Al termine di una conferenza dal titolo “Tracce di vita cristiana” tenuta su Radio Maria il 7 gennaio scorso da don Paolo Comba (qui il link al file audio) incentrata sul tema della moralità, un’ascoltatrice è intervenuta ponendo una questione che ogni cattolico dalle idee ancora un po’ chiare avrebbe posto. In sintesi, affermava l’ascoltatrice: per avere cognizione della morale di Cristo è necessario imparare la dottrina di Cristo, insegnata con autorità. A tale ovvia e ragionevole constatazione logica, don Comba ha avuto di che obiettare.
Il fulcro della sua risposta è stato, come prevedibile, la “religiosità”, topos della “teologia” ciellina.
A tale topos è seguita l’affermazione - che don Comba ha attribuito a don Carròn - secondo la quale “difficilmente qualcuno abbandona la fede perché non ha capito la Trinità. Il più delle volte la si abbandona perché non c’è chi ti testimonia l’incontro”.
Don Comba affermava poi: “Ecco perché tutto parte da che concezione aveva Cristo della vita dell’uomo”.
Concludeva dunque la sua risposta all’ascoltatrice con l’insistenza sulla “religiosità” più che sulla “dottrina”: quest’ultima, senza religiosità, sarebbe – per don Comba – solo un “insieme di nozioni” (domanda e risposta si trovano a partire dal minuto 36.40 del file audio).
Credo che molti ascoltatori non ciellini e ancora semplicemente cattolici non abbiano compreso che cosa non andasse nelle affermazioni dell’ascoltatrice. La risposta è che non vi era semplicemente nulla che non andasse. Molte invece le affermazioni discutibili di don Comba, figlie dirette del pensiero ciellino.
Proviamo ad enuclearle brevemente.
- Il Cattolicesimo è una religione, e precisamente è la sola vera religione, la religione rivelata, istituita ed insegnata da Dio per la salvezza delle anime.
Se non si parte dalla religione ma si parte dalla “religiosità”, l’unico approdo possibile è quella subdola forma di indifferentismo professata da documenti quali la Nostrae aetate, in cui, non a caso, compare in apicibus il concetto di “senso religioso” (“Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso”). Il binomio fede-religione è sostituito dal binomio senso religioso-religiosità. Come qualificare tutto questo se non modernismo?
- Don Comba, riprendendo don Carròn, afferma che “difficilmente qualcuno abbandona la fede perché non ha capito la Trinità. Il più delle volte la si abbandona perché non c’è chi ti testimonia l’incontro”. Al di là della vaghezza tipicamente esistenzialistica di un concetto quale “incontro”, invero è facile imbattersi in persone che entrano in crisi di fede perché non comprendono fino in fondo le verità di Cristo, e non le comprendono proprio perché hanno avuto cattivi maestri, pastori che, rinunciando all’autorità di Cristo, si sono presentati in nome proprio per insegnare dottrine diverse.
Senza riferire casi conosciuti nella vita privata, può riportarsi il caso emblematico di Carl Gustav Jung: “Ricordo ancora la preparazione alla Cresima, fattami da mio padre. Il catechismo mi annoiava in maniera indicibile. Una volta, mentre lo sfogliavo per trovarvi qualcosa d'interessante, lo sguardo mi cadde sui paragrafi relativi alla Trinità. Quest'argomento destò il mio interesse, e con impazienza aspettai di arrivare a quel punto. Ma quando giunse l'ora desiderata, mio padre mi disse: «Questo capitolo lo saltiamo, perché io stesso non ci capisco niente». Così fu sepolta la mia ultima speranza. Ammirai, a dire il vero, l'onestà di mio padre, ma ciò non toglie che da quel momento ogni chiacchiera in tema di religione mi abbia mortalmente annoiato” (Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1935).
Jung perse definitivamente interesse per la fede perché suo padre non conosceva la dottrina trinitaria!
- L’esistenzialismo implicito nel concetto di “incontro” (che a sua volta discende immediatamente dalla declinazione ciellina del concetto di “esperienza”) si fa invece esplicito e parossistico quando don Comba giunge ad affermare: “Ecco perché tutto parte da che concezione aveva Cristo della vita dell’uomo”. Cristo aveva una concezione della vita! Ogni buon cattolico sa che invece Cristo Signore non predicava una concezione della vita ma insegnava con autorità una dottrina (“Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità.” Marco 1,27).
Date queste premesse, è logica la conclusione di don Comba: la prevalenza della religiosità sulla dottrina, sull’”insieme di nozioni”. Le premesse e gli esiti irrazionali dell’esistenzialismo, qui chiaramente evidenti, sono stati espressamente condannati da Pio XII nella lettera enciclica Humani generis: “Ma nessun cattolico può mettere in dubbio quanto tutto ciò sia falso, specialmente quando si tratti di sistemi come l'immanentismo, l'idealismo, il materialismo, sia storico che dialettico, o anche come l'esistenzialismo, quando esso professa l'ateismo o quando nega il valore del ragionamento nel campo della metafisica”.
- Da ultimo, e con più generale riferimento al complesso del pensiero ciellino, occorre evidenziare come la sostituzione del concetto tradizionale di fede con concetti moderni quali “senso religioso”, “esperienza” ed “incontro”, produca un implicito naturalismo. La Fede infatti è virtù teologale, e come tale ha ad oggetto Dio, dunque i suoi contenuti sono per definizione e per eccellenza soprannaturali. Il “senso religioso” invece, se lo intendiamo come apertura dell’uomo alla trascendenza, pertiene alle cose naturali: è una facoltà umana, ancorché rivolta al trascendente. Il “senso religioso” dista dalla Fede quanto la creatura dal Creatore. Costruire la fede sul senso religioso equivale a costruire una mera religione naturale.
Precorrendo i tempi, lo aveva ben capito dom Guéranger, quando ricordava come non vi è sentimento religioso se non là dove vi è la religione. Una prospettiva esattamente rovesciata rispetto a quella ciellina che, come tutta la modernità, è incapace di cogliere il soprannaturale e rovescia cause ed effetti.
Leggiamo il grande Abate di Solesmes: "E’ provato che i contemporanei non credenti da soli non intuiscono nulla dei principi religiosi. Questa impotenza deriva dal silenzio discreto che si mantiene da troppo tempo nei loro confronti e che permette loro di ignorare tutto. È impossibile non essere colpiti dalla devozione e dall'eroismo pacato delle Suore di carità. Senza dubbio ci si rende conto del principio che ispira questa devozione e questo eroismo; si sa che il sentimento religioso ne è la sorgente. Ma fra tutti coloro che chiedono il loro soccorso, le persone, che non hanno la fortuna di essere illuminate dalla luce soprannaturale, quale idea si fanno del sentimento religioso che anima queste Suore? Perché il sentimento religioso esiste là dove esiste la religione. Perché mai una tale devozione non esiste nelle religioni del mondo antico? Perché tra i tanti popoli cristiani esiste soltanto tra coloro che partecipano alla comunione romana? E’ il risultato di un dogma che non si rintraccia altrove. Sarebbe stato opportuno indagarlo a fondo in questo secolo in cui piace rendersi conto di tutto, in cui si fa la statistica di tutto. Invece non si fa nulla, ci si limita ad ammirare, accettando i benefici. In fondo la cosa è molto semplice; si tratta di dire agli interessati: "avete delle Suore di carità ai vostri ordini perché esiste un sacerdozio fondato da Gesù Cristo; i membri di questo sacerdozio hanno il potere di purificare le anime e di metterle in seguito in rapporto con Dio stesso in un mistero che si chiama la comunione di cui essi sono i dispensatori. Se questo sacerdozio cessasse di operare, se fosse respinto dalla nostra società, voi vedreste scomparire nello stesso tempo queste serve dei poveri e degli ammalati. Ciò che voi chiamate il sentimento religioso non saprebbe più produrle ormai nè moltiplicarle" (dom Prosper Guéranger, Il senso cristiano della storia)
Non ha detto dunque nulla di male la signora ascoltatrice. E la sua semplicità ortodossa ed evangelica (“Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità.” Marco 1,27) è stata contestata in nome dell’”incontro”. Ma in fondo anche questo si spiega per chi conosce CL. Ci si potrebbe domandare, date le premesse moderne della “teologia” ciellina, come questa possa giungere a sostenere l’oggettività delle posizioni cattoliche, cosa che pur in diverse occasioni ha fatto. La risposta è nella insostenibile oggettivizzazione, con ombre di ontologismo, dell’”esperienza” e dell’”incontro”. Il ciellino, attraverso il movimento, ha vissuto l’esperienza dell’incontro, e chi non la vive, cattolico o meno che sia, semplicemente non userebbe né la ragione né il cuore. La posizione è decisamente elitista e tutto accade ancora sul piano naturale.
Invero la Verità di Cristo non si sottomette al tribunale ciellino dell’esperienza, ma è accolta solo dopo il primo movimento soprannaturale proveniente da Dio e che a Dio ritorna: la virtù teologale della Fede.
In virtù delle Fede, si crede alla Verità di Dio per l’autorità e la veridicità di Dio stesso, non già per il suo aderire alla nostra esperienza, da sola incapace di Dio per le conseguenze del peccato originale.
Quando incontro una persona credente posso essere interessato o conquistato dalla sua viva fede in Cristo e nella Sua Chiesa. Incontro uno che ci crede davvero, e mi soffermo e rifletto, e chiedo di incontrare anch'io quel Gesù che suscita tanta passione. L'incontro di una persona innamorata di Gesù mi fa incontrare Gesù. Non vedo che difficoltà ci sia in questo. Solo dopo posso essere istruito sulla Trinità e gli altri misteri del cristiano. Ma se incontro dei freddi abitudinari della fede che mi sbattono in faccia un elenco di dogmi, lasciò perdere e penso che siano dei fanatici, o dei testimoni di Geova di passaggio.
RispondiEliminaVale l'obiezione che attraversa tutto l'articolo: non si può costruire la fede sul senso religioso; fare prevalere l'incontro esistenziale (che anonimo riduce opportunamente a una testimonianza) sulla dottrina e sulla comunicazione sacramentale della grazia il cui fondamento non è l'esperienza ma la Chiesa stessa e quindi Il Corpo Mistico di NSGC. Dopo di che ogni testimonianza che porti alla fonte della vera Religione, è persino doverosa.
RispondiEliminaCaro VA, premetto, sono un ciellino, ma non voglio fare l'avvocato :-)
RispondiEliminaIl tuo commento è molto interessante.
Purtroppo non ho molto tempo, però vorrei correggere almeno due affermazioni che, forse per superficiale conoscenza, fraintendi:
1. nella "teologia ciellina" non vi è identificazione fra senso religioso e fede; non partiamo dalla religiosità anziché dalla religione. Quindi non esiste nessun binomio contrapposto fede-religione | senso religioso-religiosità. Cioè non costruiamo la fede sul senso religioso.
2. che Cristo avesse ("avesse, non "predicava" come scrivi tu, i ciellini dicono "avesse") una concezione della vita è difficile da contestare! Direi anzi, che ogni buon cattolico sa che Cristo aveva una concezione della vita, ed anche che insegnava (ora sì, "predicava" con autorità una dottrina.
Sono altre le cose che io stesso contesto. ma questo sarebbe tutt'altro discorso
con simpatia
Gentile Lettore,
RispondiEliminaè forse impossibile descrivere esaurientemente la genesi dell’atto di fede, perché Dio nella sua sovrana libertà agisce con mezzi sempre diversi, perché le Sue vie non sono le nostre. C’è chi viene educato alla fede fin dalla nascita nella sua famiglia, chi – come ad esempio il J. H. Newman – vi giunge dopo uno scarnificante percorso teologico, chi – come sant’Agostino – è assalito dall’orrore del disordine e del peccato, etc.. La casistica non può essere riassunta o sintetizzata in un’unica formula.
Ma possiamo dire con certezza che solo la grazia porta a compimento ognuna delle vie possibili: le porta alla conversione e finalmente alla fede. Di più: la grazie si avvale anche di vie impossibili.
Le vie di Dio non sono le nostre vie. Vogliamo farci capire: non solo i nostri ponti non giungono a Dio, ma senza la grazia addirittura ci allontanano da Lui. Quante volte infatti ci affezioniamo al ponte più che a Dio stesso! Quale titanismo pensare che possiamo anche solo orientarci a Lui con le nostre semplici forze naturali! Come può infatti una semplice facoltà naturale essere capace del soprannaturale? No, i nostri ponti ci allontanano da Dio fino a quando, in virtù della fede che da Dio stesso proviene, non pieghiamo il nostro ginocchio.
Solo allora siamo capaci di gloriarci nel nome di Cristo nostro vero Re. Sit nostra in te gloria. Solo allora non ci vergogniamo di Cristo.
Lei è ciellino: capirà allora facilmente che da parte nostra non vi è antipatia né pregiudizio. Può dire con certezza che don Giussani ci darebbe torto?