venerdì 1 novembre 2013

Contro il logorio del pelagianesimo moderno. Dom Gérard Calvet O.S.B.  sulla necessità di “dire preghiere”.

Riproponiamo una pagina nota di dom Gérard Calvet, divenuta in questi ultimissimi tempi, dopo le affermazioni del Vescovo di Roma circa i “pelagiani” e il “dire preghiere”, di indubbia attualità.
Tre grandi Maestri benedettini, Prosper Guéranger, Emmanuel André e Gérard Calvet, ci ricordano il più efficace mezzo contro l’eresia pelagiana, una delle forme correnti di naturalismo che si ripresenta in ogni epoca: “dire preghiere”, in particolare le orazioni della preghiera pubblica della Santa Chiesa.

    “Il campo della liturgia costituisce in sé un «luogo teologico» di una ricchezza inesauribile, una specie di rete di verità dottrinali sparse, non ordinate sistematicamente. Péguy diceva bene quando affermava che la liturgia è una «teologia distesa». Quando il canto dell’Exsultet, sgorgante di poesia, si eleva nella notte pasquale, il dogma della Redenzione illumina le menti di un bagliore proprio che non è altro se non lo splendore del vero: l’Exsultet, il Lauda Sion, il Dies Irae sono dogmi cantati che infondono direttamente nell’anima luce e amore. Dom Guéranger diceva che «la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità»; un’affermazione che all’epoca suscitò qualche stupore.
I materiali che servono agli artigiani della teologia speculativa sono contenuti nella Preghiera della Chiesa, come quelli nelle cave di pietra che servono per la costruzione del Tempio: è in questo tesoro che attingono i teologi di tutti i tempi per illustrare e affermare il dogma. Padre Emmanuel André, abate di Notre-Dame de la Sainte-Espérance, trovava la dottrina della grazia nelle orazioni del Messale. Queste preghiere risentono delle lotte dottrinali del secolo IV, minacciato dall’eresia pelagiana; Pelagio minimizzava le conseguenze del peccato originale e ignorava la necessità della gratia sanans, ossia la grazia che guarisce. L’eresia pelagiana è una delle forme correnti di naturalismo che si ripresenta in ogni epoca. Padre Emmanuel non voleva contrapporre tesi a tesi; costruiva la sua teologia della grazia nel solco della preghiera della Chiesa. Le orazioni lo aiutavano a mettere in luce l’assoluta necessità della grazia divina nell’ordine della salvezza. È una perfetta spiegazione della lex orandi che stabilisce e fissa la lex credendi. Ricorderete che recentemente abbiamo ricevuto un esponente dei pentecostali: non abbiamo avuto difficoltà a provargli la novità inquietante di una preghiera che s’indirizza esclusivamente alla terza Persona, sottolineando il carattere trinitario delle nostre collette, che si elevano al Padre, mediante il Figlio, nello Spirito. La stessa orazione della festa di Pentecoste espone questo modo di preghiera: la sequenza della Messa — una specie di effusione libera che s’indirizza al solo Spirito santo — dev’essere considerata come una glossa del versetto alleluiatico; la colletta resta trinitaria. «Nihil inovetur nisi quod traditum est».
Ecco ciò che insegnano le preghiere liturgiche. Ci istruiscono sulla Maestà di Dio, sull’abisso della nostra miseria, sul modo di comportarci davanti a Dio e di come indirizzare a Lui le nostre richieste per essere esauditi.”

  (Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 59-70)    

7 commenti:

  1. Il Papa è il primo a recitare breviario e il Rosario. E in alcuni Angelus e incontri ha sempre terminato con un'Ave Maria o con un Padre nostro. Quindi, il problema non sono le formule di preghiera, ma l'atteggiamento di chi si illude di aver pregato solo con la recita meccanica di formule. Perciò, basta con questi attacchi a tutti i costi alle parole del Papa, che sembrano lagne di bimbi.

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  2. "... chi si illude di aver pregato solo con la recita meccanica di formule."

    Pregare è un'azione oggettiva rivolta a Dio che richiede, come elemento interiore, la volontà oggettiva di lodare, ringraziare o chiedere grazie. E questo al di là del contingente stato d'animo, il quale, quando è contrario all'azione della preghiera, la rende anzi più meritoria: la mia mente è rapita da mille pensieri e mille preoccupazione, ma mi inginocchio e inizio comunque la recita delle preghiere.

    L'alternativa è il sentimentalismo. E sappiamo bene che normalmente un'anima caduta nel sentimentalismo, quando non ha più il sentimento, non fa più nemmeno più lo sforzo di dire preghiere.

    Permettersi di dire che qualcuno, dicendo preghiere, "si illude di aver pregato", è un giudizio sulle intenzioni intime delle anime. Questo giudizio, come insegna da sempre la Chiesa, spetta solo a Dio.



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  4. Signor Anonimo, la "meccanica di formule" è un modo poco gentile per dire "dire preghiere" e il "contatto con Dio" un modo di dire l'oggetto di cui solo Dio è giudice. L'obiezione del Signor L.M. non è minimamente vinta. Lei odia le rubriche?

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  5. Per un errore è stato eliminato il post di Anonimo che è invitato a riprodurlo. Ce ne scusiamo.

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  6. Non c'è problema. E' scusato per l'errore.
    Non ho parlato di rubriche. Mi spiego meglio: a me capita di recitare il Rosario e a volte succede che la recita diventa meccanica e poco attenta, quindi la preghiera diventa "parolaia". Io intendo questo tipo di preghiera quando parlo di "recita meccanica". Per superare questo inconveniente preferisco dividere la corona in cinque parti e recitare una decina per volta nell'arco del giorno in modo tale da mettere in pratica cosa dice san Benedetto, cioè che la mente si accordi alla voce. La preghiera da meccanica recita di formule diventa più profonda e consapevole. Questo intendevo.

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  7. Allora, visto che si cita san Benedetto. Un monaco di vera osservanza trascorre in coro con la comunità, tra Opus Dei, Santa Messa e Santo Rosario, circa 5/6 ore al giorno, iniziando alle 3 del mattino circa (si veda ad esempio l’orario di Le Barroux).
    Anche quando l’attenzione è del tutto altrove, il segnale dell’Ufficio suona e ci si precipita nel coro. Così per il Mattutino, per le sette Ore diurne e per la Santa Messa. È facile comprendere che non sempre si arriva al coro con il giusto stato d’animo o anche solo con la necessaria presenza spirituale.
    Ma l’Opera di Dio è appunto un’opera, non uno stato interiore. Il monaco che non fosse presente a se stesso né immediatamente a Dio, per obbedienza sarebbe comunque presente nel coro e comunque consacrerebbe 5/6 ore al giorno direttamente a Dio, salmodiando e inchinandosi.
    Lo stato di unione orante con Dio è ciò che si chiama, nella tradizione spirituale, consolazione interiore. Chi ha letto l’Imitazione di Cristo o ha provato l’esperienza del coro o comunque della regolarità nella preghiera, sa che è una grazia che Dio concede con grande parsimonia. Quando ne otteniamo troppa, il più delle volte la usiamo a nostro danno.
    Grandi santi e maestri spirituali ne hanno ricevuta pochissima e hanno vissuto la loro santificazione consacrando la loro vita e il loro tempo a Dio pur in una grande aridità interiore. Ma a Dio davano appunto la loro opera, non il loro stato interiore, che così spesso mancava.

    Se dividere le decine aiuta la sua devozione, ben venga questa scelta, se ha modo e tempo di farla.
    Non la giudico, perché la ritengo animata dalle migliori intenzioni di meglio pregare Dio.
    Ma la prego di fare altrettanto con chi a Dio dà il suo tempo e la sua voce per cantare lodi anche in un’aridità che potrebbe addirittura rendere tutto questo un purgatorio in terra: penitenza graditissima a Dio, come testimonia proprio la grande tradizione benedettina; strada sicurissima per il Paradiso.

    Non ho invece mai conosciuto anime prive di fede e di pietà che dicano formule tanto per dirle (come in una specie di autismo spirituale): se mancano fede e pietà, normalmente non si prega e basta.
    Mi pare che ogni tanto si facciano casi di scuola per mandarla a dire a qualcuno. Ad ogni modo, io ci andrei piano con l’emettere sentenze sulla preghiera degli altri, soprattutto se così facendo si rischia di trascinare nel discredito della sentenza di disapprovazione le stesse formule con cui la Chiesa da sempre insegna a pregare. Perché è proprio da questo che dobbiamo partire: la Chiesa sa pregare, noi no. Altrimenti il buddismo è dietro l’angolo per tutti.

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