martedì 2 maggio 2017

La saggezza di Thorin e il lato oscuro della libertà

Ognuno porta le proprie colpe e Dio solo conosce l’intimo dei cuori. Questo è fuori discussione. Ma certo il mondo che ci circonda, con il suo potere, le sue leggi, le sue logiche, le sue strutture, non è indifferente nel determinare i sentieri che intraprendiamo e le decisioni che assumiamo. Se la Chiesa scende a patti con il “mondo”, nel suo evangelico e più deteriore senso, i cattolici finiranno inevitabilmente con l’amalgamarsi ad esso. Diverranno cristiani “senza qualità”, disposti in fondo ad ogni soluzione, come l’uomo del racconto di Musil. È forse quello che già siamo, più o meni consapevolmente, in molti.
Il primo errore, quello capitale, che ha inclinato il piano e reso ineluttabili, quasi per forza fisica, tutti gli altri, può essere definito, mutuando un’immagine dalla letteratura, “angelismo”. È quest’ultimo un capitolo del moralismo, inteso come forma fuorviante della morale, che reca in sé una contraddizione e prima ancora un’imprudenza, gemmazione diretta dell’ottimismo antropologico illuministico.
Contro il senso cattolico della prudenza, che vuole che si evitino le occasioni di peccato, le nuove mode teologiche hanno preteso per l’uomo l’assoluta libertà esteriore, facendo della sua sola forza interiore il baluardo contro il male. Come altrimenti intendere l’esaltazione della libertà soggettiva e il contestuale, contradditorio, scandalo per i suoi frutti?
Invero, l’infallibile Maestro insegna che è la verità a rendere liberi, e non la libertà stessa. «La libertà rende liberi»: non è forse questa una tautologica eresia, oltre che ad un evidente nonsense? La follia che cova in questa visione è chiara per il senso comune e per l’esperienza di ciascuno di noi. Si spoglia il cattolico di tutte le sue difese esteriori, lo si consegna alla gogna del mondo, e si esige che esso sia nondimeno un santo se non un martire. Come se santità e martirio fossero beni a buon mercato.
È una follia collaudata, ben nota alla storia del pensiero sociale. Gustave Thibon ne tratteggia un ritratto lucido e psicologicamente efficace nella sua critica alla morale rousseauiana: «Per non essere incarnata in sani costumi, quella moralità resta essenzialmente affetta da impotenza. Fatta di intellettualismo astratto e di emotività superficiale (non è Rousseau che aveva voluto gettare le basi di una morale sensitiva?), essa non va al di là della sensazione immediata o dell'ideale inaccessibile. È, nello stesso tempo, terribilmente presbite e terribilmente miope: con un occhio guarda una stella chimerica che non scenderà mai sulla terra, con l'altro - con quello che dirige l'azione concreta - non vede altro che il frutto che si può cogliere oggi. Gli uomini possedevano un tempo profondi istinti biologici e collettivi che li ponevano al servizio, a loro insaputa, del bene della specie e della società; vedevano lontano senza averne coscienza, e il loro umile sforzo personale, attratto da una finalità superiore, alla quale si adattava spontaneamente, contribuiva alla armoniosa edificazione della società e dell'avvenire. Il grande beneficio che proviene da costumi sani è che essi rendono facili e naturali cose molto difficili per la moralità pura dell'individuo isolato. Orbene, la decadenza ha isolato e atomizzato l'individuo. Bisognerebbe oggi che ciascun uomo supplisse, con la sua volontà traballante e con la sua labile sensibilità, ai soffi profondi che gli provenivano dall'anima animale e dall'anima collettiva. Ciò non è possibile che a qualche grande anima. Le altre versano fatalmente nel culto esclusivo dell'interesse o dell'amore sensibile e immediato. L'uomo atomizzato ha ripugnanza per tutto ciò che è penoso e soprattutto per tutto ciò che è lontano». Monsignor Lefebvre ne aveva un’altrettanto limpida percezione: «Il liberalismo fa scomparire tutte le gerarchie sociali naturali: ma facendo questo lascia alla fine l’individuo solo e senza difese dinanzi alla massa, della quale egli non è che un elemento intercambiabile, e che lo assorbe totalmente».
Una volta innescata una simile logica, giocoforza si addiviene al compromesso con il mondo. Le personalità forti e guerriere sono già per natura poche. Abbandonate a se stesse, divengono ancora meno. In breve, appariranno come pochi folli alienati rispetto alla nuova rappresentazione della “realtà”.
È il piano inclinato del liberalismo, che si trasforma, da istanza forse in origine comprensibile, a sistema ideologico, a malattia psichica collettiva: l’incapacità di restare fermi nella Verità, ma infondo nella stessa realtà, dacché la volontà è ormai del tutto permeabile alle maree dell’inconscio. Se tentiamo una sintesi estrema degli ultimi approdi liberali della cultura cattolica il quadro è desolante. La testimonianza soprannaturale della verità come quella naturale della morale sono schernite, deformate in caricatura, degradate ad ideologia. Talvolta si riscopre l’arsenale concettuale tradizionale per accusarle finanche di disobbedienza ed eresia. Come pensare che i cattolici saranno comunque disposti a sacrificarsi per la famiglia, per il prossimo, per la patria, per il bene comune, per la Chiesa, per Dio, per la propria anima e per quella di coloro che gli sono affidati?
Il problema è che chi vuole rimanere cattolico non ha molte alternative alla testimonianza solitaria e soprattutto particolare. Ogni universalizzazione delle sue affermazioni appare “ideologia”, “eresia” o “follia” se la medesima istituzione ecclesiastica lo smentisce con dichiarazioni e prassi. Presto il cattolico si trova a combattere una guerra partigiana. Subentrano divisione e orgoglio. Le sirene del mondo si fanno sentire. La via si smarrisce. Da qui ad inseguire la gloria del mondo il passo si fa davvero breve. Questa è la libertà che ci hanno regalato, che hanno regalato alla nostra povera natura umana.
La possibile alternativa è allora nella decisione per il particulare, nel senso più elevato del termine, per l’universale concreto che si conosce come giusto ancorché non possa kantianamente divenire massima universale.
Queste le parole che Tolkien mette in bocca a Thorin morente: «Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra di tesori dell’oro, questo sarebbe un mondo più lieto. Ma triste o lieto ora debbo lasciarlo. Addio!». Una sentenza di grande saggezza, da cui forse ripartire.

1 commento:

  1. è venuta l'ora di abbandonare tutto nelle mani di Colui che tutto puó ed é Salvatore e Redentore...sequere (Eum) et dimitte mortuos sepelire mortuos suos.

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