Dopo avere considerato recentemente gli sviluppi dell'eredità odierna di Lutero (vedi qui) pubblichiamo qui di seguito, con l'autorizzazione dell'Autore che ringraziamo, la magistrale relazione di don Marino Neri sui Principi filosofici e teologici della Riforma protestante (1517) pronunciata il 1 maggio di quest'anno in occasione della V Giornata della Buona Stampa tenutasi ad Agazzano. Si tratta di un testo ricco di ricostruzioni fondamentali sia sul piano storico che su quello teologico che spiega con chiarezza molte ragioni della crisi attuale senza attardarsi in infruttuosi luoghi comuni e opinioni tralatizie.
Johann Wolfgang Goethe (1749-1832),
in una celebre lettera all’amico poeta Karl Ludwig von Knebel (30 Novembre
1744–23 Febbraio 1834), afferma di Lutero: «Detto fra di noi, in tutta la
vicenda non c’è niente di interessante se non il carattere di Lutero; ed è
l’unica cosa che impressiona la moltitudine. Tutto il resto sono chiacchiere
confuse, che continuano a importunare quotidianamente anche noi»[1].
Questa
affermazione di Goethe evidenzia senza dubbio la componente più particolare
della vicenda di fra’Martin Lutero, cioè quella personale: senza dubbio, questo
è l’aspetto che unisce tutti gli storici, tanto cattolici che protestanti[2]. La temperie di Lutero è
un ingrediente non del tutto trascurabile al fine di comprendere ciò che è
accaduto cinquecento anni fa. Tuttavia, considerare solo questo aspetto,
sarebbe minimizzare ciò che ha cooperato, in misura almeno paritaria, se non
maggiore, all’esito fatale del 31 ottobre 1517: il fuoco, senza un elemento
detonante , non produce un’esplosione. Va detto, in primo luogo, che ormai è
pienamente assodato che non fu la “mitologica” crisi della Chiesa del XV-XVI
secolo a scatenare lo “zelo” di Lutero per una “riforma evangelica”: la Chiesa
di quel periodo era una Chiesa capace di annuncio della Verità, di vita
sacramentale e devozionale, di opere di misericordia e di carità, non senza –
va detto – frange di fragilità o di incongruenze, che tuttavia non ne
inficiavano la bontà e l’efficacia dell’apostolato[3].
Per cercare dunque questo elemento
capace di far esplodere una personalità assai singolare – su cui diremo alla
fine di questo intervento – dobbiamo immergerci nella cultura del tempo di
Lutero, o meglio nella formazione che gli studenti di teologia ricevevano da
parte dei loro maestri, in particolare nei regni germanici. Sarà questo la
sostanza che, posta a contatto con la persona di M. Lutero, condurrà alla deflagrazione,
le cui fiamme (e oggi ceneri) hanno in qualche modo scottato pure la Sposa di Cristo. Seguendo la felice
definizione dello storico calvinista Heiko Oberman, possiamo dire che gli initia Lutheri (la sua formazione
universitaria; la pratica dell’insegnamento accademico) costituiscono gli initia reformationis[4]. Non certamente nella
misura in cui si intende che Lutero era già eterodosso o ereticale prima di
definire con chiarezza i suoi convincimenti ed esporli in maniera
inequivocabile, ma nel senso che la formazione filosofica e teologica del
giovane Lutero unitamente alla sua complessa personalità e alla pratica delle
aule universitarie altro non sono che la “Riforma in potenza” che si
attualizzerà quindi nei modi e nei tempi che la storia ci testimonia. Ci
muoveremo pertanto lungo cinque assi portanti, che – vedrete – sono lo sfondo
necessario per comprendere Lutero:
1. il
nominalismo;
2. l’agostinismo;
3. la Deutsche Theologie e la mistica renana;
4. l’umanesimo;
5. e, infine,
la sua personalità.
Come
notate, non ho citato la Sacra Scrittura: essa infatti è l’oggetto verso cui
Lutero si volgerà con questa strumentazione filosofico-culturale pregressa che
ne condizionerà inevitabilmente l’interpretazione. Di questi cinque punti,
analizzeremo quelli fondamentali, cioè il primo, combinato col quinto.
Il
nominalismo
Il nominalismo è la dottrina dei
filosofi chiamati nominales o terministae, che rappresentarono una
delle correnti più importanti della Scolastica decadente. la figura di
riferimento a cui si fa ascendere questa impostazione filosofica è il
francescano Guglielmo da Ockham[5]. Ockham rifiuta ogni
posizione concordista, che voglia cioè mostrare l'accordo fra la fede e la
filosofia d'impianto greco. Questo rifiuto, che risuona in tutte le sue
dottrine, è stato interpretato come una forma di scetticismo, in cui si sarebbe
espressa la “crisi” del sistema filosofico tomista che aveva ormai raggiunto e
superato il suo vertice più alto (e in parte è vero: il XIV secolo segna un
periodo di decadenza della scolastica). In realtà, Ockham è piuttosto l’iniziatore
di un nuovo modo di pensare, chiamato modernus.
La via antiqua è ormai considerata
quella dei filosofi realisti, come Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto,
mentre la via moderna viene
considerata l’impostazione nuova data da Ockham all’interpretazione di
Aristotele nonché alle sue conseguenze in teologia. E questo è l’aspetto
cardine della mia relazione, più ancora che la persona di Lutero: lo stretto
rapporto tra filosofia e teologia, perché da una cattiva o insufficiente
impostazione filosofica ne scaturisce necessariamente un sistema teologico
ancor più pericoloso…
Il
nominalismo di Ockham è prima di tutto un nominalismo logico, che si sviluppa a
partire dalla tradizione delle Summulae
logicales di Pietro Ispano[6]. Per semplificare al
massimo, ci concentreremo su due sentenze di Ockham che interessano il nostro
lavoro, così come ci sono state tramandate dai suoi discepoli: «Dio può fare
tutto ciò che può essere fatto senza contraddizione» e «Non bisogna moltiplicare
gli enti senza necessità» (“rasoio” di Ockham). Ockham, da un lato esaspera il
primo articolo del Credo (Credo in Deum,
Patrem omnipotentem), cioè l’onnipotenza divina (potentia absoluta), di fatto slegandola dalla sapienza e dall’amore
con cui Dio ha creato e regge l’universo in vista di un fine (potentia ordinata); dall’altro relega a
puro ente di ragione (astratto) tutto ciò che non è un individuo, in particolare
i concetti universali. Questo, in poche parole, significa che non è possibile
alla mente umana, in pratica, reperire elementi comuni a specie e generi che
servirebbero a fondare una teoria della conoscenza organica. Così, p. es., non
esiste in nessun caso il concetto di “uomo”, ma esisterà solo “Paolo” che sarà
diverso da “Pietro”, perché li nomino in due modi diversi. “Uomo” invece è solo
un concetto che esiste nella mente e che è utile semplicimente ai fini
espressivi, ma che nulla dice della realtà extramentale.
Quali
sono le conseguenze di ciò? L’epistemologia di Ockham disarticola la teologia
naturale o razionale e quella speculativa. Se nell’ontologia metafisica di
Tommaso la natura e la sopranatura, pur essendo realmente distinte, sono
congiunte dall’Essere stesso di Dio, Causa Prima sussitente e Primo Motore
della realtà, il Quale conferisce e promuove una causalità seconda propria
degli enti creati, governando l’universo colla sua provvidenza (potentia ordinata), per Ockham non è
possibile ricondurre l’ordine del mondo a un ordine precedente l'atto della
creazione, e cade pertanto un postulato fondamentale dell’aristotelismo
scolastico: l'esistenza di un piano ideale o essenziale della creazione,
comprensibile da parte della ragione umana; diventa pertanto impossibile
attingere razionalmente i “preamboli della fede” a partire dalla conoscenza
delle cose (nozione centrale nella filosofia tomista). Dunque: non c’è nessuna
relazione o analogia tra la creazione e Dio, anzi: nulla la creazione ci dice
di Dio. «Un universo in cui nessuna necessità intellegibile s’interpone,
nemmeno in Dio, tra la sua essenza e le sue opere, è radicalmente contingente
[cioè accidentale], non soltanto nella sua esistenza, ma nella sua
intellegibilità»[7].
Addirittura, anche l’intuizione sensibile – l’unica fonte di conoscenza per
l’uomo – potrebbe essere falsificata dalla potenza di Dio che potrebbbe
produrre un effetto senza la causa seconda o produrre un effetto in atteso da
una causa o indurci a credere qualcosa che non esiste. Il “contingentismo
radicale” di Ockham dunque rescinde drasticamente il legame che collega il
creato al Creatore, l’uomo a Dio.
Forzando il ragionamento, per
parafrasare il venerabilis inceptor,
Dio avrebbe potuto farsi parimenti uomo, asino, legno o pietra, poiché questi
altro non sono che nomi assegnati a queste realtà, che nulla hanno in sé di
archetipico e universale (essenza) secondo un progetto divino, ma che sono solo
enti individuali. E se Dio avesse deciso
di diventare pietra, noi adoreremmo una pietra. Nessuna convenienza consigliava
di farsi uomo, ma solo un atto assoluto della sua volontà.
La
prospettiva tradizionale della luce divina, alla quale partecipa l’intelletto
umano secondo un triplice livello (della ragione, della fede e della visione
beatifica) è completamente sfasata nel pensiero ockhamista. Ma le conseguenze
sono ancora altre. Nell’ambito morale, l’uomo non può meritare nulla da sé,
poiché la sua salvezza eterna non dipende da ciò che fa sotto la mozione della
grazia efficace, ma semplicemente dalla libera volontà di Dio (non
dimentichiamo che per Ockham intelletto e volontà di Dio coincidono, con una
semplificazione nella Voluntas absoluta!),
il quale potrebbe salvare Giuda e dannare Pietro, indipendentemente dalla
grazia e dai meriti, ma solo conformemente alla sua volontà. Ockham destituisce
di ogni fondamento la dottrina tradizionale dell’habitus. L’habitus
è una qualità accidentale dell’uomo, che consiste in una stabile disposizione
delle facoltà del soggetto verso un certo tipo di atti e si acquisisce
attraverso la ripetizione di questi ultimi. Se positivo si parla di virtù, se
negativo si parla di vizio. Così Aristotele e Tommaso sostengono. Anche la
grazia creata è tradizionalmente definita dalla scolastica come un habitus soprannaturale (si badi bene,
non naturale!) che inerisce all’anima, rendendola gradita a Dio e capace di
porre azioni buone e meritorie[8]. Perché dunque un’anima
compia opere meritorie, sia gradita a Dio e giustificata, è necessaria la
Grazia[9]. A fronte di tutto ciò
Ockham scrive: «Pur essendo posta in un’anima una forma qualunque, puramente
soprannaturale, formalmente inerente [p. es. la Grazia, la Carità], è sempre
nella potenza assoluta di Dio l’accettare o no quest’anima»[10]. Ockham estende dunque la
contingenza della creazione alla contingenza dell’atto con il quale Dio ama e
premia la creatura.
Così, i precetti della Legge non
vietano o promuovono nulla di ragionevolmente cattivo o buono, ma semplicemente
sono tali perché Dio li ha comandati in questo modo: ma se l’avesse voluto,
Egli avrebbe potuto ordinare l’odio, l’omicidio, l’adulterio, e vietare la
pietà e la virtù. E queste azioni non sarebbero state più o meno giuste, più o
meno peccaminose. Nulla di più, nulla di meno…
Pertanto, un atto è meritorio o
riprovevole solo perché Dio ha stabilito in quel modo, ma avrebbe benissimo
potuto fare il contrario. Un peccato non è mortale e un’azione non è meritoria
se non per il fatto che Dio ha voluto così, misteriosamente: «È per questo che,
per il fatto stesso che Dio lo vuole, ciò è giusto»[11]. Il creato, l’uomo,
l’anima, Dio: tutto è reciprocamente estrinseco, e nulla può aiutare a risalire
la scala del ritorno intellettuale-esistenziale delle creature al Creatore, se
non la sola volontà (insondabile!) del Creatore Medesimo. I fatti naturali e
soprannaturali non sono retti da regole interne impresse sapientemente da Dio e
da Lui stesso rispettate (potentia ordinata), ma altro non sono che occasioni
perché Dio agisca in un determinato modo (ma potrebbe anche agire
diversamente), secondo un suo insondabile decretum
o pactum Dei → occasionalismo. Questo
vale anche per i Sacramenti. Non soltanto Dio può agire senza i Sacramenti
della Nuova Legge, ma essi soprattutto non sono concepiti da Ockham come cause
strumentali efficaci della grazia. Essi non operano nell’anima dell’uomo la grazia
a partire dalla virtus impressa loro da Cristo stesso nell’istituirli, ma sono
solo delle condizioni, delle occasioni fissate da Dio per infondere la grazia.
La quale, non passa attraverso l’azione sacramentale (che ne sarebbe, appunto,
causa strumentale), ma viene elargita soltanto all’occasione di essa[12]. Soltanto una fede
fiduaciale e volontaristica, che si ostina a credere nonostante tutto –
potremmo dire, può sostenere il credente nel corso dell’esistenza. Così
dicendo, Ockham rinuncia all’idea che la ragione possa risalire al progetto
originario dell’intelletto divino o alla motivazione originaria della volontà
divina. Qual è la conclusione di questo ragionamento? Il progetto di Ockham è
ambizioso: mostrare che non vi sono argomenti per provare che la fede sia
giustificabile razionalmente. Fede e ragione son al limite giustapposte. La
ragione può certamente aiutare l’uomo a definire e a dar conto dei contenuti
della fede. Ma il valore della fede risiede interamente nell’atto con cui
l’uomo dà il suo assenso incondizionato alle verità della Rivelazione
(liberamente tratto da F. Amerini, Treccani-on line). Per difendere le sovrane
libertà e gratuità di Dio, Ockham Lo condanna all’arbitrio! L’analogia
dell’ente rispetto al Creatore così come la dottrina della partecipazione
dell’ente finito alla perfezione del Creatore infinito, tanto a livello
naturale che soprannaturale, decade completamente come illusoria.
Mi sia concessa un’ultima parola
sulla Chiesa. Essa è definita da Ockham come tota congregatio fidelium simul in hac vita mortali degentium, cioè
“l’insieme di tutti i fedeli che si trovano in questa vita mortale”. Secondo
Tommaso, Cristo e la Chiesa costituiscono un unico organismo mistico (una persona mystica)[13]; in altri termini, la
Chiesa in primis non è una realtà
numerica o sociale, ma realtà misterica, liturgica e sacramentale, appunto
“Corpo Mistico di Cristo”: ed è Cristo stesso, Che con la sua grazia capitale (gratia capitis), la rende sempre santa e
capace di santificare i suoi figli. Per Ockham, nulla di tutto ciò: la Chiesa
si risolve nella sua fattualità, nel suo esserci numericamente, nel suo
congregare materialmente fedeli. Non è Lutero, questo, è
ancora Ockham…
Incidenza
del nominalismo sul pensiero di Lutero
«[…] il nominalismo […] sviluppa un relativismo
metafisico e morale nel quale l’interesse per l’esperienza concreta e il gusto
delle evidenze immediate tendono ad esaltare la percezione religiosa a
detrimento della ragione teologica»[14].
Il
nominalismo verrà, in qualche modo, declinato anche in chiave scolastica, come
il commentario alle Sentenze di
Pietro Lombardo di Gabriel Biel (+ Tubinga 1495), “articolato portavoce della
via moderna e … un utente esigente del pensiero della via antica" (Oberman).
Dunque: tra Tommaso e Ockham[15]. La teologia delle Sentenze di Biel è il testo su cui si
formerà il giovane Lutero dal punto di vista teologico; testo che egli non
riconoscerà come scolastica nominalista, ma come scolastica tout court. Da esso trarrà per lo più
idee approssimative e superficiali, soprattutto ritenendo che il pensiero
ockhamista di Biel rifletta genuinamente il pensiero di Tommaso. Lutero avrebbe
già potuto ricorrere a interpreti autentici del genuino spirito di san Tommaso,
come p. es. Giovanni Capreolus (+
Rodez 1444) e le sue Defensiones
theologiae divi Thomae Aquinatis, oppure alla lettura di prima mano della Summa theologiae dell’Aquinate, ma non
lo fece: acriticamente accettò come tomista la teologia di Biel.
E benchè sostanzialmente
equilibrato, Gabriel Biel lascia prevalere lo spirito nominalista rispetto a
quello “tommasiano”, alterando necessariamente il pensiero di San Tommaso. Sarà
questa la scolastica che Lutero detesterà con tutto il suo essere; contro la
quale scriverà le celebri Conclusiones
contra scholasticam theologiam (4 settembre 1517), contro quelli che egli
chiamerà teologi scrofe (sawtheologen),
cioè gli scolastici di tutti i tempi, da Alberto Magno a Tommaso a Biel. E
tuttavia, pur dileggiando il fabulator
Aristotele e tutti i teologi scolastici che ne avevano assunto il sistema
filosofico, non ricuserà mai colui che continuerà a chiamare come magister meus, come prudentissimus et doctissimus, quanto alle intuizioni metodologiche
e teologiche: Guglielmo da Ockham, a cui, a detta dello stesso Lutero, mancò
soltanto lo slancio retorico per esporre al meglio le sue idee e difenderle.
Tutto
ciò premesso, avviciniamo ora questa detonante formazione intellettuale e
filosofica alle “fiamme” dell’indole di Lutero. J. Maritain, in un suo memorabile
scritto, così lo descrive: «[…] Martin Lutero era dotato d’una natura
realistica e lirica insieme, potente, impulsiva, coraggiosa e dolorante,
sentimentale e morbosamente impressionabile. Questo violento aveva pur bontà,
generosità, tenerezza. Ed insieme, un orgoglio indomito, una vanità petulante.
la parte della ragione era in lui assai debole.»[16]; «Ciò che colpisce,
innanzi tutto, nella fisionomia di Lutero, è l’egocentrismo: qualche cosa di
molto di più sottile, molto più profondo e molto più grave dell’egoismo; un egoismo
metafisico. L’io di Lutero diviene praticamente il centro di gravitazione di
ogni cosa, e innanzi tutto nell’ordine spirituale»[17]. E dopo aver conosciuto
il retroscena filosofico di Lutero; dopo averne conosciuta la personalità
travolgente; ascoltiamone ora la voce, eco del nominalismo di Ockham combinato
coll’agostinismo spinto del tempo applicato alla sacra pagina della Scrittura.
1. La theologia
crucis: per L. la theologia
gloriae (cioè la teol. naturale, basata sull’analogia dell’ente e la
partecipazione) è solo un cumulo di sofismi. Ciò che conta è guardare l’unica
cosa che di Dio possiamo dire: che è stato crocifisso in gesù Cristo. Guardando
Cristo crocifisso, noi non conosciamo Chi è Dio,le sue perfezioni, i suoi
attributi, ma ciò che ha fatto per noi (solus
Christus). Pertanto, la th. crucis rimane sempre oscura, opaca. «Abbiamo a
che fare con un Dio velato» → Deus
absconditus. la teologia di Lutero è una “teologia del contrario”, cioè
essa annichilisce e contraddice tutto ciò che la ragione umana può, col suo
proprio lume, arrivare a dire di Dio, circa la sua esistenza, le sue qualità,
la sua azione nel mondo. Dio si manifesta sub
specie contraria: L. dice che per essere verità si fa menzogna e per
operare da Dio, non esita a farsi diavolo (Sciamus
igitur Deum abscondere se sub specie pessimi diaboli: WA In Genesim 44, p. 429) →sfiducia nella ragione umana, anch’essa
irrimediabilmente corrotta come l’uomo del resto: invece che fides et ratio,
sola fide sine ratione!
2. predestinazione e sola Fide: la dottrina della
predestinazione in Lutero va vista nell’ambito della giustificazione per lasola
fede. Già nel 1517, prima delle 95 Tesi di Wittenberg, nella discussione di
alcune proposizionicontro la teologia scolastica, egli formulava un enunciato,
secondo cui «l’unica disposizione nei confronti
della grazia è l’eterna elezione e predestinazione di Dio». All’obiezione di chi vuole discutere il disegno
di Dio, Lutero risponde con le parole di Paolo che invita a non essere
presuntuosi: «O uomo, chi mai sei tu
che replichi a Dio?»; e conclude dandone la ragione: «Il vasaio non ha forse il potere di plasmare l’argilla?» (vd. Rom
9, 20-21) […] «Dio vuole così, e volendo
così non è ingiusto, perché tutto gli
appartiene come l’argilla al vasaio».
3. Sola
gratia: gli esseri finiti non
possiedono azione causale efficiente, ma sono
mere cause occasionali dell'azione di Dio. Le creature sono semplici
condizioni, ovvero strumenti passivi dell'agire di Dio. L’uomo
non è in grado di fare nulla di buono né per sé né per altri, in ambito sia
naturale che soprannaturale. Lutero sostiene a più riprese che l’uomo è pura
passività e incapacità all’azione. E proprio a partire da questa consapevolezza
allora egli può dire che Cristo agisce in noi senza di noi; che Egli solo
opera, noi solo pecchiamo, anche quando sembriamo operare il bene, tanto è
corrotta la nostra natura. Lutero si allontana – con Ockham – dalla
tradizionale dottrina dell’habitus
soprannaturale e delle virtù infuse, per approdare da un lato a un deprimente
naturalismo, dall’altro a un fideismo metarazionale. Purchè tu abbia
fede-fiducia di essere stato salvato per grazia, tu non hai nulla da temere
davanti a Dio Padre. Cristo ti copre coi suoi meriti (ma ti lascia quello che
sei!). Così, anche i Sacramenti per Lutero non sono segni efficaci della grazia
che agiscono come strumenti di Cristo, ma solo occasioni (neppure le uniche) in
cui questa grazia viene rinnovata da Dio stesso (senza passare attraverso i
segni sacramentali) se TU VUOI CREDERE.
4. Lutero e la Chiesa: Nella
Confessione Augustana del 1530 Art. 7 la chiesa viene definita come segue: “La
chiesa è l’assemblea dei credenti in cui l’Evangelo viene predicato puramente e
in cui vengono amministrati i sacramenti secondo il Vangelo.” Nella visione
luterana, la chiesa è l’assemblea dei credenti. Quindi non esiste una chiesa
indipendentemente dai credenti, alla quale questi potrebbero partecipare. Siamo
noi la chiesa – o meglio una parte di essa. Visto che la chiesa ha le sue
radici nella fede delle singole persone, le chiese luterane vedono la piena
realizzazione della Chiesa nella comunità locale
5. “Come posso avere un Dio misericordioso?” Di fronte
a questo contesto, filosofico e quindi con sequenzialmente, teologico, sembra
scaturire ovvia la domanda che tanto sgomentava Lutero: Come posso avere un Dio misericordioso? Esito è il celebre “avvenimento/rivelazione
della torre” (das Turmerlebnis), dopo
una notte angosciosa, in cui rifletteva sul testo di Romani 1, 17: É in esso [scil. nel Vangelo] che si
rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede. «Mentre
meditavo giorno e notte ed esaminavo il concatenamento delle parole seguenti:
La giustizia di Dio è rivelata in esso (cioè nell’evangelo) da fede a fede come
è scritto: il giusto vivrà per fede, cominciai a capire che la giustizia di Dio
è quella per la quale il giusto vive per il dono di Dio, cioè per la fede, e
che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, per mezzo
della quale il giusto “vive”, se ha fede. Il senso della frase è dunque questo:
l’evangelo ci rivela sì la giustizia di Dio, ma la giustizia passiva, per mezzo
della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifica mediante la fede, come è
scritto: il giusto vivrà per fede. A questo punto mi sentii rinascere, e mi
parve che si spalancassero per me molte porte del paradiso. […] Cominciai a percorrere le Scritture, e notai
altri termini che si dovevano spiegare in modo analogo: l’opera di Dio, cioè
l’opera che egli compie in noi; la potenza di Dio, mediante la quale egli ci dà
forza; la salvezza, la gloria di Dio. Come avevo odiato prima l’espressione giustizia
di Dio, altrettanto amavo ed esaltavo ora quella parola dolcissima. Così quel
passo di Paolo divenne per me la porta del paradiso. In seguito lessi lo
scritto di Agostino “De Spiritu et littera” e mi accorsi che interpreta la
giustizia di Dio in modo del tutto analogo, cioè intende la giustizia di cui
Dio ci riveste, giustificandoci. Ebbi così la gioia di constatare che la
giustizia di Dio, per Agostino, è quella grazia a cui siamo giustificati» (WA LIV,185s).
Da un sistema filosofico
inadeguato, dicevamo all’inizio, proviene una teologia parziale o errata, con
pesanti ricadute sulle persone e sulla Chiesa, come nel caso presente; questo è
accaduto ai tempi di Lutero, con singolare eco che raggiunge ancora i nostri
giorni; ma questo è il rischio (o forse è già un fatto…) che corrono oggi la
teologia e il pensiero cattolico quando archiviano la philosophia perennis e si volgono a “fatue verbosità”(1Tim 1, 6), filosofiche e teologiche.
[1] Goethes Werke, Weimar 1887, IV, 28.
[2] Cfr. e.g. Heiko A. Oberman, The Dawn of the Reformations. Essays in Late
Medieval and Early Reformation Thought, W.B. Eerdmans Publishing Company,
Grand Rapids-Michigan, 1992, p. 52: «Luther is his own man, at once a God-made and self-made man»; Jean-Yves
Lacoste, Storia della Teologia,
Brescia, Queriniana, 2011, p. 249: «Il punto di partenza non deve far
dimenticare il carattere profondamente esistenziale del pensiero di Lutero. I suoi primi anni di
eremita agostiniano sono anni di crisi spirituale».
[3] Già questo aspetto era
stato messo in luce A. Piolanti, Il
Protestantesimo ieri e oggi; Pontificia
Università Lateranense, Roma, 1958; quindi, non dobbiamo dimenticare E. Duffy, The stripping of the Altars. Traditional
Religion in England, 1400–1580, Yale University Press, 20052 (1992);
recentissimamente, vd. D. MacCulloch, Riforma.
La divisione della casa comune europea (1490-1700), Carocci, Roma, 2017,
pp. 20 ss.
[4] Oberman,
The Dawn of the Reformations, cit., pp. 50 ss.
[5] Nato verso il 1280 nel Surrey, in
Inghilterra, entrò nell’ordine francescano prima del 1306. Nel 1318 era ancora
studente di teologia ad Oxford, dove iniziò la carriera d’insegnamento facendo
lezione sulle Sentenze di Pietro Lombardo e sulla Sacra Scrittura come
baccelliere ed ottenendo un immediato successo. Negli anni oxoniensi, oltre al
commento alle Sentenze (conosciuto col titolo di Ordinatio per la prima parte, Reportatio
per la seconda), aveva scritto due trattati di logica (Expositio aurea, Summa totius logicae), commenti ad Aristotele
(alla Fisica e ad opere di logica), e sette questioni quodlibetali su argomenti
di natura filosofica e teologica. Ockham però non diventò mai magister perché
nel 1323 il cancelliere dell’università di Oxford, Giovanni Lutterell, accusò
presso il pontefice la sua opera di contenere falsità filosofiche, eresie
religiose e aberrazioni morali. Nel 1324 il filosofo fu convocato presso la
curia papale ad Avignone e rinchiuso nel convento francescano, per essere
processato. Il processo però non arrivò mai alla conclusione, perché nel 1328
Guglielmo d' Ockham fuggì da Avignone a Pisa insieme a Michele da Cesena, il
generale dell'ordine francescano, anch’egli messo sotto processo perché
favoriva il movimento degli Spirituali. I due si schierarono al fianco
dell'imperatore Ludovico il Bavaro che, incoronato a Roma all' inizio del 1328,
aveva dichiarato deposto il papa Giovanni XXII (che Michele considerava
eretico) pochi mesi dopo. Fra il sostenitore della povertà evangelica e il
francescano inglese esisteva una convergenza di fondo, che si manifestò negli
scritti di Ockham successivi alla fuga da Avignone, opere teologico-politiche
spesso fortemente polemiche: l'Opus nonaginta dierum (1333-1334), sulla povertà
francescana; il Dialogus de imperio et pontificia potestate (1342); il Breviloquium
de potestate papae e l' ultimo grande scritto, De imperatorum et pontificum
potestate, scritto nel 1347. Inoltre otto quaestiones sulla distinzione fra il
potere spirituale e il potere civile e, forse, le Allegationes de potestate
imperatoris (la cui attribuzione è dubbia). Ockham morì a Monaco, probabilmente
nel 1347. Sul pensiero filosofico e teologico di Ockham, vd. l’ottima sintesi
di Joel Biard, Guglielmo di Ockham e la
teologia, in Figure del pensiero
medievale, vol. VI: La via moderna,
Jaca Book, Milano, 2010, pp. 3-59.
[6] Petrus
Hispanus, nome che accomuna il futuro papa Giovanni XXI (+ Viterbo 1277) a un
non meglio conosciuto frate domenicano spagnolo che visse nella prima metà del
tredicesimo secolo a cui vanno ascritte le opere di logica, in particolare le Summulae logicales, che ebbero un enorme
successo nei secoli successivi.
[7] Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini
patristiche alla fine del XIV secolo, Bur, Milano, 2011, p. 746.
[8] La Grazia per antonomasia
è la Grazia abituale e si può
definire come un dono soprannaturale, creato da Dio, che inerisce
intrinsecamente ed in maniera permanente nell'anima, per cui l'uomo diventa
partecipe della divina natura. Si chiama perciò anche Grazia santificante o
giustificante, poiché per essa l'uomo diventa santo, cioé conforme a Dio e
giusto, da peccatore che era prima. L'esistenza della Grazia santificante, come
qualcosa che aderisce intrinsecamente all'anima, santificandola, è definita dal
Concilio Tridentino contro Lutero.
[9] Vd. Thom. Aq., STh. I-II q. 109 (de necessitate gratiae).
[10] Sent. I, d. 17, q. I, 449.
[11] Sent. IV,
q. X-XI, 198.
[12] Sent. IV, q. I, 12-13.
[13] È pur vero che anche S. Tommaso
ricorre alla definizione congregatio
fidelium per indicare la Chiesa. Tuttavia, «Ciò che distingue questa
congregazione da altre congregazioni non si colloca sul piano della struttura giuridica e
sociale, ma piuttosto su quello del rapporto con Dio Trinità e, di conseguenza,
della condotta morale che deve seguire da tale rapporto» (G. Sabra, Thomas Aquinas’ Vision of the Church,
Grünewald, 1987, p. 57).
[14] Marie Dominque Chenu, La Théologie au XII siècle, Vrin, Paris,
1976.
[15] Su Gabriel Biel, vd.
Elisabeth Reinhardt, Il recupero
dell’equilibrio teologico in Gabriel Biel, in Figure del pensiero medievale, vol. VI: La via moderna, Jaca Book, Milano, 2010, pp. 137-151.
[16] Jacques Maritain, Tre riformatori. Lutero Cartesio Rousseau,
Morcelliana, Brescia, 2001 (7 ed.), p. 44.
[17] Ibid. pp. 53-54.
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