernità vista come il tempo della caduta e della perversione.

Che cosa ha prodotto la svolta?

Alla fine della Seconda guerra mondiale, la stessa modernità è diventata, in parte, autocritica rispetto a se stessa. Il totalitarismo ha interrogato la modernità e in parallelo anche la Chiesa ha imparato ad avere un rapporto diverso con la democrazia moderna. Questo non solo alla luce dell’esperienza americana, ma anche di quella delle democrazie cristiane europee. C’è stato un processo di avvicinamento da entrambe le parti che ha portato al risultato del Vaticano II, con la Gaudium et spes e soprattutto con la Dignitatis humanae, il documento sulla libertà religiosa. 

La svolta è stata interpretata da alcuni come rottura con il passato. 

Sì, i tradizionalisti l’hanno condannata come tradimento della tradizione. I modernisti l’hanno celebrata come vittoria e rottura radicale con la Chiesa “costantiniana”. Quel che entrambe le parti non hanno visto è che la Chiesa, in realtà, distinguendo tra principi ed applicazioni (contingenti), ha abbandonato il modello teologico-politico impostosi dopo Teodosio ed ha recuperato la tradizione dei primi quattro secoli. È la Chiesa dei padri: Tertulliano, Lattanzio, Ilario, Atanasio. Quella che aveva trovato nell’Editto di Costantino la sua formula ideale. I Padri avevano affermato la libertà di religione come un diritto naturale, proprio di tutti gli uomini, perché il culto della divinità non poteva essere imposto. Quindi il Concilio ha riscoperto la tradizione più originale della Chiesa. Ciò che è interessante è rilevare come l’incontro con il moderno avvenga proprio a partire dal recupero della tradizione patristica.

Qual è questo aspetto?

È proprio il tema della libertà di religione. L’idea di Stato confessionale, l’idea del Sacrum Imperium, è quella che fa scoppiare le guerre di religione. L’Europa moderna nasce nel momento in cui la religione diventa, da fattore unitivo, motivo di scontro. È qui che sorge lo statalismo moderno, perché se le confessioni religiose dividono, ecco che lo Stato si afferma come il fattore, l’unico, di unità. Da qui sorge anche il razionalismo moderno. E ciò a partire dalla stessa dinamica: la fede divide, solo la ragione può unire. Nasce così l’illuminismo. La sfera moderna della “laicità” si afferma, in tal modo, contro la religione.

Nel dibattito attuale, da una parte si chiede che la Chiesa non interferisca con le vicende politiche, dall’altra, in alcuni casi, lo Stato fa delle leggi contrarie a ciò che sta a cuore alla Chiesa...

Innanzitutto, la Chiesa ha il diritto di esprimersi a livello pubblico nella più assoluta libertà. Detto ciò, mi pare che nella prospettiva dell’attuale Papa, il compito essenziale della Chiesa è comunicare Cristo al mondo. Prima di tutto viene la comunicazione del contenuto di fede e della sua testimonianza carica di misericordia. Questo non significa che la Chiesa non ritenga rilevante la difesa dei valori naturali, basilari nello svolgimento della società e delle istituzioni. La loro tutela va però rimessa, in primis, ai cattolici laici i quali debbono farsi carico nelle sedi opportune. Papa Francesco ha un senso profondo dell’autonomia e della responsabilità del laicato cristiano impegnato nel temporale. È la ripresa della distinzione, richiesta dal Concilio, per cui «è di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in comunione con i loro pastori» (Gaudium et spes, 76). 

Quando papa Francesco ha detto: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi», non intendeva quindi uno stop ai cattolici in politica su questi temi...

Al Papa interessa innanzitutto la situazione della Chiesa nel suo rapporto con la vita della gente. Da una parte c’è la percezione che il contenuto elementare del cristianesimo non sia conosciuto. Dall’altra si ha il dramma della vita di persone abbandonate a se stesse e senza conforto. Per questo dice: la Chiesa è un ospedale da campo e deve essere fonte di misericordia. Altra cosa è il dovere che incombe ai singoli e ai gruppi di cristiani che hanno una responsabilità pubblica, i quali evidentemente hanno il compito di difendere quei principi naturali che stanno alla base dell’umana convivenza. Non sono solamente valori “cristiani” anche se il cristianesimo, storicamente, ne ha chiarito il significato. Occorre rilevare, tuttavia, come questa difesa dei valori fondamentali, continuamente messi in discussione dal processo di secolarizzazione, si è spesso concentrata su un piccolo gruppo di valori, certamente rilevanti, tralasciando quelli di carattere più sociale, come il tema della povertà, della tutela dei più deboli, ecc. che, nell’economia complessiva del bene comune, non possono essere dimenticati. Ciò consente di ampliare lo spettro d’azione politica dei laici cristiani e di sottrarla alla logica degli schieramenti. 

Eppure oggi appare assai difficile difendere “valori non negoziabili”. È una partita persa?

Nella sfera pubblica le motivazioni che nascono dall’esperienza di fede e di umanità proprie di un ambiente cristiano, devono essere tradotte in un ambito laico e quindi devono essere motivate nella loro valenza pubblica con argomentazioni ed esempi che devono essere convincenti. Lì si innesta un dibattito culturale e politico che si deve dimostrare all’altezza della sfida, capace di valorizzare, nell’ambito della società civile, quell’insieme di esperienze, di solidarietà, di pratiche alternative, che possono fungere da paradigmi per il bene comune. I “valori non negoziabili” devono trovare “punti d’incarnazione” che la politica e la cultura devono riconoscere nel loro valore normativo e a cui dar rilevanza pubblica.

mercoledì 23 ottobre 2013

Palmaro & Gnocchi sul Cristo senza dottrina e verità del Vescovo di Roma



Al nostro articolo Il nominalismo del "Vescovo di Roma" e la tragedia della fede del 19 ottobre (http://vigiliaealexandrinae.blogspot.it/2013/10/il-nominalismo-del-vescovo-di-roma-e-la.html quindi in http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2013/10/il-nominalismo-del-vescovo-di-roma-e-la.html) ha fatto eco e seguito su il Foglio il 22 ottobre un articolo degli ottimi Gnocchi e Palmaro di cui condividiamo pienamente il contenuto e che riproduciamo qui di seguito.

Cristo senza dottrina né veritàRidotti a sans papiers della Chiesa, ricordiamo che il Cardinale Biffi ha ricordato: “Gesù talvolta è un pretesto per parlare d’altro”.Una pastorale dell’intimo, senza mediazione razionale del dogma? No.

Povera bisnonna Antonia, che ha passato una vita fatta di pateravegloria, rosari, messe alle cinque di mattina, segni di croce a ogni santella, catechismo imparato a memoria e precetti morali da praticare scrupolosamente e insegnare con zelo. Povera bisnonna Antonia, e poveri suoi ottantaquattro anni trascorsi a “dire preghiere” e a osservare “prescrizioni” nella speranza di abbracciare un giorno Gesù, a cui dava del Voi, come usavano le generazioni perbene. Povera bisnonna Antonia e povera la sua fede che, non fosse per il candore ingenuo e inerme delle vecchine di campagna, oggi potrebbe essere presa per una cristiana ideologica, moralistica, farisaica, senza cuore. Eppure, quella donnina sempre vestita di nero che parlava solo dialetto e un latino tutto suo, aveva mostrato quanto amore per Dio e per gli uomini sgorghi da una vita passata a “dire preghiere”. Al marito, che in punto di morte le chiedeva perdono per quante gliene aveva fatte e lei aveva sopportato nel silenzio e nella pazienza, la povera bisnonna Antonia aveva risposto di non avere paura, “Quando sarete di là, vedrete quanto bene avranno fatto le preghiere che vostra moglie ha detto per voi”.

La durezza dell’omelia di Santa Marta in cui papa Francesco stigmatizza una fede che passa “per un alambicco e diventa ideologia” e in cui giudica le coscienze di chi, oggi, si ostina a vivere un cristianesimo come quello dei suoi vecchi, finisce per travolgere il passato che continua a vivere nel presente. Risulta difficile ipotizzare che il bersaglio non sia quel sentire tradizionale a cui si intende impedire di diventare un movimento capace di aggregare uomini e idee. Lo ha felicemente spiegato la gioiosa macchina da guerra degli ermeneuti del giorno dopo. Ma lo aveva inequivocabilmente anticipato il papa stesso, nell’intervista a “Civiltà Cattolica”, fulminando un “uso ideologico” del rito tradizionale riportato in onore da Benedetto XVI, uno “specialista del Logos” ormai archiviato dagli ermeneuti del suo successore.

Anche se parla delle ideologie di ogni segno, è chiaro a chi miri papa Bergoglio dicendo: “quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero (…). E per questo Gesù dice loro: ‘Voi avete portato via la chiave della conoscenza’. La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni”.

Non passa omelia, non passa intervista, non passa bagno di folla in cui il papa non scrolli le spalle davanti una fede che si oggettiva nel rigoroso rapporto con la ragione. “Nomina nuda tenemus”, sembra questo il messaggio di Francesco, lo stesso del francescano Gugliemo di Occam di cui Umberto Eco produsse un gradevole bigino con “Il nome della rosa”. La fede non cerca più un intelletto che ritiene inabile a conoscere veramente, produttore di oggettivazioni che rischiano di divenire un ostacolo all’incontro con Cristo. Come se ci si trovasse in una zona di rimozione forzata dei precetti permeabili all’intelligenza, un vicolo cieco nel quale non amava sostare un cristiano innamorato della ragione come Gilbert Keith Chesterton: “Per quanto un uomo può essere orgoglioso di una religione fondata sull'umiltà, io sono molto orgoglioso della mia religione. Sono particolarmente orgoglioso di quelle sue parti che sono molto comunemente chiamate superstizioni. Sono fiero di essere stato nutrito da dogmi antiquati ed essere schiavo di una fede morta, come i miei amici giornalisti ripetono con tanta insistenza, perché so benissimo che sono le eresie ad essere morte e che soltanto il dogma razionale vive abbastanza a lungo da essere chiamato antiquato”.

Ma dove non c’è ragione c’è contraddizione e risulta difficile mettere al riparo le idee, e chi le sostiene, dall’aggressione che si sostituisce all’argomentazione. Chi critica errori dottrinali, confusioni, silenzi sui grandi temi della teologia e della morale, viene marchiato come un derelitto senza fede, un fariseo che non prega, un ipocrita che non crede in Cristo e lo usa per alimentare un’ideologia. E’ la “nuova chiesa della misericordia”, bellezza. E’ la chiesa che proclama di accogliere tutti e di non volere giudicare nessuno, ma che si mostra senza pietà per i suoi figli innamorati e insieme perplessi. Adotta schemi politici cari al Novecento, secondo cui il positivismo giuridico si mangia la verità e la legge naturale. Se fra l’intuizione di Dio e la vita quotidiana viene tolto di mezzo l’apparato razionale che contraddistingue l’uomo, il potere finisce per autolegittimarsi a prescindere da ciò che dice e che fa. Jean Bodin e Niccolò Macchiavelli lo avevano ben spiegato.

La strumentalizzazione del Nazareno per altri scopi, va detto, è un problema antico. Il cardinale Giacomo Biffi ha denunciato tempo fa che “Gesù è diventato un pretesto che i cristiani usano per parlare d’altro”. Ma è da decenni che questo “altro” è rappresentato da ecologismo, promozione della legalità, ecumenismo mediatico, lotta alle narcomafie, protezione della foresta amazzonica e altre amenità. A tutto discapito della dottrina morale, della bioetica, del rigore liturgico e dottrinale. Con il rischio di trovarsi al cospetto di un Cristo senza dottrina e senza verità, un personaggio buono per tutte le stagioni, un contenitore da riempire con quanto desideri ogni consumatore della religione fai da te.

Un simile fenomeno non è giustificabile in nome della cosiddetta pastoralità. Perché non può esistere pastorale che non sia preceduta dalla dottrina, a meno che non se la sia divorata e non sia divenuta dottrina essa stessa finendo per mortificare il robusto rapporto con la ragione e la legge naturale. Per duemila anni la Chiesa ha difeso la vera fede dall’eresia: a spada tratta, con impegno assoluto e a prezzo del sangue. Papi e cardinali, teologi e religiosi sapevano bene come una tesi eterodossa fosse la peggior malattia che potesse minacciare il Corpo Mistico. “La Chiesa e le eresie” dice il magnifico duellante cattolico inventato da Chesterton nel romanzo “La sfera e la croce” “hanno sempre combattuto sulle parole perché sono le uniche cose per le quali valga la pena di battersi”.

Da ciò si ricava quanto sia sorprendente e irrazionale, perché estraneo alla storia della chiesa, che oggi chi solleva domande e obiezioni dottrinali sia tacciato di essere rigido, moralista, eticista, senza bontà. Un’accusa che, a ben guardare, potrebbe essere trasferita su papi del recente passato. Paolo VI, nel 1968, scrive l’enciclica “Humanae vitae” per ribadire la condanna morale della contraccezione: un rigido eticista senza bontà. Giovanni Paolo II redige nel 1995 una summa della bioetica nella “Evangelium Vitae”: ma così facendo dimostra di insistere su tesi dure e difficili, che allontanano invece che avvicinare gli uomini alla chiesa. Benedetto XVI spiega al Bundestag, in un memorabile discorso, che quando le leggi civili contraddicono la legge naturale, non sono più leggi ma solo simulacri cui si deve disobbedienza: un intollerante che chiude la porta della chiesa in faccia allo stato laico e se ne va con la chiave in tasca.

Ma l’artificio dialettico che trasforma quanti vogliono difendere la dottrina cattolica in farisei spietati, privi di un cuore che palpita per il Cristo ferito e crocifisso, è debole. Gesù non invita i farisei ad andarsene perché professano una fede sbagliata, ma a essere i primi a osservare la legge. Mentre qui pare proprio che l’obiettivo finale, oltre il giudizio temerario sull’intimità della coscienza, sia il principio stesso, ritenuto un ostacolo al dialogo col mondo. Invece, fede e ragione, legge e carità possono solo stare insieme o si dissolvono entrambe: nell’irrazionalità di un fideismo luteraneggiante o nel gelo di un razionalismo volterriano, che oggi vanno volentieri a braccetto verso il nulla.

Portato nel perimetro della chiesa, tutto questo produce un cattolicesimo senza dottrina, emotivo, empatico, pneumatico. Si sarebbe tentati di dire alla Enzo Bianchi, se persino lui non fosse stato oscurato dalla stella mediatica di papa Bergoglio. Parafrasando Zygmunt Bauman, ciò segna la nascita di un cattolicesimo liquido, che diguazza nelle zone grigie evocate da Carlo Maria Martini. Una religione che, nell’incapacità di dare risposte, impone con prepotenza dubbi e domande e partorisce un cattolicesimo che “sa di non sapere”, di gusto prearistotelico. Qui dentro si trovano le coordinate dell’incontro con il mondo moderno da cui escono plotoni di cattolici che non credono nel credo perché non lo conoscono, ma accorrono festanti in piazza San Pietro o a Copacabana.

Scriveva il cardinale Ratzinger che la fede in Cristo e il mettersi alla sua sequela dentro una visione morale rigorosa, esigente e seria, sono la stessa cosa: non si oppongono, ma l’una non è possibile senza l’altra e, proprio per questo richiedono rigore, fatica, ascesi.

Al contrario, una volta varato il cattolicesimo liquido, la vita diventa più facile per tutti, dal confessore al penitente: un assessore e un commercialista, un ginecologo e un politico possono discettare di tangenti, di aborto e di tasse concludendo con l’unica consolante morale di non fare i moralisti.

Così, finisce la significanza del cattolicesimo come fatto anche civile, politico, pubblico. Il diritto, che nel Novecento ha galoppato tenuto per le briglie da Hans Kelsen e dal suo positivismo, si affranca definitivamente da qualsiasi influsso razionale del cattolicesimo. Se a Cristo si giunge senza preambula fidei, senza argomentazioni apologetiche, senza le cinque vie di San Tommaso, fra mondo moderno e chiesa l’incomunicabilità è totale. Si dissolve l’idea di regalità sociale di Cristo, che il calendario liturgico riformato si è affrettato a relegare nel dimenticatoio dell’ultima domenica del tempo ordinario, mentre in quello precedente era collocata nel mese dedicato alle missioni. Evapora persino la più modesta prospettiva di uno stato pluralista ma rispettoso della legge naturale, nel quale tutte le religioni sono tollerate, ma uccidere l’innocente non nato o ammalato è delitto per tutti.

Eppure, è questo il panorama evocato quando un papa duetta con la stampa volterriana convenendo che “Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. E poi, richiesto di precisare la sua lezione sull’autonomia della coscienza precisa: “E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”. Ma la coscienza non può essere una guida arbitraria e bizzosa, senza alcun riferimento alla verità. Non si può parlare di verità come relazione invece che come assoluto, quando la legge naturale si fonda proprio su degli assoluti morali, cioè l’esistenza di atti che sono sempre e comunque intrinsecamente malvagi. La verità per il cattolico è Cristo stesso: via, verità, e vita. Vladimir Solov’ev chiude i suoi “Fondamenti spirituali della vita” con un capitolo sull’immagine di Cristo come verifica della coscienza in cui spiega che “Il compito finale della morale individuale e sociale consiste nel fatto che Cristo sia formato in tutti e in tutto. (…) Si può non uccidere mai, non rubare, non infrangere nessuna legge criminale ed essere tuttavia disperatamente lontani dal regno di Dio”.

La coscienza non è uno strumento infallibile, può sbagliare. E quando è erronea, il soggetto agente è normalmente colpevole poiché, di solito, non ha fatto tutto il possibile per formarsi correttamente e riconoscere l’errore. La coscienza erronea diventa argomento di esclusione della colpa del soggetto solo quando l’errore è invincibile: questa condizione può, forse, riguardare un indigeno della Papuasia, ma difficilmente si può riferire a uomini nati cresciuti e vissuti a contatto con la Chiesa, con l’annuncio del Vangelo, con la sua dottrina, come è il caso dell’intervistatore volterriano cresciuto dai gesuiti. Secondo la dottrina cattolica è dovere dei pastori formare le coscienze, insegnando a chiunque la verità tutta intera. Se invece la nascondono per “giustificare con l’ignoranza” il singolo che pecca, si assumono una grave responsabilità: lo spiegava con forza lo “specialista del Logos” Joseph Ratzinger in un libro del 1997, “Cielo e Terra”.

Per quanto siano estemporanee le omelie di papa Francesco, si sbaglierebbe a non riconoscere una coerenza del pensiero che esprimono. C’è un solido legame tra l’esaltazione della coscienza, l’enfasi su un cristianesimo a scarso tasso dottrinale e quanto dice sulla preghiera. “La chiave che apre la porta alla fede è la preghiera” ha spiegato nell’omelia dedicata ai cristiani ideologici. “Quando un cristiano non prega, succede questo. E la sua testimonianza è una testimonianza superba… è un superbo, è un orgoglioso, è un sicuro di se stesso. Non è umile. Cerca la propria promozione… Quando un cristiano prega, non si allontana dalla fede, parla con Gesù… Dico pregare, non dico dire preghiere, perché questi dottori della legge dicevano tante preghiere… Una cosa è pregare e un’altra cosa è dire preghiere… Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù”.

Una fede ipodottrinale, risolta in un semplice incontro, finisce per vedere nell’aspetto formale della chiesa un ostacolo al proprio manifestarsi. E sarebbe difficile dimostrare che papa Bergoglio, fin dalla sera della sua elezione, non abbia mostrato con le parole e i fatti la sua avversione alla forma e alla formalità. Da qui scende la contrapposizione tra il “dire preghiere” e il “pregare”, che è ben più di un calembour perché mette in discussione l’armonia tra lex orandi e lex credendi. “Dire preghiere” è sempre stato un pregare con la chiesa, tanto per la vecchina con il rosario in mano, quanto per il cardinale Newmann o un monaco di clausura. Ognuno per la sua parte e la sua competenza, ma tutti insieme, membri dello stesso Corpo Mistico, come in coro, senza sapere l’uno dell’altro ma sicuri di essere lì insieme, nello stesso momento, a pregare nello stesso modo come vuole la lex orandi e a confessare la stessa fede, come vuole la lex credendi.

Ma serve disciplina, serve l’ascesi che l’attuale pontefice salta a pie’ pari volgendosi subito alla mistica. “Colui che smette di pregare con regolarità” scrive il cardinale Newman in un sermone sulla preghiera del 1829 “perde il mezzo principale per ricordarsi che la vita spirituale è obbedienza al Legislatore, non un semplice sentimento o gusto”. E poi ancora, nel 1835, dice che chi “desidera portare nel suo cuore la presenza di Cristo deve solo ‘lodare Dio’ e far sì che le parole del santo salterio di Davide le siano familiari, un servizio quotidiano, sempre ripetute e tuttavia sempre nuove e sempre sacre. Preghi e soprattutto permetta l’intercessione. Non dubiti del fatto che la forza della fede e della preghiera agisce su tutte le cose con Dio”.

Suona impietoso il giudizio di chi disprezza il “dire preghiere” senza immaginare che, in fondo a quelle formule di cui nessuno può mutare uno iota, c’è chi vede le piaghe di Cristo e magari arriva a toccarle e baciarle. In quelle parole considerate pietre d’inciampo a una fede autentica, è invece racchiusa una sapienza che apre al senso più profondo degli attimi terribili che ogni creatura dovrà vivere fin sulla soglia dell’ultimo respiro. Sono ritmi celesti che incantano l’anima e la strappano al mondo e la nutrono con quell’anticipo di vita soprannaturale che è la cerimonia. “Penso di poter parlare a nome di molti altri convertiti” scriveva Chesterton “quando dico che l’unica cosa che può suscitare in qualche modo nostalgia o rimpianto romantico, un vago sentore di mancanza per la propria casa in uno che la casa l’ha trovata veramente, è il ritmo della prosa di Cranmer”. Il “Libro delle Preghiere comuni” anglicano del XVI secolo aveva ancora una musicalità tale da essere una sirena. “La ragione” continuava il convertito inglese “può essere riportata in una frase: ha stile, tradizione, religiosità; venne redatto da cattolici rinnegati. E’ efficace, ma non in quanto primo libro protestante, bensì in quanto ultimo libro cattolico”.

I cattolici della Cornovaglia e del Devon si fecero massacrare, pur di non accettare il “Book of Common prayer”. Mette i brividi il solo pensare come li possa giudicare il pensiero dominante della chiesa di oggi, dove viene celebrata la messa su un messale che somiglia da vicino a quello di Cranmer. Forse “cultori di format ideologici in versione cristiana”, come quei bigotti mendicanti di tradizione ridotti a clandestini dal cattolicesimo della tenerezza, come i sans papiers de l’Église.
(fonte: il Foglio, 22.10.2013)

lunedì 21 ottobre 2013

L'importanza di credere la verità rivelata e di pregare "dicendo preghiere". Un'omelia attuale di Padre Serafino Lanzetta FI

Riportiamo di seguito una recente omelia (domenica 20 ottobre) di Padre Serafino Lanzetta FI che chiarisce come, per trovare ascolto presso la Santissima Trinità, sia fondamentale pregare secondo le forme tradizionali della Chiesa. "Pregare" senza "dire preghiere" appare essere una delle più gravi tentazioni del soggettivismo moderno condannato dalla Chiesa. Le formule di preghiera costringono invece la nostra fede. Fede, credo, preghiera formano un'unità.

Il Signore nel Vangelo secondo Luca (18,1-8) di questa domenica  ci pone una domanda che ci sorprende: è un monito e anche un enigma: «Quando il Figlio dell’uomo verrà troverà la fede sulla terra?». Perché il Signore lo chiede a noi? Forse lui non lo sa? E’ una domanda che particolarmente oggi ci interroga profondamente: abbiamo la fede e potremo conservarla?  Le insidie soggettiviste del momento attuale sono una minaccia alla fede. Sembra che credere in Dio fermamente e senza dubbi non sia più possibile. Data la nostra debolezza, Dio dovrebbe rassegnarsi ad un uomo ammalato e incapace, e così dovrebbe salvarlo con i suoi dubbi, con il suo ateismo di fondo.  Questa è la minaccia del relativismo che pretende di trasformare dal di dentro la fede; la minaccia dell’uomo che pretende di adattare Dio alle sue debolezze e non vuole più aprire il cuore e la ragione al mistero infinito e all’amore di Dio.  L’uomo rassegnato, che dice di non poter credere, è in verità un uomo che vuole fare Dio a sua immagine. Come fare per credere e credere nella verità? Dobbiamo pregare, pregare senza mai stancarci.  La preghiera però esige le formule di preghiera, le preghiere basilari (Pater, Ave Maria, Angelus, S. Rosario, ecc.), coma la professione della fede esige le formule della fede, il Simbolo. Come non è possibile credere ignorando o cambiando le formule dogmatiche, quantunque strumentali all'atto di fede, così non è possibile pregare rettamente trascurando le preghiere e pensando di ridurre tutto al "cuore" o di poter pregare in modo sufficiente con una sola preghiera "fatta bene", come si suol dire. Tanti cattolici diventano sempre più buddisti: pregano se stessi, contemplano se stessi. Credo per pregare e prego per credere fermamente fino alla fine. Fino alla venuta del Figlio dell'uomo. 


AUDIO: http://chiesaognissanti.it/Chiesa_Ognissanti/multimedia/Voci/2013/10/20_Credo_per_pregare_e_prego_per_credere.html

sabato 19 ottobre 2013

Il nominalismo del Vescovo di Roma e la tragedia della fede

Uno dei passaggi più difficoltosi dell'intervista rilasciata da papa Francesco a Eugenio Scalfari e apparsa su la Repubblica il primo di ottobre riguarda l'affermazione della autonomia della coscienza:

Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?

«Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene».

Lei, Santità, l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa.

«E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo».


Queste affermazioni la cui mera enunciazione sembra contraddire il magistero precedente dei Sommi Pontefici, trovano il loro sistema nell'omelia di Santa Marta del 17 ottobre. In essa si sottolineano due aspetti:

- La contrapposizione di un cristianesimo infecondo dei dogmi e dei precetti(liquidato come "ideologia") a un cristianesimo autentico della sequela di Cristo:

“La fede passa, per così dire, per un alambicco e diventa ideologia. E l’ideologia non convoca. Nelle ideologie non c’è Gesù: la sua tenerezza, amore, mitezza. E le ideologie sono rigide, sempre. Di ogni segno: rigide. E quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero, di questo... E per questo Gesù dice loro: ‘Voi avete portato via la chiave della conoscenza’. La conoscenza di Gesù è trasformata in una conoscenza ideologica e anche moralistica, perché questi chiudevano la porta con tante prescrizioni”.
- La conseguente contrapposizione tra chi "dice le preghiere" e chi "prega":

“La chiave che apre la porta alla fede è la preghiera ... Quando un cristiano non prega, succede questo. E la sua testimonianza è una testimonianza superba ... è un superbo, è un orgoglioso, è un sicuro di se stesso. Non è umile. Cerca la propria promozione... quando un cristiano prega, non si allontana dalla fede, parla con Gesù ... dico pregare, non dico dire preghiere, perché questi dottori della legge dicevano tante preghiere” ... Una cosa è pregare e un’altra cosa è dire preghiere... Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù. E quando un profeta o un buon cristiano li rimprovera, fanno lo stesso che hanno fatto con Gesù: ‘Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile – questi ideologici sono ostili – e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie – sono insidiosi – per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca’. Non sono trasparenti. Eh, poverini, sono gente sporcata dalla superbia. Chiediamo al Signore la grazia, primo: non smettere di pregare, per non perdere la fede, rimanere umili. E così non diventeremo chiusi, che chiudono la strada al Signore”.


Il primo aspetto ribadisce la posizione antimetafisica di Bergoglio: non sono le oggettivazioni del Credo a costituire oggetto della fede, anzi esse sono "ideologia" proprio perchè oscurano la vera esperienza di Cristo da parte del soggetto. Tra l'uomo e la fede viene meno l'intelletto e della fede non si può dire "quaerens intellectum". Gli oggetti della fede non sono più che nomina.

Il secondo aspetto sembra legarsi strettamente al primo. Se la fede è esperienza di Cristo - debellatrice dei dogmi sulla fede e sull'ordine morale -, la preghiera deve differenziarsi radicalmente dal "dire preghiere". "Dire preghiere" è infatti osservanza delle forme di preghiera in maniera tale che la lex orandi sia costantemente in armonia con la lex credendi della Chiesa cattolica e che la preghiera della Chiesa, che è Corpo Mistico di Nostro Signore Gesù Cristo, sia la preghiera di ognuno. Pregare, come credere, diventa per Bergoglio un'inconoscibile sequela di Cristo, mentre il deposito della fede un ostacolo: un'ideologia.

Il ribaltamento di prospettiva è evidente. Orgoglioso è chi crede gli oggetti della fede e chi "dice preghiere" con la Chiesa, mentre umile è chi si impegna rimuovere il deposito della fede e così "apre la Chiesa" e prega informalmente. In altri termini umile, cristiano, cattolico (e l'universalità? la romanità? l'apostolicità?) è colui che crede e prega senza la Chiesa.

In particolare il ricorso polemico da parte di Bergoglio alle ammonizioni di Gesù Cristo ai farisei non sembra condivisibile, giacchè Cristo non chiedeva ai farisei di fondare una chiesa extra ecclesiam, ma una perfetta coerenza con i precetti (pienamente conoscibili, tramandati e tramandabili!) della Chiesa (ancora il vecchio Israele). Certamente Nostro Signore Gesù Cristo non fondò una Chiesa (il nuovo Israele) informale, liberale e antiliturgica.

È evidente che una fede nominalista e una preghiera informale sono le vesti calzanti di una coscienza autonoma. È la coscienza che crede e prega secondo la propria esperienza del "Cristo" e, secondo le stesse parole del Vescovo di Roma, noi dobbiamo incitare il soggetto della coscienza autonoma "a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene". Che si tratti qui dello stesso "Cristo" che disse a Pietro "Pietro tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa" (Mt 16, 16), è lecito e doveroso dubitare.

Se questa fede nominalista e questa preghiera informale costituiscono il programma del Vescovo di Roma, sono da aspettarsi conseguenza catastrofiche per la fede e per la liturgia. I presagi di ciò non sono sino ad oggi mancati.

giovedì 17 ottobre 2013

Pape François : où sont les caméras ?

Pubblichiamo un billet di Jean-Yves Le Gallou apparso sul blog francese Boulevard Voltaire il 9 ottobre. Questo breve scritto ben si inserisce nella riflessione sul pontificato di papa Francesco iniziata in Italia in seguito agli articoli di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. Le Gallou si chiede, cogliendo perfettamente il senso stesso dell'attuale crisi, quale sarà il "prezzo teologico e morale" che si dovrà pagare per il favore dei media che Francesco non cessa di compiacere. In fondo il modernismo è accondiscendenza al mondo, rovina dei dogmi e delle forme liturgiche. La ripetuta demonizzazione di Benedetto XVI ogni volta che tentò di restaurare il dogma cattolico, ne è la prova a contrario.

Les catholiques doivent-ils s’en réjouir ou s’en inquiéter ? Les médias dominants ne tarissent pas d’éloges sur le nouveau pape. Le Monde du 6/7 octobre fait sa une sur son « état de grâce ». Le Monde du 8 octobre salue le « grand communiquant » qui fait sa « perestroïka » (bigre !). Il se réjouit de sa visite spectaculaire à Lampedusa, de sa dénonciation de « la mondialisation de l’indifférence » et de son questionnement « qui suis-je pour juger un homosexuel ? ».

Le journal des Pigasse, Niel et autres Bergé ne nous avait pas habitués à un tel déluge de félicitations !

A contrario, le discours de Ratisbonne du lumineux Benoît XVI, son voyage africain où il rappela les règles morales de l’Église catholique et son ouverture à la tradition lui avaient valu une série de campagnes de diabolisation.

Avant même d’entrer en conclave, le cardinal Ratzinger avait été désigné par les médias dominants comme un danger. A contrario, à peine élu, le pape François bénéficia d’un grand soutien médiatique.

Reste à savoir s’il vaut mieux parler aux foules ou s’adresser au cœur et à la raison des fidèles ? Et quel prix théologique ou moral faut-il accepter de payer pour plaire aux médias ? Que penser d’une certaine forme d’humilité ostentatoire consistant à se faire filmer en portant ses bagages ? Et peut-on porter la charité en bandoulière alors que le catéchisme pour les enfants enseigne qu’elle doit se faire dans la discrétion ? Quant aux peuples européens, soumis à la pression permanente de la culpabilisation et de la repentance, est-il bien juste et bien honnête de leur rajouter le fardeau des noyés de Lampedusa, d’abord victimes de l’incurie africaine ? Au risque de devenir un personnage du Camp des Saints de Jean Raspail.

N’est-ce pas cela, se soumettre à la tyrannie médiatique ?

À tout prendre, y a-t-il beaucoup de différences entre Manuel Valls et François ? Entre le ministre franc-maçon et le pape jésuite ? L’un et l’autre ont fait des médias leur champ de présence principale. L’un et l’autre sont de notre temps. L’un et l’autre sont des médiagogues, des hommes qui cherchent à plaire aux médias. « Où sont les caméras ? » est-il un slogan suffisant pour gouverner l’Église ou prétendre devenir président de la République ?

martedì 15 ottobre 2013

La morte di Priebke, i filistei del Vicariato e la pietà della FSSPX

L'ex ufficiale tedesaco Erich Priebke è morto nel suo centesimo anno di vita dopo essere stato condannato per la strage delle Fosse Ardeatine ed avere scontato anni di arresti domiciliari. Anche se Priebke affermò sempre di avere osservato i comandi dei suoi superiori, a nessuno sfugge l'ingiustizia della soppressione di vite innocenti. Gli argomenti della difesa durante il processo non gli servirono a sottrarsi alla giustizia degli uomini e tantomeno dovettero liberarlo dal grave peso della colpa. Si presentò e si presenta alla Chiesa da peccatore. Il Vicariato di Roma gli ha negato le esequie che la Fraternità Sacerdotale San Pio X, certamente non per amor di pubblicità, ha accettato di celebrare. Non c'erano alternative: non si rifiutano sacramenti e sacramentali senza fondati motivi. Resistere ai diritti di Dio, anche se questi riguardano le spoglie mortali di chi diede esecuzione al comando di un orribile tiranno, è vezzo da filistei, è il segno di una Chiesa che vuole sempre più piacere al mondo e predica una misericordia che, in fondo, non è che accondiscendenza alle isterie dell'ora presente.

Pubblichiamo qui di seguito il comunicato stampa della FSSPX:

La Fraternità San Pio X ha ricevuto in queste ore la richiesta da parte dei familiari del signor Erich Priebke di poter celebrare le esequie del controverso ex ufficiale tedesco già condannato dalla giustizia italiana per l’atroce eccidio delle Fosse Ardeatine.

Un cristiano che è stato battezzato e che ha ricevuto i sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, qualunque siano stati le sue colpe ed i suoi peccati, nella misura in cui muore riconciliato con Dio e con la Chiesa ha diritto alla celebrazione della S. Messa e alle esequie.

  Con la presente ribadiamo il nostro rifiuto di ogni forma di antisemitismo e di odio razziale ma anche dell’odio sotto tutte le sue forme.  La religione cattolica è quella della misericordia e del perdono.

Questo funerale si sarebbe dovuto svolgere in forma privata, senza alcuna enfasi o strumentalizzazione mediatica.

Nell’augurare un buon lavoro a tutti i signori giornalisti restiamo convinti della necessità di non scambiare un atto di pietà cristiana con un gesto ideologico, la pietà e la misericordia non possono essere intermittenti, ma devono guidare sempre la Chiesa di Cristo.

Con la presente smentiamo risolutamente qualunque altra presunta dichiarazione di membri della Fraternità raccolte in queste ore dai giornali.

Il Distretto d’Italia della Fraternità San Pio X

venerdì 11 ottobre 2013

Comunicato di Gnocchi e Palmaro esautorati da Radio Maria

Dopo l’articolo sul Papa, Gnocchi e Palmaro esautorati da Radio Maria

Dopo l’articolo “Questo Papa non ci piace”, firmato mercoledì 9 ottobre sul “Foglio”, siamo stati esautorati dalla conduzione delle trasmissioni che abbiamo condotto per dieci anni su Radio Maria, “Incontri con la bioetica (Palmaro) e “Uomini e letteratura: incontri alla luce del Vangelo” (Gnocchi). Ci è stato comunicato con un garbatissima telefonata del direttore padre Livio Fanzaga, nei confronti del quale non muta la nostra amicizia. Ma questo non cambia la sostanza dei fatti. Padre Livio ritiene che non si possa essere conduttori di Radio Maria e, contemporaneamente, esprimere critiche sul Papa. Pur non condividendo questa linea editoriale, ne prendiamo atto rimarcando comunque che le nostre critiche a Papa Francesco non contengono una sola riga che non si attenga alla dottrina cattolica e non sono state espresse dai microfoni della Radio. L’atto compiuto nei nostri confronti risulta dunque abbastanza raro nell’uso giornalistico sia nella sostanza sia nel metodo colpendo delle opinioni, discutibili certo ma legittime, espresse su un’altra testata. Con questo non possiamo però tacere che, per dieci anni, abbiamo avuto la possibilità di trattare a Radio Maria in assoluta libertà temi molto scottanti per merito del suo direttore. Ed è proprio ciò che rende più amaro questo epilogo, di cui vogliamo dare così notizia anche agli ascoltatori delle nostre trasmissioni.

  Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

mercoledì 9 ottobre 2013

Gnocchi e Palmaro: " Questo Papa non ci piace" (il Foglio 9. 10. 2013)



Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto. Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa volta, il papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire che, adesso sì, la Chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani si vedrà.

Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a “Civiltà Cattolica”.

Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato. E’ tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il papa, il quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai predecessori.

Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità” chiede per esempio Scalfari nella sua intervista “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi” risponde il papa “ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità” incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto” ribadisce il papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

A Vaticano II già conclus o e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che  “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il Bergoglio 2013 con il Woityla 1993.

Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la Chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che pensa l’”Osservatore Romano”, tira in ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della Chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un papa dice in un’intervista “Io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la Chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione “Unigenitus Dei Filius” in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel “Sillabo” un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega alla “Pascendi dominici gregis” 65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al “Denzinger” non farebbe male.

Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro fatto dalla Chiesa convertire le anime al cattolicesimo.

Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto nell’intervista alla “Civiltà Cattolica”. “Il Vaticano II” spiega il papa “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini.

Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una nuova Chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a “Civiltà Cattolica” dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito” dice sempre il papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a sottolineare l’inabilità della Chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante se si pensa che la Chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema che non c’era, ma per averlo inventato.

L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la Chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che la mia Chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita personale”.

Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile questo viene fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea. Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata Mondiale della Gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro interpretazione.

Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi”. L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.

Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per il tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.

Da questo punto di vista, sembra che papa Francesco sia stato fatto per i massmedia e che i massmedia siano stati fatti per papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il papa, il nuovo papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno si possa immaginare.

L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al papato.

Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo consiste nell’identificare la persona del papa con il papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto dice il papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.

Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il papa porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani chissà.

E’ l’esito della saggezza del mondo, che San Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole facsimile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.

Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo Vicario.

Alessandro Gnocchi - Mario Palmaro [Fonte: Il Foglio 9 ottobre 2013]

Oggi su il Foglio Gnocchi e Palmaro: "Questo Papa non ci piace"



Si tratta probabilmente della risposta più coerente alle interviste e alla lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari. I due autori "espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico", come si legge in calce all'articolo, fanno emergere i contenuti più imbarazzanti del pensiero bergogliano sottolineandone la discontinuità dottrinale. Così le ormai note affermazioni sull'"autonomia della coscienza" appaiono antinomiche anche rispetto alla Veritatis splendor di Giovanni Paolo II dove si sosteneva che da parte di "alcune correnti del pensiero moderno ... si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male ... tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale".
Complementare all'affermazione della autonomia della coscienza è, nell'analisi di Gnocchi e Palmaro, una versione della pastoralità che già risuonava nelle pagine martiniane: "Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale,ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient'altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini".
Nè servirebbe obiettare, per disinnescare pericolose ricadute dottrinali, che le strane affermazioni di Bergoglio non hanno forma magisteriale (lo stesso p. Lombardi s.j., portavoce della Santa Sede, si è affrettato a dichiarare che l'intervista rilasciata dal novello "papa buono" non costituisce un documento magisteriale vedi: http://vigiliaealexandrinae.blogspot.it/2013/10/la-coscienza-di-scalfari-e-una-curiosa.htm), giacché la massmediatizzazione di papa Francesco e delle sue dichiarazioni ha eliminato agli occhi del pubblico mondiale ogni distinzione tra autorità e opinione personale, tra Bergoglio e Francesco. "In realtà si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire".

martedì 8 ottobre 2013

Il rito di Friburgo per i divorziati risposati



Una pagina recente del sito della Diocesi di Friburgo in Germania (http://www.katholische-kirche-freiburg.de/Seelsorge---Pfarreien/Hochzeit---Ehe/Geschieden-wiederverheiratet/) contiene le seguenti indicazioni per i divorziati risposati:
Se vivete separati oppure siete divorziati dal vostro partner o dalla vostra partner e per voi la fede e la Chiesa sono importanti, volentieri ci mettiamo a vostra disposizione, di voi che vi trovate in questa situazione, per ascoltarvi, per continuare ad aiutarvi in questo incontro o per indicarvi ulteriori offerte di aiuto e luoghi di consultazione.
Se vi siete risposati o volete risposarvi ed è per voi importante portare di fronte a Dio questo nuovo rapporto vi offriamo la possibilità di cercare, attraverso un colloquio, la possibilità di trovare per voi la forma di celebrazione liturgica adeguata.
Questa celebrazione liturgica dovrebbe servire a riporre la vostra vita con tutti gli alti e bassi nelle mani di Dio e a prendere sul serio la vostra decisione. La celebrazione si distingue da un matrimonio sacramentale.

Da quanto riportato dalla stampa tedesca un documento della Diocesi consentirebbe ai divorziati risposati o con l'intenzione di risposarsi anche l'accesso ai sacramenti della confessione, della comunione, della cresima e della estrema unzione. Anche se si precisa che la celebrazione della liturgia "matrimoniale" non ha la validità di un sacramento, si deduce da questo contesto che per la Diocesi di Friburgo e per l'Arcivescovo dimissionario, il Cardinal Zollitsch, la condizione di concubino del divorziato risposato cessa di essere uno stato di peccato mortale. La Diocesi offre infatti la possibilità di "portare dinnanzi a Dio questo nuovo rapporto". È da notarsi inoltre che autorizzando l'accesso alla confessione si chiede di non confessare o di confessare senza il necessario pentimento il concubinato che per la Chiesa continua a essere peccato grave. Con quale risultato per la salvezza delle anime?

Una considerazione non meno importante. Il documento friburghese scopre gli esiti della riforma liturgica e dell'ideologia della pastoralità che ne è il motore sin dai tempi di Bugnini. La liturgia viene qui infatti adattata ad ogni esigenza sociale al punto di inventarsi surrogati del matrimonio sacramentale e di pensare di potere poi individuare "la forma liturgica adeguata" attraverso un "colloquio" con gli interessati. La benedizione delle coppie omosessuali è a portata di mano.

La Diocesi di Friburgo è una delle più importanti province ecclesiastiche tedesche e le decisioni che vi sono prese finiscono per condizionare la chiesa tedesca nel suo complesso ossia un episcopato che si è dimostrato in molti casi ostile al Motu Proprio Summorum Pontificum e apertamente avverso a ogni ipotesi di inquadramento canonico della FSSPX.