"I Padri alessandrini, di cui si dice che grande fosse il debito verso la scienza pagana, non mostrarono certo né gratitudine né riverenza per i loro presunti maestri, ma sostennero la supremazia della tradizione cattolica" (John Henry Newman)
Commentari cattolici nel tempo della crisi della Chiesa
mercoledì 6 novembre 2013
Epater le bourgeois catholique
Riportiamo qui di seguito l'eccellente articolo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro apparso oggi su il Foglio:
Prima che la traduzione in lingua volgare ne diluisse il fervore in una insipida contiguità mondana, verso la fine delle Litanie dei santi si recitava l’invocazione “Ut domnum Apostolicum et omnes ecclesiasticos ordines in sancta religione conservare digneris: Te rogamus, audi nos”. In un latino affilato e inequivocabile, i vecchi cattolici chiedevano al Signore di conservare il papa e la gerarchia tutta nella santa religione e nella retta dottrina. Non uno di quei candidi baciapile sospettava di essere irrispettoso nei confronti del Bianco Padre, della sua corte e poi giù fino all’ultimo dei diaconi e dei suddiaconi sparsi per l’Orbe cattolico. Eppure confidavano al buon Dio il timore che persino il Sommo pontefice potesse mettere il piede in fallo in occasioni ben più gravi che un’omelia a Santa Marta o un’intervista vuoi alla stampa cattolica, vuoi a quella volterriana. Secoli di buona dottrina fatta, solo per far dei nomi, di Atanasio, Tommaso, Caetano, Suarez, Bellarmino, Gueranger, Billot, avevano depositato nella loro fede l’idea che il papa è fallibile, ragion per cui non avrebbero trovato nulla di scandaloso se qualcuno si fosse preso la briga di denunciare eventuali falli. Per parte loro, si sarebbero sentiti in colpa per non aver messo tutto il fervore che richiedeva la gravità di quella particolare invocazione delle Litanie.
Qualche decennio e un Concilio dopo, un cattolicesimo che si presenta sulla scena forte del disincanto sortito dall’abbraccio col mondo incespica là dove i suoi vecchi non avrebbero incontrato alcun inciampo. Bastano un titolo e un articolo di giornale per gridare allo scandalo.
Ritrosi come figlie di Maria senza averne il verecondo incanto, i pronipoti dei paolotti del bel tempo andato vorrebbero che i media si occupassero delle loro questioni ma senza urtarne le coscienzucce. Tanto più se la quiete viene turbata da gente di casa. Passino le provocazioni del mondo, di cui anzi sono ghiotti: da decenni le stanno rincorrendo nell’inutile tentativo di superare un fastidioso complesso di inferiorità. Ma guai se qualcuno in famiglia ha da dire sull’argenteria esibita in favore di telecamera.
Certi temi, anche se si finge di esecrare i toni, finiscono fatalmente per épater le bourgeois catholique, che è quasi sempre mondano e di sinistra anche quando pensa di essere tutt’altro. Gli si può toccare ogni certezza, ma non il superdogma della pacificazione tra Cristo e il mondo, per il quale contempla solo adesione o anatema. Ciò che lo affascina tanto in papa Francesco è l’abbraccio accogliente allo spirito mondano. Vi legge una rassicurante, unilaterale dichiarazione di pace che, una volta per tutte, possa spazzare via quei tremendi e poco borghesi concetti di lotta e di martirio.
Ma l’intimità del vivere cristiano è consustanziale alla disposizione a versare il sangue, ed è esattamente il suo venir meno che ha inquietato tante anime sante. Nel 1974, a proposito della deriva seguita al Vaticano II, don Divo Barsotti annotava nel suo diario che l’ambiguità della “Gaudium et spes” si manifestava nella rinuncia a risolvere nel martirio il rapporto tra chiesa e mondo.
Agli inizi del Novecento, Robert Hugh Benson, che avrebbe narrato nel “Padrone del mondo” la figurazione dell’anticristo, confidava di aver chiaramente percepito in una visione “una grande figura mistica distesa nel mondo. La testa, coronata di spine, riposa a Roma. Il corpo è ferito, mutilato, spogliato delle sue brillanti vesti, ma vivo, steso per terra. Le braccia e i piedi si spingono attraverso i mari e i continenti, le dita delicate cercano anime fino in Cina, il cuore palpitante comunica un sangue comune di preghiera e di fede a tutte le nazioni (…). Quest’essere immenso è vecchio di diciannove secoli. Le membra che da mille anni s’agitano nella febbre giacciono calme sotto il controllo d’un cervello infallibile. E il mondo, che prende gusto a torturarle, si stupisce della loro vitalità”.
Solo il cristiano che accetti il conflitto con lo spirito mondano può permettersi di essere misericordioso. Amare davvero il mondo, desiderare la sua salvezza, diceva Gilbert Keith Chesterton, equivale a combatterlo: “Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore, ma lussuria”. Dove si rinuncia all’alterità urticante della verità e della ragione, non c’è più misericordia: rimane l’esibizione e il compiacimento della propria bontà, roba poveretta buona per il palcoscenico mondano.
Avere intimamente a cuore il papa significa difenderlo dal mondo. Dall’aggressione maramaldesca e infingarda subita da Benedetto XVI e, più ancora, dall’abbraccio sinuoso e ammaliante che Francesco sembra ricambiare senza remore. Ma questi due approcci non sono gli estremi di una stessa questione poiché tra l’uno e l’altro non vi è continuità. Mentre papa Ratzinger si è fatto nemico il mondo ribadendo il rigore della ragione l’intangibilità della norma liturgica, il suo successore ne ha conquistato il consenso palesando la desistenza dell’una e dell’altra.
Pare quasi che negli atti di Francesco vi sia una sorta di catechesi della desistenza, come è avvenuto lo scorso 2 novembre nelle Grotte Vaticane, davanti alle telecamere dei tg. Volgendosi a un piccolo chierichetto che teneva le mani giunte in atteggiamento orante, il papa gliele ha aperte chiedendogli se gli si fossero incollate. Ma il bambino, evidentemente abituato a “dire le preghiere” ed educato alla lode del Signore e all’adorazione le ha prontamente offerte a maggior gloria di Dio ricongiungendole così come gli è stato insegnato.
Non potrebbe catechizzare diversamente un papa che sembra puntare tutta la sua forza persuasiva sul discorso e sul sermone derubricandolo sempre più a chiacchierata mondana. Una sorta di narrazione feriale che porta qualche gradino più in basso anche il minimo gesto rituale. Se vi sono conversioni dovute alla sapienza di certe prediche, ve ne sono tante altre, più radicali e più durature, sortite dalla scintilla di un gesto liturgico perfetto, da un inchino tra due monaci, dal genuflettersi del sacerdote davanti all’Ostia consacrata, dal giungere le mani di un bambino.
Mette i brividi pensare che, con l’ultimo ricomponimento di due piccole mani oranti, potrebbe sparire dalla terra l’ultimo gesto degno di venerazione. Ma, ora che la chiesa è divenuta un ospedale campo, questa prospettiva sembra non inquietare quasi nessuno. La carità e la misericordia paiono affari mondani di chi, non rubricando e non cantando, non ha tempo da perdere con la liturgia. Eppure, fino a non troppo tempo fa, la chiesa era popolata di preti che sapevano carezzare con la misericordia perché sapevano sciabolare di dottrina e rigore liturgico. Li si trovava quasi sempre davanti all’altare a dire le preghiere, a recitare il breviario o salmodiare il rosario. Stavano lì, pronti a farsi carico di quanto avesse nel cuore anche l’ultimo dei barabba. La narrativa cattolica, che allora aveva ancora il senso del peccato e quindi sapeva raccontare storie esemplari, ne ha tratto splendide figure letterarie. Il don Camillo di Giovannino Guareschi è una di queste, forse la più famosa, certo la più didascalica nell’interpretare il sodalizio tutto cristiano tra inflessibilità e misericordia.
Questo parroco dalla dottrina ferma e dall’approccio ruvido, quando il sindaco comunista Peppone entra di nascosto in chiesa e offre cinque candele per chiedere la guarigione del figlio che sta morendo, non esita a inginocchiarsi davanti alla Vergine per compiere il rito di mediazione tra terra e cielo. E poi, in riparazione del torto compiuto da Peppone ai danni del Crocifisso, esce di corsa per tornare con altre cinque candele: “’Ve l’avevo detto?’ gridò sciorinando un pacco davanti alla balaustra. ‘Mi ha portato cinque candele da accendere anche a voi! Cosa ne dite? (…) Si direbbe persino che mandino più luce delle altre’. E veramente mandavano più luce delle altre perché erano cinque candele che don Camillo era corso a comprare in paese facendo venir giù dal letto il droghiere e dando soltanto un acconto perché don Camillo era povero in canna. E tutto questo il Cristo lo sapeva benissimo e non disse niente, ma una lacrima scivolò giù dai suoi occhi e rigò di un filo d’argento il legno nero della croce. E questo voleva dire il bambino di Peppone era salvo. E così fu”.
Un saggio di pura, affilata, soprannaturale carità, dove non c’è la minima concessione alla tenerezza poiché il narratore ha sapientemente tolto di scena il possibile oggetto di un sentimento così umano: Peppone è scomparso nella notte e, nel silenzio della chiesa, a esaltare il sacerdozio di don Camillo non vi è altro testimone che il Cristo crocifisso. E’ questo cristianissimo sottrarsi al mondo e ai suoi testimoni che induce il Signore dell’universo a donare quella lacrima che riga il legno nero della croce. Specchio di una ineludibile lotta tra la gravità del mondo e la levità della Grazia, quel filo d’argento si manifesta per mostrare quanta efficacia abbia nella vita quotidiana il rito.
Per uno di quei celesti paradossi che ne testimoniano l’origine divina, la religione cattolica ha sempre insegnato che, per attrarre il mondo bisogna ritrarsene. Per questo la sua lex credendi, il suo credo, ha sempre trovato corrispondenza ed efficacia nella lex orandi, la sua liturgia. E per questo ha sempre saputo parlare agli uomini di ogni tempo, che sono creature razionali e, quindi, liturgiche. Nella vita della chiesa, generazioni di sacerdoti hanno conteso al mondo le pecore del loro gregge, risonando di buona dottrina e profumando di nardo e incenso. Lo hanno fatto i preti delle parrocchie più sperdute ogni volta che, rivestendosi con camici, pianete, stole e piviali, divenivano presso gli uomini ragionevoli messaggeri di un altro mondo. Lo hanno fatto i vescovi che, con le loro cerimonie, erigevano ponti tra l’umano e il divino. Lo ha fatto il papa che, nel corso dei secoli, ha persino umiliato il suo corpo dentro un cerimoniale che anticipava la liturgia celeste.
A fronte di tutto questo, il minimalismo rituale inaugurato da papa Francesco può difficilmente essere visto come qualcosa di diverso da una decostruzione. L’identificazione tra la persona di Jorge Mario Brgoglio e il ruolo del pontefice, che grazie a i media si fa sempre più perfetta, sta finendo di smontare la tradizionale immagine del papa. I media, inabili a comprendere l’istituzione divina, sono voraci della fisicità del pontefice. Non sanno che farsene della medievaleggiante e impersonale “persona papae”, della “persona del papa”, preferiscono cibarsi di una postmoderna corporeità priva di simboli che rimandino a un mondo ulteriore.
Quella gran macchina istituzionale e rituale che è la “persona papae”, oggi additata da un malinteso senso dell’umiltà come inutile sovrastruttura superata dai tempi, nasce da una vera e propria sottomissione della persona fisica all’istituzione. “Nessun altro sovrano medievale e moderno” scrive Agostino Paravicini Bagliani in un saggio sul “Potere del Papa” “è stato sottomesso ad una così complessa e continua creatività retorica e rituale di caducità, destinata a ricordare al pontefice romano che la potestas che gli è stata affidata cessa con la sua morte. E per nessun altro sovrano medievale e moderno fu messa in opera un’ecclesiologia, una ritualità e una inventività simbolica avente l’obbiettivo di costruire una ‘supra-persona’, ossia la ‘persona papae’”.
A partire da Pier Damiani con la sua lettera “De brevitate vitae pontificum Romanorum” per arrivare fino a Egidio Romano, teologo di Bonifacio VIII, i medievali hanno messo a punto un sapiente dispositivo di autoumiliazione che, ricoprendolo di abiti, di simboli e di riti, annullava l’uomo fisico eletto al soglio di Pietro per erigere la “persona del papa”. A nessun altro cristiano era chiesto un simile sacrificio e anche cerimoniali come quello delle ceneri avevano elementi di ulteriore umiliazione nei confronti del pontefice romano. Ma era proprio attraverso il massimo dell’umiliazione della persona fisica che poteva risplendere la figura del Vicario di Cristo. Nel 1178, il cardinale Bosone, narrando il ritorno trionfale di papa Alessandro III a Roma dopo la vittoria sull’imperatore Federico Barbarossa, scriveva “Allora tutti guardarono il suo volto come il volto di Cristo di cui egli fa le veci in terra”.
Lo splendore rituale e istituzionale di questa macchina celeste ha affascinato i raffinati uomini medievali e ha permesso ai cattolici di ogni tempo di gridare “Viva il papa” chiunque fosse il papa. Per questo piace poco al mondo che, non comprendendone la natura, tenta di renderla inoperante disabilitando i destinatari del messaggio: è difficile immaginare che anche una minima parte dei dieci milioni di follower di papa Francesco pensino di cinguettare con la “persona papae”.
Ma all’opera del mondo, per quanto tenace e capillare, sopravvive sempre, qualche vestigia celeste, il segno di un amore insopprimibile, perché la carne della “persona del papa”, a differenza di quella dei singoli pontefici, è quasi spirituale e non può morire.
Questa certezza si è sempre trasmessa oltre le grandi celebrazioni per arrivare intatta con tutta la sua forza sino ai più semplici gesti privati, come mostra Chesterton raccontando il suo incontro con Pio XI: “In realtà avevo un tale turbine nel cervello che non so davvero dire di che cosa fosse frutto ogni mia parola. Poi fece un gesto e ci mettemmo tutti in ginocchio e nelle sue parole che seguirono compresi per la prima volta quello che diede origine all’uso del pronome plurale di cerimonia e all’improvviso vidi il significato di quella che m’era apparsa un’abitudine regale priva di significato. Con una voce forte che non pareva più la sua incominciò a dire: ‘Nous vous bénissons’, e io compresi di trovarmi di fronte a qualcosa che trascende infinitamente l’individuo, compresi che nel ‘Noi’ sono veramente inclusi Pietro e Gregorio e Ildebrando e tutta la dinastia che non muore. Poi, mentre egli proseguiva, ci rizzammo in piedi, uscimmo dal palazzo tra gruppi di svizzeri e di guardie papali e ci ritrovammo all’aperto. Dissi al dignitario ecclesiastico: ‘Ho avuto paura più di quanto ne ho mai avuta nella mia vita’ e il dignitario ecclesiastico rise di me”.
Quel gran cattolico di Chesterton la sua paura se l’è gustata per tutta la vita come fa un bambino con il balocco più prezioso. Ma se l’avesse confessata oggi, nella chiesa della tenerezza e della misericordia, qualcuno gli avrebbe nascosto il giocattolo chissà dove: per aiutarlo a diventare adulto e almeno un po’ mondano.
Fonte il Foglio 6 novembre 2013
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Toni e parole insopportabili da parte di due giornalisti nostalgici, per i quali il cattolicesimo, se non è come lo pensano loro, non è più tale. Ma hanno letto cosa ha detto il Papa sulla "mondanità spirituale" già nell'omelia della sua prima Messa di Pontificato? Per quanto riguarda l'episodio del bambino al quale il Papa avrebbe aperto le mani "in atteggiamento orante" segnalo il video perchè tutti possano vedere che il Papa bacia e scherza con il bambino con le mani giunte, anzi con i due bambini che in quanto chierichietti lo stanno aspettando secondo il cerimoniale:
RispondiEliminahttp://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d615d24f-f94a-4b1a-8427-2e87be24eba5-tg2.html#p=
Ci sarebbe molto ancora da dire. L'articolo andrebbe smontato pezzo pezzo e confutato. Dico solo che, a mio parere, i due giornalisti interpretano i fatti a modo loro, perchè è l'immagine della Chiesa e del Papa che non è quella che vorrebbero loro. Ma grazie a Dio non c'è bisogno che il Papa sia ricoperto di orpelli che lo nascondano alla vista. E' la fede che mi fa vedere in tutti i Papi, anche in Francesco, il dolce Cristo in terra. E quando bacia i malati, soprattutto quelli gravi, mi fa anche piangere perchè vedo Cristo che si china su di loro.
“E quando bacia i malati, soprattutto quelli gravi, mi fa anche piangere perchè vedo Cristo che si china su di loro.”
RispondiEliminaIl Papa è Vicario di Cristo quanto all’autorità magisteriale affidata alla sua responsabilità, ma NON è CRISTO STESSO.
“Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.” Matteo 25, 38-40
In ogni cristiano (anche nel Papa) che si china su un malato dobbiamo vedere un bellissimo gesto di pietà e carità cristiana. Non solo: vediamo una carità che si fa giustizia agli occhi di Dio, il quale ci giudicherà proprio sulla carità, come insegna il capitolo 25 di Matteo dedicato al Giudizio.
Ma i versetti riportati ci insegnano anche che il Signore vuole che nell’immagine del cristiano che si china sul malato scorgiamo la Sua stessa figura nel malato e non già in chi si china su di esso!
Se nelle belle immagini del Papa che abbraccia i malati vogliamo vedere la figura di Cristo (la figura, non la persona di Cristo), dobbiamo cercarla nel sofferente, non nel Papa.
Questo è quanto ha sempre insegnato la spiritualità cristiana: onorare nel povero e nel sofferente la figura di Cristo crocifisso.
Sign. L.M., sono d'accordo con il suo commento. Io non ho detto che il Papa è Cristo, ma che quando vedo il Papa che bacia o accarezza i malati vedo Cristo che li bacia e li accarezza come sulle strade della Palestina. Ad esempio, anche Benedetto XVI ha detto che Madre Teresa vedeva nei poveri il Cristo sofferente (cfr. Mt 25), ma anche lei diventava immagine del Signore che si chinava sui poveri. Ecco, io vedo quell'immagine quando il Papa, o qualunque cristiano, fa la stessa cosa:
RispondiElimina"La beata Teresa di Calcutta ha vissuto la carità verso tutti senza distinzione, ma con una preferenza per i più poveri e abbandonati: un segno luminoso della paternità e della bontà di Dio. Ha saputo riconoscere in ognuno il volto di Cristo, da Lei amato con tutta se stessa: il Cristo che adorava e riceveva nell’Eucaristia continuava ad incontrarLo per le strade e per le vie della città, diventando “immagine” viva di Gesù che versa sulle ferite dell’uomo la grazia dell’amore misericordioso". (http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/december/documents/hf_ben-xvi_spe_20101226_pranzo-poveri_it.html).
Gentile anonimo, siamo d'accordo. Un gesto cristiano è bello da qualunque parte lo si guardi e chiunque lo faccia: d'altra parte l'ideale del cristiano è sempre Cristo stesso.
RispondiEliminaE mi piace ricordare, oltre a Benedetto XVI, come tutti i papi non hanno mai mancato di fare sentire la loro premura verso i sofferenti.
Ne sono lieto. Se si dialoga cordialmente, si superano le incomprensioni. Grazie.
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