mercoledì 10 settembre 2014

C'era una volta la Confessione. Riflessioni di Alessandro Gnocchi sulla crisi di un sacramento



Pubblichiamo per gentile concessione dell'Autore, che ringraziamo, l'articolo comparso oggi, 10 settembre, nel quotidiano il Foglio con il titolo "Loreto sconfessata". Nella proposta - concretizzatasi nella Cappella degli Slavi del Santuario di Loreto (vedi fotografia qui sotto) -  del dialogo come surrogato della confessione si legge la rinuncia alla opposizione tra peccato ed efficacia sacramentale da parte della gerarchia e del clero modernista. Un ennesimo segno dell'apostasia in atto.

Se un giorno di fine estate un pellegrino si avventurasse nel santuario di Loreto in cerca un confessore, si guardi bene dall’aggirarsi i confessionali posti attorno alla Santa Casa. Tenti invece in qualche cappella minore, prima o poi vedrà un frate accomodato su una sedia, un fedele non sempre in ginocchio e un piccolo gruppo in frettolosa attesa: vorrà dire che è arrivato. Ma, soprattutto, il pellegrino si astenga dal frugare con lo sguardo nella Cappella degli slavi, dove un laconico cartello ammonisce a caratteri di scatola “Qui non confessioni ma dialogo e ascolto” e un’opportuna locandina spiega che il “Punto d’ascolto” è attivo ogni giorno dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 18,00.
Lì, a due passi dalla casa in cui Maria disse il suo “Sì” all’angelo che le annunciava l’incarnazione del Verbo, le anime non trovano balsamo celeste che curi le loro ferite, ma il pane raffermo della chiacchiera mondana. Un tavolino con un drappo rosso gettato sopra, due sediole e, dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 18,00, talvolta un frate, talvolta una suora, talvolta forse un esperto: per parlare laddove bisognerebbe tacere, per sistemarsi a proprio agio laddove bisognerebbe stare in ginocchio, per sospirare e divagare laddove bisognerebbe contemplare. Infine, per lasciare che ognuno se ne vada così com’era arrivato, senza che un sacerdote, per conto di Cristo, ne abbia curato con misericordiosa durezza le piaghe che altrove non possono trovare lenimento.



Eppure, il malinconico avviso posto sulla balaustra della Cappella degli slavi vorrebbe dare a credere che nel cambio ci si possa guadagnare. Il “Qui non confessioni” seguito da un “ma” avversativo promette di offrire ben altro con “dialogo e ascolto”. Lascia intendere che lì, sotto lo sguardo dei Santi Cirillo e Metodio che convertirono l’Europa orientale alla fede in Cristo, si possa trovare nella comprensione di un essere umano qualcosa in più del perdono di Figlio di Dio. Eloquente esibizione della voglia matta di resa al mondo di una chiesa riottosa al dogma che trasmette la Verità e ai sacramenti attraverso cui scorre la Grazia.
Ma laddove il dogma si oscura e il sacramento si eclissa, rimane la nuda tecnica e la chiacchiera usurpa il ruolo della confessione. Fin dentro gloriosi santuari visitati da migliaia di pellegrini si manifestano l’oscuramento dell’essere e il dominio tecnocratico paventati da Heidegger quando il sentore di una giovinezza cattolica tornava a carezzare le sue narici intellettuali. “Il tempo è povero non soltanto perché Dio è morto, ma perché (...) la morte si ritrae nell’enigmatico” lamentava il filosofo di Messkirch in “Perché i poeti?”.  “Il mistero del dolore resta velato. Non s’impara ad amare (...). Povera è questa povertà stessa perché dilegua la regione essenziale in cui dolore, morte e amore si raccolgono”.
Fedeli senza più fede, atei senza più ateismo che scorrono dentro e attorno alla Santa Casa di Nazaret portano nel cuore lo stesso dolore del filosofo tedesco. E, insieme, hanno la speranza nascosta di rendere meno povera la povertà di un mondo in cui faticano a vedere le tracce di Dio. Non cercano qualcosa o qualcuno che funzionino perfettamente in orari d’ufficio poiché ne hanno fino alla nausea nella vita feriale. Almeno dentro il recinto sacro vorrebbero potersi liberare dalla tirannia della tecnica che reclama la spoliazione dell’uomo. Come l’Heidegger di “Ormai soltanto un Dio ci può salvare” sono atterriti dal fatto che “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra (...). Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui oggi l’uomo vive”.
Ma poi, giunti in cerca di radici vive nei pressi della Casa in cui il Verbo si fece carne, questi cercatori dolenti si trovano al cospetto delle povere chiacchiere di un tecnico poste in mostra sul bancone in nome di una mercantile pluralità dell’offerta.
Quando Charles de Foucauld si convertì al cattolicesimo, nell’ottobre del 1886, lo fece per mezzo di un sacerdote che non concesse alcuno spazio al dialogo e all’ascolto. Lo narra lui stesso nei suoi ricordi, parlando con il Signore ricordandogli le quattro grazie che gli concesse in quei momenti: “La terza grazia fu di suggerirmi: poniamoci a studiare, dunque questa religione; assumiamo un professore di religione cattolica, un prete istruito, e vediamo cosa ne scappa fuori e se sarà il caso di credere a quello che dice. La quarta fu la grande grazia incomparabile di indirizzarmi, per queste lezioni di religione, a M. Huvelin. Facendomi entrare nel suo confessionale, uno degli ultimi giorni di ottobre, tra il 27 e il 30, penso, Tu, mio Dio, mi hai davvero colmato di ogni bene (... ). Io chiedevo lezioni di religione: lui mi fece mettere ginocchioni e mi fece confessare, e mi spedì a comunicarmi, seduta stante...”.
L’abbé Henry Huvelin, vicario parrocchiale Saint Augustin a Parigi, intuì che il momento era arrivato e non bisognava cedere oltre ai desideri di ricerca intellettuale di quel giovane inquieto. Bisognava solo indurlo con decisione a un atto di umile confessione e di richiesta di perdono a Dio. “Vorrei che mi istruiste nella fede”, chiese il giovane Charles. “Inginocchiatevi. Confessatevi a Dio e crederete”: e il giovane Charles si inginocchiò, si confessò, credette e si comunicò. Accogliere la fede dentro la propria intelligenza dopo un atto di assenso della volontà, come fece de Foucauld è ciò che San Giovanni, nel Vangelo, descrive dicendo in un meraviglioso rigo “Chi fa la verità, viene alla luce”.
Non fu altrettanto fruttuoso il destino di Simone Weil, morta nel 1943 a 34 anni, al termine di una vita fatta di austerità, di dedizione al prossimo, di studio, di dolorosa contiguità con la mistica, di attenzione per la Chiesa cattolica senza decidersi al passo definitivo. Cristina Campo, nella splendida introduzione alla sua “Attesa di Dio”, vede all’origine del mancato abbraccio con il Corpo Mistico di Cristo l’indecisione del domenicano padre Joseph Marie Perrin, “la timidezza apostolica, la carità molto più sentimentale che spirituale del religioso che tentò di istruirla. (…) La rivelazione di una Chiesa pura perché tremenda, pietosa perché inflessibile, in totale contraddizione con il mondo, tetragona e bruciante, non era certo per atterrire Simone Weil”. 
Ciò che aveva ben presente l’abbé Huvelin, e invece sfuggiva a padre Perrin, è narrato con fare quasi didascalico da Manzoni nella conversione dell’Innominato. Paride Zaiotti, astioso letterato ottocentesco, lamentava che nei “Promessi sposi” la nascita a nuova vita dell’inquieto signorotto non fosse riconosciuta al giusto tramite. “Se l’Innominato” diceva Zaiotti “come racconta il Rivola suo primo biografo, si convertì dopo il colloquio col Cardinal Borromeo, perché togliere il merito al Cardinale per darlo a Lucia, ai suoi occhi, alla sua voce soave, alle sue parole, al voto?”. Ma, a ben guardare, l’Innominato non è “stato convertito” ma “si è convertito” prima di arrivare alla presenza del Borromeo. Il cardinale lo sostiene nel riconoscere il mutamento nel suo cuore e nella sua intelligenza: “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”, “E chi più di voi l’ha vicino? Non lo sentite in cuore che vi agita?”. E pare di leggere Pascal: “Tu non mi cercheresti, se già non mi avessi trovato”. Il sacerdote è colui che rivela la conversione, come alter Christus è lì per sancire ciò che Dio ha operato. “E’ lì” commenta monsignor Cesare Angelini “per ricevere la legittimità di quanto è avvenuto, e a guarire un passato”.
L’Innominato non chiede “solo dialogo e ascolto”, ma che l’Unico in grado di farlo guarisca il suo passato. Chiede la giustizia e carezza che Sant’Agostino descrive nel sermone sull’adultera salvata dalla lapidazione: “E tutti uscirono di scena. Soli restarono Lui e lei; restò il Creatore e la creatura; restò la miseria e la misericordia; restò lei consapevole del suo reato e Lui che ne rimetteva il peccato. (…) Ella si accusò. Gli altri non avevano potuto portar le prove e se ne erano fuggiti. Essa invece confessò; il suo Signore non ignorava la colpevolezza, ma ne ricercava la fede e la confessione".
Ma per imitare il Maestro, per prestargli la propria persona nel sacramento, serve un profondo e perfetto senso del peccato che, nella chiesa di oggi, è moneta sempre più rara. “Come mai” chiedeva Cristina Campo in una lettere a Marìa Zambrano nella III domenica d’Avvento del 1965 “si celebra ancora la festa dogmatica dell’Unica Immacolata, mentre implicitamente si nega, in mille modi, la maculazione di tutti gli altri? In un mondo dove non è più riconosciuto non dico il sacrilegio, l’eresia, la blasfemia, la predestinazione al male - ma il puro e semplice concetto di peccato?”.
Privata di questo concetto, la confessione può solo diventare chiacchiera, “ascolto e dialogo” che occuperanno un altare dopo l’altro, una cappella dopo l’altra, una chiesa dopo l’altra. Non è un caso se i confessionali sono ormai caduti in disuso. Reperti di una religione in cui molti si confessavano e pochi osavano presentarsi alla comunione, sono incomprensibili là dove si pratica una religione in cui quasi nessuno si confessa e tutti corrono a comunicarsi.
Al cospetto di tale mutazione, bisogna vere il coraggio di chiedersi se si tratta sempre della stessa religione. E sorge più di un dubbio, a non voler parlare di certezza, se si pensa che, dove ora si trova con difficoltà un prete in stola viola su uno strapuntino, una volta si ergevano grandiose opere d’arte erette alla misericordia e alla giustizia divine. Occorre solo pensare allo splendore dei confessionali di Andrea Fantoni, nati nel severo e stringato cattolicesimo bergamasco a cavallo tra Seicento e Settecento, per provare nostalgia di una fede ormai in ritirata anche nelle vallate delle ex cattolicissime Orobie.
Oggi non più, ma fino a una cinquantina d’anni or sono, persino le paolotte e silenti anime bergamasche trovavano la favella nella confessione che, secondo San Tommaso, come parte del sacramento, ha il suo determinato atto che è quello di manifestare le proprie colpe dicendole con la propria bocca. Una confessione fatta a perfezione, dice ancora il dottore di Aquino, esige molte condizioni: che sia integra, semplice, umile, discreta, fedele, vocale, mesta, pura e pronta all’obbedienza. Tutta merce che poco o nulla ha a che fare con la tecnica “ascolto e dialogo”.
Certe confessioni, certe chiacchierate di oggigiorno sembrano fatte apposta per dar ragione al Machiavelli della “Mandragola” che ne mette in scena la parodia ad opera di fra Timoteo e Madonna Lucrezia. Pura tecnica burlesca che serve al tremendo fiorentino per presentare il sacramento come subdolo strumento di controllo sociale ad uso del clero.
Ma è un altro il fiorentino a cui attingere per capire che cosa sia davvero e dove conduca la confessione. Nel IX canto del Purgatorio, Dante descrive tale sacramento con amorevole e paziente minuziosità tenendo quale fonte rituali e manuali come gli “Ordo reconciliationis poenitentium” e gli “Ordo ad dandam poenitentiam”.
Giunto al cospetto di un angelo guardiano armato di spada, che rappresenta il confessore, il viaggiatore penitente scorge tre gradini. Il primo, “bianco marmo era sì pulito e terso” rappresenta l’accusa sincera del peccato commesso. Il secondo, “tinto più che perso/ d’una petrina ruvida e arsiccia,/ crepata per lo lungo e per traverso”, come spiega L’Anonimo fiorentino chiosatore di Dante, simboleggia la vergogna nel dire il proprio peccato a voce alta. Il terzo, che “porfido mi parea sì fiammeggiante/ come sangue che fuor di vena spiccia” designa l’ardore di carità verso Dio che spinge a espiare il peccato anche a costo del martirio, morale o materiale.
L’angelo, i cui piedi poggiano sul terzo gradino, siede su una soglia “che mi sembiava pietra di diamante”, allegoria della forza con cui il penitente deve mantenere i suoi propositi.
“Divoto mi gittai a’ santi piedi/ misericordia chiesi e ch’el m’aprisse/ ma tre volte nel petto pria mi diedi”. “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa” recita ancora oggi battendosi il petto nel “Confiteor” chi voglia professare anche nella confessione la stessa fede di Dante, con le stesse parole. Poi l’angelo traccia con la punta della spada sette “P” sulla fronte del penitente a ricordargli i sette vizi capitali e l’inclinazione al peccato contro cui dovrà combattere, cominciando dalla pratica della penitenza imposta dal confessore.
La misericordia di Dio non si concretizza in “ascolto e dialogo”, nello spianare i gradini che il penitente deve salire nella confessione. Piuttosto, si trova nell’insegnamento ricevuto dall’angelo guardiano direttamente da San Pietro: che si sbaglierebbe più facilmente negando che non concedendo l'assoluzione, ma patto che sia chiesta con sincera umiltà, “pur che la gente a’ piedi mi s’atterri”.
Che non vuol dire, come suonerebbe a orecchie moderne, umiliare la creatura umana, ma amarla fin nel suo intimo, desiderando la salvezza di cui però ciascun uomo decide in proprio con pensieri, parole e opere. “Quia peccavi nimis cogitazione, verbo et opere, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”. E spesso sono sempre gli stessi pensieri, parole e opere a far cadere in tentazione. Per questo l’angelo si rivolge a Dante e alla sua guida dopo l’assoluzione ammonendo “Intrate; ma facciovi accorti/ che di fuor torna chi ‘n dietro si guata”, chi commette di nuovo lo stesso peccato ritorna di nuovo allo stato di inimicizia con Dio.
Un ammonimento che ricorda il nono capitolo del Vangelo di San Luca: “Nemo mittens manun ad aratrum et respiciens retro aptus est regno Dei”, nessuno tra chi mette mano all’aratro e guarda indietro è fatto per il Regno di Dio. Ma, dopo una seduta di “ascolto e dialogo”, in cui nulla viene dato e nulla viene chiesto, non si capisce proprio dove il pellegrino che un giorno di fine estate si sia avventurato in certe chiese possa trovare la forza di guardare avanti.
Fonte: il Foglio 10.09.2014 

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